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martedì 17 aprile 2018

REBECCA, LA PRIMA MOGLIE

132_REBECCA, LA PRIMA MOGLIE (Rebecca). Stati Uniti, 1940;  Regia di Alfred Hitchcock

Prima opera americana del regista inglese Alfred Hitchcock, Rebecca, la prima moglie, un po’ a sorpresa, aspira dichiaratamente ad essere in tutto e per tutto un film inglese. Almeno stando alle ambizioni della produzione, capeggiata da quel David O. Selznick che con Via col vento era divenuto il re Mida di Hollywood. Proprio il successo del film di Victor Fleming aveva infatti convinto il vulcanico produttore che, nell’adattamento di un romanzo famoso, ci si debba attenere il più possibile ad esso. E qui cominciano i contrasti con Hitchcock, il talentuoso regista britannico ingaggiato per la regia, giunto ad Hollywood dopo i brillanti risultati ottenuti in patria; risultati che ne avevano sancito uno stile assai personale e autonomo da qualsiasi interferenza, almeno fino al precedente lungometraggio. Perché l’impostazione generale di Rebecca- la prima moglie rivela invece la matrice del produttore, visto che l’adattamento proposto da Hitchcock, non troppo fedele al romanzo, era stato scartato. C’è quindi una certa analogia tra questi presupposti e la trama del film: un elemento di novità viene introdotto in un ambiente di rango più elevato, i cui codici e regole ne tarpano le possibilità di espressione. Naturalmente è un caso che ci sia questa similitudine, perché di certo il regista non si sarebbe mai visto nei panni della Joan Fontaine protagonista di Rebecca- la prima moglie; però è una coincidenza curiosa e, forse questa non del tutto gratuita, una certa somiglianza tra Hollywood e Manderley si può cogliere. Il film è quindi una riproposizione in forma cinematografica del premiato romanzo omonimo della scrittrice Daphne du Maurier e, apparentemente, ne rimane abbastanza fedele, a parte qualche dettaglio. Uno di questi è legato all’incidente di Rebecca, la cui morte, pur se fortuita, nel romanzo ricadeva maggiormente sulla responsabilità del marito, Maxim de Winter (Laurence Oliver). Se è possibile ipotizzare che Hitchcock avrebbe volentieri eliminato l’elemento fortuito a favore di una maggiore e più diretta responsabilità del marito, il Codice Hays costrinse il regista a rimanere addirittura più vago, nella circostanza. 

Il lieto fine previsto tra Mister de Winter e la nuova moglie non era infatti assolutamente conciliabile con la colpevolezza dell’uomo. Questi dettagli possono dare l’idea delle difficoltà incontrate da Hitchcock nella sua prima prova americana: da una parte un produttore onnipotente e onnipresente come Selznick, fresco del successo di Via col vento e fermamente convinto che l’adattamento del romanzo dovesse esserne il più possibile fedele; dall’altra le feroci pastoie della censura del Codice Hays. Detto questo, il regista inglese riuscì comunque, e in modo impeccabile, a mettere il suo marchio sulla sua prima opera hollywoodiana. Il film ha una struttura composta: c’è un sogno che funge da prologo, una prima parte ambientata a Montecarlo, una seconda in cui la lussuosa residenza di Manderley assurge a protagonista, e una terza con le indagini finali.  

Il prologo potrebbe sembrare una sorta di presentazione: siamo calati in un sogno lugubre, immerso nella nebbia e nell’oscurità che sfuma nel flashback che dà avvio alla storia. La residenza mostrata è una dimora da incubo, degna di un film dell’orrore: ma forse si tratta di una falsa pista, visto che l’incipit della storia vera e propria, ovvero l’incontro tra la ragazza protagonista e il suo principe azzurro, avviene nientemeno che a Montecarlo. Lo stacco è sfumato, in verità, perché la prima scena della Costa Azzurra non è certo idilliaca: le rabbiose acque del Mar Mediterraneo sembrano aver ipnotizzato e ammaliato Max de Winter che si staglia immobile e pericolosamente quasi in bilico sul ciglio del precipizio. Comunque sia, la prima fase, quella dell’innamoramento tra la futura Mrs. de Winter e l’aristocratico uomo rientrerà nei ranghi di una classica storia d’amore, con risvolti anche umoristici ai danni della Signora Van Happer, la matrona presso la quale la ragazza era al servizio. Il dubbio che il preambolo e la scena dell’ipotetico tentato suicidio sulla scogliera non siano attendibili tracce, può venire, perché tutto sembra filare per il verso giusto. Eppure c’è sempre qualcosa che stona, anche nella romantica storia d’amore: Joan Fontaine è molto brava a suggerire i timori di una ragazza a cui capita qualcosa fuori dalla portata dei propri sogni, e il suo volto esprime continuamente moti di incertezza tra desiderio e timore. 

E anche gli sbalzi di umore, gli scatti ombrosi di de Winter non lasciano del tutto tranquilli: qualcosa ribolle sotto l’apparente romantica love story. Finalmente si arriva nel corpo centrale della storia, ambientata in quella che per certi versi è la vera protagonista dell’opera, la residenza di Manderley. Qui tutti i timori suggeriti dall’inizio del film e non smentiti del tutto neanche nella fase monegasca, trovano libero sfogo. La ragazza, di cui per tutto il film non si farà mai il nome, appare ora visibilmente più turbata, a fronte dell’imponenza delle sue paure concretizzatesi nell’edificio dimora dei de Winter. Manderley è enorme, con saloni e camere da sogno, sfarzo, lusso, ma anche regole, codici di comportamento, con un impatto tale da intimidire ulteriormente la novella sposa. A completare l’opera, la presenza di due fantasmi. Il primo è uno dei protagonisti del film, al punto di meritarsi l’onore del titolo: Rebecca, la prima moglie di Max de Winter. La presenza di Rebecca, una donna bellissima, di grandissima classe e dal fascino irresistibile, permea ancora la residenza e tutti gli abitanti, e il confronto con il suo inarrivabile charme schiaccerà ulteriormente la nuova signora de Winter. Qui la Fontaine si supera: i tantissimi primi piani che le regala il giovane maestro inglese ne colgono le mille emozioni che percorrono il viso, e l’attrice è bravissima a mostrare un’ingenuità d’espressione di rara efficacia.  

Dicevamo come curiosamente della ragazza da lei interpretata non si faccia mai il nome: come dire che non è nessuno; di contraltare, la presenza di Rebecca sarà opprimente per il riflesso in ogni dettaglio, ogni ricordo, ma nel film non vi sarà mai un’immagine che ne mostrerà le sembianze fisiche. D’altra parte abbiamo detto essere una sorta di fantasma, e i fantasmi si sa, sono incorporei. Beh, non è del tutto vero; è così nella tradizione, e Rebecca esprime l’ideale di fantasma, beninteso come presenza incombente. Ma Hitchcock ci regala un altro fantasma, di natura più cinematografica e quindi fisica, solida, filmabile insomma. E’ la governante, la terrorizzante Mrs. Danvers che nel film appare e scompare silenziosa; si muove, ma quasi senza camminare, come fosse una presenza sovrannaturale. Forte di questa sua aurea maligna arriva quasi fino ad indurre la nuova padrona di casa al suicidio. Se Manderley è un santuario, Rebecca ne è la divinità e la Danvers il sommo sacerdote. A fronte di una simile triplice alleanza, la situazione per la nuova Mrs. de Winter appare disperata, e anche il periodo felice prima dell’arrivo a Manderley finisce per apparire flebile come il filmino della loro luna di miele che in effetti si rompe durante la proiezione. Ma la ragazza è insospettabilmente tenace, non si perde d’animo e prova il tutto per tutto per prendersi Manderley: il tranello della Danvers manderà all’aria i suoi piani, nel modo più subdolo, ma un ulteriore colpo di scena rimescolerà di nuovo le carte, che a quel punto sarebbero state assai brutte per la nostra giovine eroina. Ci si trova così nella parte finale della storia, quella con l’indagine di tipo investigativo con tanto di una sorta di processo. 

Ora il dubbio assale non solo la nostra povera ragazza ma anche lo spettatore: è colpevole Maxim de Winter oppure no? Nel racconto che l’uomo fa alla moglie, dovremmo dedurre di no, e così in effetti sarà; ma Hitchcock gioca non solo con gli spettatori, ma anche con i censori del codice Hays e li tiene sulla corda… che l’uomo abbia mentito e sia caduto vittima dell’ultima crudele trappola di Rebecca? La questione è infatti importante non solo per soddisfare la curiosità dello spettatore, ma anche perché da un piccolo particolare (Rebecca è caduta e ha battuto la testa, o è stata spinta da Max?) dipende anche il quadro morale dell’intero film. Oltre due ore di pellicola, appese a questo dettaglio: e mentre ci si interroga, ci si scopre a fare il tifo per quello che potrebbe essere un assassino, nello scontro finale che a Maxim oppone Jack Favell (Geroge Sanders), suo accusatore, nonché suo tentato ricattatore e, in precedenza, amante (e cugino) di Rebecca. Un individuo simpatico ma al contempo viscido, che per alcuni momenti, assume ipoteticamente un ruolo più onesto di de Winter: le sue colpe sono lievi al confronto di un omicidio e, se non altro, Favell non si spaccia per galantuomo, dimostrando maggior coerenza del rivale. 

Questa terza parte assume così una funzione di valutazione finale dell’opera, quasi fosse un commento essa stessa al film, più che il suo epilogo. L’ambiguità di Maxim, che sa di essere innocente ma teme di essere colpevole, o comunque condannato, ha la stessa matrice dei timori della seconda signora de Winter al cospetto con Manderley. Il lieto fine sembra dirci che l’unico modo per uscirne è affrontare ma  soprattutto superare il passato, che sia un cadavere che torna a galla o un’accusa di omicidio. Ma tutta la pellicola precedente ci ha diffidato dal fidarci delle apparenze. A partire da quelle più legate alla storia: Maxim sembrava adorasse Rebecca, invece la odiava; Rebecca veniva descritta come impeccabile invece era una donna immorale; la storia d’amore del film sembrava la fiaba di Cenerentola, ma si era trasformata in un incubo; si pensava che Rebecca fosse incinta, e invece aveva un cancro. 


E lo stesso potrebbe dirsi rimanendo su temi più generici: il mare, abitualmente simbolo di vita, diveniva in questa storia minaccioso custode della morte e la casa, da sempre rifugio sicuro, ora si presentava come luogo angosciante e terrorizzante. Sulla stessa falsariga potremmo valutare quindi il verdetto finale nei confronti di Maxim: un primo ribaltamento c’era già stato quando, ritenuto innocente, era sembrato colpevole dopo il ritrovamento del vero corpo di Rebecca. Il successivo contro ribaltamento, grazie alle parole del dottore sulla malattia di Rebecca, rimetteva l’uomo in bilico: era caduto nella trappola della diabolica donna, o ci era andato solo vicino e poi era soggiunta la sorte? Se in questa storia l’inganno era sempre in agguato dietro l’apparente certezza, qui era ancora più difficile capire dove potesse trovarsi, perché era già ambiguo ciò che si palesava come certo. Ma lo scartamento provocato dalle rivelazioni finali era altrove, e non nella colpevolezza o innocenza di Maxim; l’immagine di perfezione di Rebecca ora era davvero perduta, e a Mrs. Danvers non rimaneva che distruggerne Manderley, il santuario a lei dedicato.
Il rogo purificatore della residenza finiva così per benedire l’unione dei de Winter, con Maxim abbracciato alla sua giovane sposa, aggrappato a quella innocente ingenuità. 
Già, l’ingenuità: l’unica forza in grado di superare tutte le meschinità e bassezze di Manderley.


Joan Fontaine





domenica 15 aprile 2018

RIVOLTA AL BLOCCO 11

131_RIVOLTA AL BLOCCO 11 (Riot in Cell Block 11). Stati Uniti, 1954;  Regia di Don Siegel.

Ispirato all’ondata di rivolte che imperversarono nelle carceri americane dei primi anni ’50, Rivolta al Blocco 11 di Don Siegel è un film sobrio e asciutto che si apre quasi come un documentario, ma anche quando la storia raccontata prende corpo, non molla mai la presa dal nocciolo della questione. La questione in ballo è la condizione in cui sono tenuti i detenuti, davvero inumana; e questo è già inaccettabile di suo, ma è soprattutto la prima causa di quei disordini che hanno attraversato bene o male tutti gli istituti di pena del paese. L’argomento era certamente scottante e anche contingente, le rivolte scoppiarono nel 1952 e il film di Siegel è di due anni successivo e, forse anche per questo, il regista nato a Chicago opera questa scelta quasi documentaristica, per un film che ha il sapore di un atto di denuncia di stampo giornalistico. Tra i detenuti del famigerato Blocco 11 ce ne sono di tutti tipi, alcuni autentiche carogne (del resto è un carcere), come ad esempio Carnie (Leo Gordon), ma la sostanza delle loro richieste rimane legittima e condivisibile. La pensa così anche il direttore del carcere Reynold (Emile Meyer) che è disponibile a trattare con il leader della rivolta, Dunn (Neville Brand), un tipo duro ma non del tutto negativo. Una volta risolta la contesa, pur dopo numerose e prevedibili vicissitudini, i politicanti sconfesseranno l’accordo, e Dunn, forse colpevole di una visione troppo sindacalista con la sua battaglia in nome collettivo, simbolicamente pagherà con l’ergastolo.
Anche questa era, ed è, l’America.   









venerdì 13 aprile 2018

LE JENE DI CHICAGO

130_LE JENE DI CHICAGO (The narrow margin). Stati Uniti, 1952;  Regia di Richard Fleischer

Con pochi anni di carriera alle spalle, il trentaseienne Richard Fleischer può già essere considerato un esperto del genere noir: Bersaglio umano, Seguimi in silenzio, Sterminate la gang! Dopo questi già validi tre titoli, arriva la definitiva consacrazione con Le jene di Chicago: film teso e avvincente, fila dritto come il treno su cui è in gran parte ambientata la storia. Gli sviluppi della trama corrono anche loro dannatamente e si fatica a tenere il passo: siamo inevitabilmente in ritardo, anche rispetto al protagonista, il detective Walter Brown (Charles McGraw), che si accorge prima di noi dell’equivoco da lui stesso generato e che mette in pericolo Mrs Ann Sinclair (Jaqueline White). Ma del resto lo dice la stessa donna al detective: quando il treno marcia spedito è arduo capire come realmente stiano le cose, che invece si chiariscono meglio durante le soste. Nel film di Fleischer, però, di soste ce ne sono poche, e quindi siamo in costante affanno, divisi tra la paura di quello che può accadere alla ragazza che il detective deve proteggere, Frankie Neal (una sinuosa Marie Windsor) e il dubbio se valga la pena darsi tanto da fare per un tipo di donna “a buon mercato, volgare, vistosa e perfida come una vipera”, per usare le stesse parole del detective.

Una donna che non vale i 5 dollari della scommessa fatta con il collega poliziotto; figuriamoci la vita dello stesso compagno che viene ucciso appena presa in consegna la preziosa testimone. Già, perché Frankie è la vedova di un gangster e deve ora testimoniare a processo rivelando i membri della gang del marito. Ma le cose non sono come sembrano, non sul treno di Le jene di Chicago: il viaggiatore grasso, non è solo un comune passeggero, il bambino non è figlio di Nanny, che è la sua governante, ma di Mrs Ann che, a sua volta, non è una semplice donna in viaggio di piacere: insomma, più ci si avvicina alla meta, più ci si accorge che quanto si supponeva era sbagliato. Del resto anche il film si risolve con il detective che riesce a fregare il gangster (che tiene Mrs Sinclair in ostaggio) guardandone il riflesso: insomma, per capire le cose non basta guardarle direttamente, occorre un sguardo di lato, riflesso appunto.

E poi c’è l’oggetto della storia, la ragazza presa in custodia (e che è la protagonista passiva della vicenda, ovvero colei che viene presa in consegna, custodita e consegnata) che solo dopo essere uccisa si rivela completamente l’opposto di quanto apparsa ad un primo sguardo. Anzi, nel suo caso l’apparenza ingannò due volte: Frankie Neal non solo non era la moglie di un gangster, ma era addirittura una poliziotta che indagava sulla corruzione nella stessa polizia.
E comunque valeva molto di più di 5 dollari.  




Marie Windsor




mercoledì 11 aprile 2018

L'UOMO DI ALCATRAZ

129_L'UOMO DI ALCATRAZ (Birdman of Alcatraz). Stati Uniti, 1962;  Regia di John Frankenheimer

Il giovane regista John Frankenheimer fonda il suo L’uomo di Alcatraz sulle possenti spalle di Burt Lancaster, e l’attore non  delude le attese ma sostiene come un vero baluardo il peso di una pellicola nient’affatto semplice. Nel cast ci sono altri attori di grande personalità come Karl Malden o Terry Savalas, o anche Thelma Ritter, ma nessuno riesce a scalfire minimamente il carisma che emana la possente figura morale di Robert Stroud, il personaggio storicamente esistito, interpretato in modo magistrale dall’attore nato nel quartiere newyorkese di Harlem. L’uomo di Alcatraz è infatti un film basato su un romanzo biografico che racconta la vita di un ergastolano che, condannato al perenne isolamento, si dedicherà all’allevamento dei canarini, divenendo nel tempo il massimo esperto mondiale per ciò che concerne le malattie di questi volatili. Il racconto filmico si snoda lungo una gran parte della vita di Stroud e, nel corso del lungometraggio, possiamo assistere ad una trasformazione lenta ma continua nel carattere del protagonista, che per altro riesce a rimanere sempre fedele alla propria indomita dignità. E proprio questo suo non piegare mai il capo gli crea più di un problema; infatti, se il cattivo carattere col tempo gli si smussa, e l’uomo impara a riconoscere i propri errori, di contro Stroud non rinuncerà mai ad essere e a ritenersi un uomo con la propria indipendenza e dignità. Concetti che, se riferiti ad un pluriomicida condannato all’ergastolo, suonano un po’ difficili da accettare per le autorità del tempo, Harvey Shoemaker (interpretato in modo impeccabile da Karl Malden) in primis.
Shoemaker è il direttore del penitenziario in cui viene incarcerato per la prima volta Stroud e con il quale si innescherà subito un rapporto difficile. Pur se dai toni e dai modi paternalistici, il direttore è un uomo inflessibile che sogna di redimere a forza ogni detenuto, piegando ogni istinto e inclinazione ad un modello conformato di recluso: nessuna possibilità di intesa con Robert birdman Stroud che, specie nei suoi primi anni di soggiorno forzato, era davvero un osso duro impossibile da addomesticare. Shoemaker verrà trasferito a Washington, al dipartimento dei Penitenziari in un primo momento (e troverà il modo di vendicarsi su Stroud), e ad Alcatraz poi, dove ritroverà lo stesso birdman, stavolta in apparenza più accomodante. In realtà Stroud sta’ lavorando ad un testo, in questo caso non di ornitologia ma sulla condizione carceraria, che rinverdirà gli antichi contrasti tra i due uomini.
Il film, girato con mano solidissima da Frankenheimer e ripreso in uno splendido bianco e nero, procede con ritmo implacabile, forse un po’ lento ma senza cedimenti. D’altra parte al centro della scena c’è Burt Lancaster che non molla mai un millimetro: straordinaria la parabola che tratteggia, partendo da un personaggio granitico, assolutamente arroccato su stesso e inattaccabile da qualsivoglia cosa, a uomo sensibile e attento all’importanza delle più piccole sfumature.

Ma sempre con la stessa incrollabile, individualistica dignità del tipico eroe del cinema americano.
Già, eroe: nonostante le condanne per due omicidi. Perché il film di Frankenheimer dell’eroe (e quindi dell’uomo) celebra la tempra ad una propria etica e morale, piuttosto che la capacità di essere ligi alla legge e al conformismo.  














    






domenica 8 aprile 2018

FUGA DA ALCATRAZ

128_FUGA DA ALCATRAZ (Escape from Alcatraz). Stati Uniti, 1979;  Regia di Don Siegel.

Don Siegel e Clint Eastwood tornano a lavorare insieme, per la quinta volta e dopo otto anni da quel Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! che aveva visto per la prima volta sugli schermi le gesta di Dirty Harry, il durissimo poliziotto. Stavolta però il vecchio Don affibbia a Clint un ruolo che sta dall’altra parte della barricata, ovvero quello di un incallito criminale, un detenuto: il famoso Frank Morris, l’uomo che evase da Alcatraz. E il film si intitola, appunto, Fuga da Alcatraz, ed è una ricostruzione cinematografica, tutto sommato abbastanza fedele, della mitica evasione da quello che, fino allora, sembrava un carcere da cui fosse impossibile scappare. La mano sapiente del regista, che gira con geometrico rigore, tiene lo spettatore sulla corda, dando una sublime prova di maestria nella tecnica della suspense. Ma la cosa che salta all’occhio è l’apparente assenza di un quadro morale, enfatizzata dal fatto che la regia preveda, e soprattutto induca nello spettatore, una simpatia totalmente schierata a favore dei detenuti a discapito degli agenti di custodia. Il film è concentrato su pochi elementi: gli uomini rinchiusi devono trovare il modo di scappare; eppure, pur con questi pochi elementi, Siegel riesce a trarne un analisi niente affatto banale della società americana. Il direttore del carcere (Patrick McGoohan) quando riceve Morris spiega la funzione sociale di Alcatraz: “se disobbedisci alle regole della società, ti mandano in prigione. Se disobbedisci alle regole della prigione, ti mandano da noi. […] Noi non creiamo buoni cittadini, però creiamo buoni detenuti.” In sostanza si evidenzia una lacuna della società americana: l’incapacità di gestire il problema sociale di chi esce dai confini legali, perlomeno di gestirlo in modo completo.

Se viene permesso un abomino come Alcatraz, significa, non solo che la società non è in grado di correggere tutti i propri membri che sbagliano, ma che lo mette già in conto: questa differenza tra chi sbaglia una prima volta e chi, tra questi, continua a sbagliare e deve quindi essere recuperato, diventa una percentuale già messa in preventivo e gestita tramite il carcere di massima sicurezza nella Baia di San Francisco. Ma questa è un’implicita ammissione di ingiustizia della società, perché porsi sullo stesso piano di chi ha sbagliato applicando la semplice equazione hai sbagliato, ora paghi, bilancia, verso il basso, il confronto. E, a questo punto, stare dalla parte sbagliata non corrisponde necessariamente più ad essere il cattivo della storia.

Una società che non si pone come obiettivo di essere giusta, non può nemmeno pretendere di esserlo; questo in assoluto, e meno che mai in un film che celebra la possibilità di centrare i propri obiettivi (la fuga dalla prigione), anche quando sembrano impossibili da perseguire. Siegel inoltre rifugge, almeno in parte, quelle tendenze contemporanee che giustificano la devianza dai comportamenti leciti con il disagio sociale dell’individuo. In uno dei dialoghi più riusciti, alla domanda: “Ma che razza di infanzia hai avuto?” Morris risponde seccamente “Breve.”
Anche in questo caso, pur nel minimalismo dell’opera, la disamina è centrata: non si nega che ci sia un disagio sociale nell’individuo (avere un’infanzia breve significa essere chiamato in fretta alla vita adulta, senza adeguato percorso di crescita), ma non è detto che sia questo ad essere sotto accusa, anche perché l’individuo in questione dimostra, nei fatti, di avere un codice morale (la lealtà coi compagni di fuga, l’umanità verso Doc, Tornasole, English), forgiato, forse, proprio dalla durezza della propria esistenza. In ogni caso, se anche fosse la condizione disagiata di Morris la causa del suo essere un delinquente, la laconica risposta tronca questo tipo di approfondimento.
 Nonostante la durissima critica sociale che Siegel mette in scena in un film ambientato in una prigione, quasi senza donne e completamente senza bambini (che al cinema simboleggiano il futuro), con il protagonista che non avendo passato (non si ricorda quando è nato) forse quel futuro nemmeno ce l’ha, seppur con tutto questo, Fuga da Alcatraz è naturalmente un film positivo: Morris e i fratelli Anglin ce l’hanno fatta. A superare le acque della baia?
Quello non si sa, ma ad inseguire il proprio sogno sicuramente.



sabato 7 aprile 2018

SFIDA INFERNALE

127_SFIDA INFERNALE (My darling Clementine). Stati Uniti, 1946;  Regia di John Ford.

La sparatoria all’OK corral nella città di Tombstone è uno degli episodi più celebri dell’epoca del Far West, un evento reso leggendario dalle innumerevoli cronache che lo hanno raccontato. Il grande regista John Ford ne prende quindi spunto per dirigere il suo Sfida infernale, con il quale prova a riscrivere, in modo classico e personale, questo passaggio cruciale della Storia del West e, più in generale, degli Stati Uniti d’America. Innanzitutto c’è da rilevare un particolare inaspettato: il titolo originale del film, My Darling Clementine suona assai improbabile se, come sembra, si tratta di un’opera che pone la sua attenzione su un violento scontro a fuoco. In effetti, i solerti addetti alla distribuzione sul territorio italiano hanno pensato bene di correggere l’anomalia scelta da Ford, e hanno optato per una definizione, Sfida infernale, in apparenza più consona al tema dell’opera. Naturalmente l’errore c’è stato, ma non è quello di Ford, ma di chi ha messo becco dove non avrebbe dovuto, falsando, in fin dei conti, parte del lavoro di preparazione dello spettatore previsto dal regista. Perché Ford, che è regista di polso, è onesto fin dal principio, dalla presentazione dei suoi film: My Darling Clementine non è un’opera precisamente imperniata sulla sfida tra gli Earp e i Clanton, le due bande che si scontrarono all’OK corrall, ma piuttosto la storia di come una cittadina (Tombstone) simbolicamente si sia evoluta, si sia civilizzata, in seguito e grazie a quell’evento. E, in quest’ottica, la figura della ragazza venuta dall’est, la Clementine del titolo, che nel finale diviene la maestrina del paese, è più importante di una banale sparatoria.

Certo, la sparatoria non è poi così banale, visto che viene presa a modello per rappresentare come l’eliminazione della barbarie sia necessaria a permettere lo sviluppo civile; ma è un fatto che, anche a livello di minutaggio, Ford non dedichi poi molto tempo allo scontro a fuoco. Ma indubbiamente l’evento clou del lungometraggio, almeno a livello spettacolare, è la celeberrima sparatoria: c’è così quindi una sorta di contrasto già alla base dell’opera, perché poi questo film il regista lo dedica ad una ragazza, che sin dal titolo è vezzeggiata (darling = tesoro) e che ha un nome che è un diminutivo del termine clemente, ovvero benevolo, incline al perdono. E la ragazza, interpretata da una Cathy Down posata e rassicurante, è davvero dolce e comprensiva; e si farà poi ambasciatrice, come si è detto, di cultura e civiltà assumendo il ruolo di maestra. Alla contrapposizione con la violenza della sparatoria (titolo originale del film vs evento che funge da richiamo), ne fa eco un’altra, più specificamente rivolta alla ragazza. Alla compostezza della giovane venuta dall’est si contrappone Chihuahua (una conturbante Linda Darnell), prostituta messicana (o pellerossa), che le contende l’amore di Doc Holliday (un soffertissimo Victor Mature). Perché l’operazione di Ford è quella di espandere il confronto tra le due bande nell’OK corrall a tema generale dell’opera, mostrando il conflitto in atto come una sorta di reazione dalla quale scaturirà la società americana. 


Ma andiamo con ordine: il film si apre con l’arrivo nella zona della Monument Valley di una mandria di bovini guidata dai quattro fratelli Earp: un araldico Henry Fonda è Wyatt; Ward Bond, un habitué  dei film di Ford, è Morgan; Tim Holt è il comprimario Virgil; Don Garner è il giovanissimo James. Gli Earp lungo la pista si incontrano con il vecchio Clanton (il mitico Walter Brennan, qui davvero incattivito), accompagnato dal figlio Ike (Grant Withers). Il vecchio Clanton si offre di rilevare la mandria, ma Wyatt non si dimostra interessato a vendere: pur se il dialogo si mantiene nei canoni di una normale trattativa, Ford è magistrale nell’infondere una tensione latente che sembra sempre sul punto di esplodere. Si capisce subito che i Clanton non sono abituati a ricevere ne tantomeno a tollerare rifiuti alle loro offerte.

Nel proseguo del film la definizione dei due gruppi famigliari proseguirà nel solco già impostato in questo primo incontro: gli Earp sono gente a modo; i Clanton sono gentaglia senza scrupoli che approfitta della mancanza della legge nei dintorni di Tombstone per fare il bello e il cattivo tempo. Al di là della trama, ovviamente molto ben congeniata, con il furto del bestiame, la connessa uccisione di James Earp e l’efficace stratagemma del medaglione che permette di provare la colpevolezza dei Clanton, appare chiaro che, nell’ottica fordiana, i fratelli Earp devono eliminare i Clanton che incarnano la barbarie ancora presente nel far west e permettere così la nascita di una società civile. Lo scontro Earp contro Clanton smette i termini di una contesa famigliare, per divenire il manifesto della necessità di eliminare la violenza, la prepotenza, la sopraffazione dal west, e quindi dall’America. Purtroppo, sembra dirci Ford, per farlo occorrono uomini che sappiano usare a loro volta la violenza; gente in gamba, che sappia il fatto proprio e che si metta al servizio della comunità. Come il Wyatt Earp interpretato magistralmente da un Henry Fonda perfettamente calato nella parte. Un personaggio fondamentale per permettere la costruzione di una società civile, ma la stessa società non sembra poi riservargli un ruolo: il suo posto è certamente quello nella galleria degli eroi fordiani. Perlomeno stando al finale, quando il nostro se ne va, lasciando a Tombstone la timida ma determinata Clementine, promettendole sì di tornare, ma con una promessa che somiglia un po’ troppo a quella di un marinaio. 


Ma ad incarnare perfettamente il senso di questo contrasto tra la natura violenta del west e la civiltà proveniente dall’est, è più di tutti il personaggio di Doc Holliday. Egli è un dottore, un uomo di scienza e di cultura che nell’est dedicava la sua vita ad aiutare il prossimo, ma la sua venuta all’ovest lo ha trasformato non solo in un pistolero avvezzo all’alcool e al gioco d’azzardo, ma addirittura in una sorta di boss della turbolenta cittadina di frontiera. La bottiglia di whiskey posta proprio davanti al diploma di laurea incorniciato, rappresenta al meglio la sua involuzione; la malattia che lo affligge diventa a sua volta emblematica del suo degrado fisico oltre che morale. Nel film gli arrivi rilevanti a Tombstone sono quindi tre: Doc, gli Earp e Clementine. Doc arriva dall’est, ma non si pone come ambasciatore della civiltà, anzi, è lui stesso a farsi corrompere dal selvaggio west. Solo quando vede l’attore recitare Shakespeare, riaffiora in lui la sua indole nobile, a cui dovrà far ricorso anche nel momento di operare Chihuahua, ferita a morte. Il tentativo non avrà successo: primo perché la donna è una figura perdente nell’ottica di Ford (rappresenta il vecchio west e non l’imminente civilizzazione), e quindi è naturale che muoia; e poi, sempre in senso fordiano, perché Doc è perdente a sua volta, e può solo venir buono per aiutare Wyatt nel repulisti che va in scena all’OK corrall. Wyatt e i suoi fratelli arrivano invece non dall’est, ma da un altro ovest: sono uomini del west, e pur non essendo uomini di civiltà, sono indispensabili per permettere lo sviluppo, perché si servono di quella violenza senza la quale non si può eliminare il male, la barbarie, ovvero i Clayton, da Tombstone. La funzionalità in questo senso di Wyatt Earp è esemplare: egli sa sempre cosa fare, è deciso, risoluto, sbriga i problemi senza perdersi in chiacchere. Ma pur essendo un noto esponente del west, è un uomo rispettoso della legalità: lui stesso fa notare a Doc come questi abbia un concetto di ordine civico un po’ troppo parziale, sia quando scaccia dalla città in modo brutale il baro, sia quando pretenderebbe autoritariamente di rispedire all’est Clementine, per motivi strettamente personali. A differenza di Wyatt, che è invece fortemente incline ad una società non solo legale, ma anche civile e moderna: la prima cosa che fa è andare dal barbiere, cedendo progressivamente alle lusinghe di quest’ultimo circa l’uso del profumo. Poi va alla funzione, partecipa al ballo, tutto impomatato passeggia sotto i portici a braccetto con Clementine. Notare come sia proprio la scena del ballo a mostrarcelo un po’ impacciato, forse perché si trova fuori dal suo contesto naturale. Il regista è molto bravo, in questo passaggio, perché non utilizza il campo-controcampo, come sarebbe naturale in una scena romantica dove la partecipazione emotiva dello spettatore è in genere utile allo scopo.


No, Ford non vuole farci vivere la scena da un punto di vista sentimentale, ma vuole sottolineare l’imbarazzo tra i due, che man mano aumenta in Wyatt tende a scemare in Clementine: la ripresa dei due personaggi affiancati permette di cogliere tutte le sfumature emotive che avvengono contemporaneamente, e pone lo spettatore come osservatore neutrale e quindi più divertito per la lieve goffaggine dell’eroe, che partecipe su un piano sentimentale. Wyatt è quindi cruciale per lo sviluppo di Tombstone: con lui la città si dota non solo della legge (lo sceriffo diviene lo stesso Earp), ma anche di una chiesa e di una maestra (quindi di una scuola), progressi che sono permessi dalla rottura del binomio Doc/Clayton che, pur se non in accordo, opprimeva la città sotto l’egida della violenza. Ma il vero arrivo rivoluzionario è ovviamente quello di Clementine, che porta la vera cultura, in quanto maestra, a Tombstone. La ragazza prova a redimere Doc (ormai fatalmente corrotto dalla violenza selvaggia del west) ma non riesce nel suo intento; in seguito prova almeno a coinvolgere nella civilizzazione quella componente violenta ma portatrice di valore sani, (lealtà, senso dell’onore e del dovere) rappresentata dalla figura di Wyatt. L’uomo è tentato di accettare questo destino, ma comunque decide di andarsene; la rinuncia non è esplicita, ma in ogni caso quello a cui assistiamo non è certo un lieto fine, e questo al cinema vuol dire qualcosa. 


Film formalmente ineccepibile, con sequenze girate con sublime maestria e raffinato calcolo, nella cui colonna sonora spicca la celeberrima canzone Oh My Darling Clementine, Sfida infernale è, oltre tutto quanto detto, soprattutto un’opera divertente e appassionante.
Uno dei massimi capolavori della settima arte senza tema di smentita.


Chaty Downs



Linda Darnell