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domenica 8 aprile 2018

FUGA DA ALCATRAZ

128_FUGA DA ALCATRAZ (Escape from Alcatraz). Stati Uniti, 1979;  Regia di Don Siegel.

Don Siegel e Clint Eastwood tornano a lavorare insieme, per la quinta volta e dopo otto anni da quel Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! che aveva visto per la prima volta sugli schermi le gesta di Dirty Harry, il durissimo poliziotto. Stavolta però il vecchio Don affibbia a Clint un ruolo che sta dall’altra parte della barricata, ovvero quello di un incallito criminale, un detenuto: il famoso Frank Morris, l’uomo che evase da Alcatraz. E il film si intitola, appunto, Fuga da Alcatraz, ed è una ricostruzione cinematografica, tutto sommato abbastanza fedele, della mitica evasione da quello che, fino allora, sembrava un carcere da cui fosse impossibile scappare. La mano sapiente del regista, che gira con geometrico rigore, tiene lo spettatore sulla corda, dando una sublime prova di maestria nella tecnica della suspense. Ma la cosa che salta all’occhio è l’apparente assenza di un quadro morale, enfatizzata dal fatto che la regia preveda, e soprattutto induca nello spettatore, una simpatia totalmente schierata a favore dei detenuti a discapito degli agenti di custodia. Il film è concentrato su pochi elementi: gli uomini rinchiusi devono trovare il modo di scappare; eppure, pur con questi pochi elementi, Siegel riesce a trarne un analisi niente affatto banale della società americana. Il direttore del carcere (Patrick McGoohan) quando riceve Morris spiega la funzione sociale di Alcatraz: “se disobbedisci alle regole della società, ti mandano in prigione. Se disobbedisci alle regole della prigione, ti mandano da noi. […] Noi non creiamo buoni cittadini, però creiamo buoni detenuti.” In sostanza si evidenzia una lacuna della società americana: l’incapacità di gestire il problema sociale di chi esce dai confini legali, perlomeno di gestirlo in modo completo.

Se viene permesso un abomino come Alcatraz, significa, non solo che la società non è in grado di correggere tutti i propri membri che sbagliano, ma che lo mette già in conto: questa differenza tra chi sbaglia una prima volta e chi, tra questi, continua a sbagliare e deve quindi essere recuperato, diventa una percentuale già messa in preventivo e gestita tramite il carcere di massima sicurezza nella Baia di San Francisco. Ma questa è un’implicita ammissione di ingiustizia della società, perché porsi sullo stesso piano di chi ha sbagliato applicando la semplice equazione hai sbagliato, ora paghi, bilancia, verso il basso, il confronto. E, a questo punto, stare dalla parte sbagliata non corrisponde necessariamente più ad essere il cattivo della storia.

Una società che non si pone come obiettivo di essere giusta, non può nemmeno pretendere di esserlo; questo in assoluto, e meno che mai in un film che celebra la possibilità di centrare i propri obiettivi (la fuga dalla prigione), anche quando sembrano impossibili da perseguire. Siegel inoltre rifugge, almeno in parte, quelle tendenze contemporanee che giustificano la devianza dai comportamenti leciti con il disagio sociale dell’individuo. In uno dei dialoghi più riusciti, alla domanda: “Ma che razza di infanzia hai avuto?” Morris risponde seccamente “Breve.”
Anche in questo caso, pur nel minimalismo dell’opera, la disamina è centrata: non si nega che ci sia un disagio sociale nell’individuo (avere un’infanzia breve significa essere chiamato in fretta alla vita adulta, senza adeguato percorso di crescita), ma non è detto che sia questo ad essere sotto accusa, anche perché l’individuo in questione dimostra, nei fatti, di avere un codice morale (la lealtà coi compagni di fuga, l’umanità verso Doc, Tornasole, English), forgiato, forse, proprio dalla durezza della propria esistenza. In ogni caso, se anche fosse la condizione disagiata di Morris la causa del suo essere un delinquente, la laconica risposta tronca questo tipo di approfondimento.
 Nonostante la durissima critica sociale che Siegel mette in scena in un film ambientato in una prigione, quasi senza donne e completamente senza bambini (che al cinema simboleggiano il futuro), con il protagonista che non avendo passato (non si ricorda quando è nato) forse quel futuro nemmeno ce l’ha, seppur con tutto questo, Fuga da Alcatraz è naturalmente un film positivo: Morris e i fratelli Anglin ce l’hanno fatta. A superare le acque della baia?
Quello non si sa, ma ad inseguire il proprio sogno sicuramente.



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