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mercoledì 23 maggio 2018

KRAMER CONTRO KRAMER

151_KRAMER CONTRO KRAMER (Kramer vs Kramer). Stati Uniti1979;  Regia di Robert Benton.

Ecco un film esemplare dei seventies: ci sono, se non tutti, molti dei temi cruciali degli anni ’70, ad esempio il femminismo che sfociava ormai nella sacrosanta consapevolezza delle donne, la crisi della famiglia come la si intendeva in senso classico, la necessità per l’uomo di reinventarsi un ruolo e, naturalmente, anche i primi conti da fare con queste nuove idee certamente progressiste ma che, come ogni cosa, presentavano ad un certo punto il rovescio della medaglia. Ovvero i figli (in questo caso uno solo, il piccolo Billy) che in mezzo a questi cambiamenti finivano per divenire un mezzo ostacolo all’inseguimento delle gratificazioni personali dell’uomo o della donna di turno. Nel film di Benton, magistralmente sospeso tra l’essere ruffiano e perfettamente sincronizzato sull’onda sociale giusta, prima è l’uomo che, dedicandosi esclusivamente al proprio lavoro, trascura la propria famiglia, poi è il turno della donna ad andarsene in cerca di una propria realizzazione professionale. E, per tornare agli anni ’70, è importante dire che quest’uomo e questa donna, i Kramer vs Kramer del titolo, sono nientemeno che Dustin Hoffman e Meryl Streep. Ai due fuoriclasse il regista Benton lascia briglia sciolta e i due non deludono ma anzi, trasformano una, volendo anche semplice, comunissima e banale storia di separazione famigliare, in una notevole operazione cinematografica e, soprattutto, in una prova di recitazione d’alta scuola. Il titolo evoca, nella formula in uso negli Stati Uniti, il processo che è, o almeno dovrebbe essere, uno dei momenti topici della pellicola, mentre in realtà è forse proprio in quella fase che il film mostra un po’ la corda.

Perché nel dibattimento gli avvocati mettono in scena le proprie requisitorie, ovviamente largamente faziose, com’è normale che sia in un processo di questo genere; il punto è che in questo modo si scopre un po’ quella che è l’idea alla base dell’opera. Il racconto, pur se interessante, ben congegnato e messo in scena in modo professionale, è una sorta di romanzo a tesi, dove l’autore impone il suo punto di vista sulla problematica questione, in modo eccessivamente di parte. E questo è sempre antipatico per lo spettatore che voglia provare a farsi un’idea nel merito che sia un minimo personale. 

Niente di grave, che in questo senso si è visto di ben peggio, ma anche questo è un aspetto tipico degli anni ’70: si narra che al tempo ci fossero ancora i cosiddetti ideali, ma non per questo era semplice conservare una propria autonomia di pensiero. 
Rimane in ogni caso una sontuosa prova d’attori e una riflessione su una questione ancora irrisolta e, se posta nei termini mostrati nel film, difficilmente risolvibile.


Meryl Streep



lunedì 21 maggio 2018

MOBY DICK, LA BALENA BIANCA

150_MOBY DICK, LA BALENA BIANCA (Moby Dick). Stati Uniti1956;  Regia di John Huston.

Chi, se non un regista come John Huston, poteva tradurre in film un caposaldo della letteratura universale come il Moby Dick di Melville? L’autore statunitense possiede il piglio giusto, l’audacia e la spavalderia per fronteggiare una simile materia senza vacillare, e possiede anche tutto il bagaglio tecnico per non commettere errori dal punto di vista grammaticale in senso strettamente cinematografico. Perché ridurre un libro in un film è sempre difficile, figuriamoci un capolavoro come quello di Melville, che ha dato luogo per di più ad una marea di interpretazioni su quello che possono essere i significati sottesi alla storia narrata. Huston lavora concentrandosi sull’aspetto più consono alla sua natura, ovvero la sfida tra l’uomo e la creatura, la balena bianca, che in fin dei conti è il punto nevralgico anche del romanzo. Moby Dick è visto come una sorta di dio, una manifestazione di estrema superiorità della Natura; la sfida personale che gli lancia il capitano Achab è un supremo azzardo, un atto apparentemente folle. Non è però volgare pazzia, quella dell’uomo, ma anzi l’esaltazione della natura umana stessa, l’enfatizzazione di una parabola che nasce dalla volontà di non piegarsi al fato, al Destino, e quindi a Dio. E che su questa china si spinge molto più in là: Moby Dick ci parla della vendetta contro il dio carnefice e, in questo senso, in questa sfida a Dio, quella di Achab (e di Huston) è una bestemmia, e ha tutta la forza urlante di un insulto sprezzante all’Onnipotente.

Naturalmente la grammatica, non solo cinematografica, dell’autore nasconde a dovere la blasfemia, ma il senso profondo di disagio nell’ostinazione di vedere morta una simile meraviglia della Natura rimane, anche senza essere animalisti. Il capitano ha sicuramente perso il senno, ma questo ne ha esaltato alcuni aspetti che sono tipicamente umani: la voglia di uccidere, di ergersi a giudice e boia, il liberare la propria natura violenta. Attitudini tipiche dell’uomo, che trovano sfogo nella guerra e nella caccia; grazie a questa indole, comune a tutti gli uomini, Achab non fa poi molta fatica a convincere l’equipaggio (Starbuck, suo secondo ufficiale a parte) nella sua folle competizione mortale contro la balena. Ma non è la generica fame di violenza tipicamente umana il nocciolo della questione: quello che spaventa in Moby Dick è l’esaltazione nella sadica libertà di scelta, libertà di scegliersi un bersaglio su cui poi scatenare il nostro risentimento, il nostro rancore. E la suprema esaltazione consiste proprio nel scegliersi il bersaglio più grosso. La balena bianca del racconto è un capodoglio, un cetaceo dalle enormi dimensioni, e quindi rappresenta la suprema forza esistente in natura; che Moby Dick sia poi un gigante nella sua specie fa di lui addirittura un’espressione sovrannaturale. E il fatto che sia bianca ne conferma l’unicità, la riconoscibilità, e permette di indirizzare, di veicolare, l’odio del capitano, e quindi di esaltarlo e non disperderlo.

Moby Dick è l’essere più grande e forte al mondo, le sue dimensioni e la sua peculiare colorazione permettono questa affermazione: e permettono all’uomo di potersi scegliere l’avversario più potente, per il puro gusto di non avere remore nello sfogare la propria indole rabbiosa. Scegliersi in nemico più forte sgombra il campo da ogni possibile accusa di prepotenza o vigliaccheria, e libera moralmente la voglia di violenza. Perché se Achab accampava scuse o pretesti, la balena gli aveva tolto la gamba, per provare (senza riuscirci) a motivare la propria vendetta personale contro il gigante, come mai il più assennato Starbuck, il secondo ufficiale, l’unico da sempre restìo a seguire la pazzia del capitano, alla fine ne raccoglie la sfida? 

Quali sono i motivi che lo spronano a dare l’ultimo, folle, mortale e suicida assalto al gigante del mare? Non ci sono; o meglio, quelli che adduce Starbuck (“Moby Dick non è il diavolo è una balena. Gigantesca d’accordo, ma una balena e niente più. E noi siamo balenieri e niente meno. Noi non fuggiamo le balene, le uccidiamo. Uccideremo Moby Dick!”) fuori dal quel disperato contesto rientrano nella normalità dell’attività umana. Quello che era eccezionale per il capitano Achab, una missione superiore alla ragione, diviene invece mero dovere per il suo secondo. Insomma, non servono particolari motivazioni se non l’esaltazione di compiere un supremo e immotivato atto di ingiustizia, forse la più grande libertà concessa all’uomo; ovvero la messa in pratica di quello che rappresenta la bestemmia.
Huston filma tutto questo con qualche difficoltà dal punto di vista tecnico degli effetti scenici: per quanto spaventosa la sua balena bianca non è sempre credibilissima. Però fa’ un grandissimo lavoro in tutto quello che gli compete direttamente, con una regia puntuale nel seguire le vicende narrate. Sopraffina la prima parte, con i colori e le immagini del porto resi in modo molto evocativo; notevole la sequenza della funzione, (c’è Orson Welles nei panni di padre Mapple) e struggente, ma in modo totalmente sobrio, la carrellata di primi scavatissimi piani sulle donne che salutano i marinai sul molo: bestemmie anche queste, mute e rassegnate, contro il dio del mare.




sabato 19 maggio 2018

IO CONFESSO

149_IO CONFESSO (I confess). Stati Uniti1953;  Regia di Alfred Hitchcock.

Alfred Hitchcock non fu particolarmente soddisfatto di questo film, al quale, secondo lui, mancava uno sguardo ironico che alleggerisse un po’ la presunta pesantezza della vicenda. Dato l’argomento trattato, probabilmente non si trattava ovviamente di spargere un po’ di umorismo qua e là, quanto di filmare la drammaticità del racconto con una sorta di complicità condivisa con lo spettatore. Perché l’impressione di Hitch era il che il film fosse un po’ troppo pesante; ora, è indiscutibile che un certo grado di morbosità l’intrigo ce l’abbia, e forse anche eccessivo. Ma questo è dovuto alla presenza, al centro della scena, di un prete, un prete cattolico, per la precisione; e allora dobbiamo ammettere che anche noi, nel momento in cui diamo maggior rilievo alla cosa, siamo un po’ come i cittadini di Quebec City nel finale, quando circondano con fare accusatorio il povero padre Logan (uno strepitoso Montgomery Clift, che da solo vale il cosiddetto prezzo del biglietto). C’è forse un po’ di moralismo, insomma, nel nostro eventuale sottolineare che il prete aveva avuto una storia d’amore e che potesse, sotto sotto, essere ancora innamorato della sua vecchia fiamma (Ruth Grandfort, interpretata da una Anne Baxter non poi così vecchia). Il film non è un capolavoro, questo no, ma si sbaglia se lo si liquida come un’opera minore tout court. C’è almeno un passaggio filmico notevole, quando Alma, la moglie del sacrestano, serve la colazione ai tre sacerdoti e, passando dietro a padre Logan, cerca di capirne le intenzioni. La scena è girata con maestria perché, mentre il dialogo è del tutto estemporaneo, assistiamo ad un’azione che ha uno scopo completamente diverso e specifico. 

Un altro aspetto molto interessante è la figura del procuratore, mostrato in un paio di occasioni mentre si diletta in puerili esibizioni di equilibrismo: nella parte finale sarà proprio lui ad accusare padre Logan ma, almeno simbolicamente, come ministro della giustizia viene appunto preventivamente presentato come un individuo poco attendibile proprio per i suoi giochetti di bilanciamento. Ma la valenza dell’opera è legata al fatto che verte su un classico tema hitchockiano, ovvero lo scambio di colpa, tra l’altro appena affrontato dal maestro inglese nel precedente Delitto per delitto (L’altro uomo). Se nel film con Farley Granger e Robert Walker il discorso era stato più evidente, qui l’argomento è trattato con maggior sottigliezza; padre Logan, infatti, finisce per beneficiare di un delitto commesso dal suo sacrestano, l’immigrato tedesco Otto (Otto Keller). 

E qui, è evidente, cominciano i problemi: perché mai un prete dovrebbe trarre vantaggio dalla morte di una persona? Nonostante a prima vista Montgomery Clift conceda a padre Logan un aspetto che ispira grande fiducia, per via della faccia pulita e dei grandi occhi chiari, è altrettanto evidente, nel suo camminare con la tonaca un’ideale retta via, nei suoi sguardi riflessivi ma un po’ smarriti, che qualcosa, nella figura del prete, non torni, perlomeno non al cento per cento. Infatti, il poliziotto della vicenda, l’ispettore Larrue che, grazie all’interpretazione di Karl Malden, ha lo sguardo acuto da vero segugio, lo nota subito, focalizzando la sua attenzione fuori dalla finestra, osservando padre Logan che dialoga con la signora Granfort. E dire che d’innanzi a sé aveva, proprio in quel momento, il vero colpevole dell’omicidio, Otto, che stava appunto interrogando. 

L’omicidio raccontato nel film è cosa banale: oltre che sacrestano, Otto prestava lavoro anche come giardiniere presso il signor Villette e, proprio mentre stava cercando di rubare in casa del suo datore di lavoro, viene da questi scoperto e la cosa finisce in tragedia. In tutto questo padre Logan non c’entra, a ben vedere; ma è proprio a lui che, in confessionale, Otto rivela sotto sacramento il delitto. E il legame tra il prete e la scomparsa con Villette non si esaurisce qui: quest’ultimo, infatti, ricattava Ruth, per via della passata storia d’amore proprio con padre Logan. La morte di Villette scioglie questo nodo, ma lascia qualche dubbio sul fatto che padre Logan possa, in un qualche modo, sentirsi sollevato da questa evoluzione della vicenda. 

Il che non sarebbe certo un atteggiamento da buon cristiano. Naturalmente l’ispettore Larrue alla fine arriva al punto della situazione, e il prete viene quindi accusato dell’omicidio di cui ha, in fin dei conti, un movente plausibile (a differenza del vero assassino). Il tema della colpa è quindi servito da Hitchcock in modo sublime: è colpevole (almeno moralmente) un uomo se in fondo approfitta, o comunque si avvantaggia, grazie ad una circostanza criminale, sebbene non da lui provocata? La trama concretizza questo aspetto con l’impossibilità di difendersi del prete, che non può rivelare ciò che ha saputo sotto sacramento. Clift, nonostante i problemi di alcolismo, o forse grazie anche a quelli, sfodera una prestazione superba, da cui traspare un tormento interiore che non sembra poter essere legato alla sola impossibilità di difendersi per il vincolo di segretezza. 

Da parte del regista, nel film c’è anche un evidente ed esplicito omaggio, anzi meglio, un tributo, alla moglie Alma, nome condiviso anche dalla sposa di Otto, e che è indicata dallo stesso uomo indirettamente come causa, come movente, dell’omicidio. L’immigrato tedesco avrebbe ucciso Villette anche perché questi si approfittava della povera Alma, una donna troppo dedita al lavoro. Una condizione che questo personaggio condivideva con la moglie di Hitchcock, Alma Reville in Hitchcock, e a cui il regista vuole così rendere il giusto e pubblico merito. E, se l’equivalenza funziona, allora Otto, marito di Alma, immigrato europeo nel nuovo mondo, incarna per bene la figura di Hitchcock.
Un uomo che, per lenire il proprio ossessivo senso di colpa, arriva a mettere in scena il delitto. E poi cerca, nel confessionale del cinema, di condividere la sua colpa con noi. 
Meno male che noi non abbiamo vincoli di segretezza, e possiamo parlare apertamente del suo sublime operare.




Anne Baxter






giovedì 17 maggio 2018

INDAGINE AD ALTO RISCHIO

148_INDAGINE AD ALTO RISCHIO (Cop). Stati Uniti1988;  Regia di James B. Harris.

Se la figura certamente più nota di Indagine ad alto rischio è quella dell’attore principale, il validissimo James Wood (qui anche nelle vesti di coproduttore), in realtà forse dovremmo concentrarci maggiormente su un altro uomo di cinema, che in questo film da sfoggio di tutta la propria versatilità: James B. Harris. Naturalmente salta all’occhio che Harris è il regista della pellicola, e questo lo pone già di suo su un piano privilegiato; ma l’autore nato a New York è anche produttore (insieme allo stesso Wood) e sceneggiatore, una polivalenza già mostrata da Harris nel corso della, per altro piuttosto sporadica, carriera. Sono infatti pochissimi i suoi lavori: giusto una manciata di regie, una di sceneggiature e una di produzioni, e di queste ultime sono rimarchevoli quelle per i primi film di Stanley Kubrick (dove annovera anche l’esperienza di attore, sebbene si tratti di una mera comparsata). E’ chiaro che siamo di fronte ad un cineasta che conosce molto bene il mondo del cinema, fatto che permette a Indagine ad alto rischio di essere un lavoro pienamente professionale. Ad esempio, l'esperienza nell'attività di sceneggiatore lo aiuta in un adattamento di un soggetto, il romanzo poliziesco Le strade dell’innocenza di James Ellroy, piuttosto intricato che Harris riesce a mantenere avvincente anche sullo schermo. Il tema dell’innocenza (richiamato appunto esplicitamente dal titolo del libro nella traduzione italiana) è trattato con durezza dal regista: l’innocenza non è un valore, ma una sorta di chimera, e chi si ostina a inseguirla, a conservarla, negando o anche solo cercando di ignorare la presenza del male, non fa che il gioco di quest’ultimo.

Sebbene questo sia un discorso che, specialmente al culmine degli anni ottanta (periodo dell’uscita del film nelle sale), si possa definire curativo se non addirittura necessario, Harris ci va con la mano piuttosto pesante, sia nelle scene dove sono mostrate le vittime, che nella spietatezza di certe soluzioni narrative e, a livello di trama, di alcune scelte comportamentali del sergente Hopkins (James Wood, appunto). Film discutibile quindi ma, nell’insieme, teso e diretto come un pugno allo stomaco; e peggio per chi, ostinandosi a celebrare tanto il sogno americano quanto la cosiddetta rivoluzione culturale, se lo prenderà in pieno.   



Randi Brooks



martedì 15 maggio 2018

RAPPRESAGLIA

147_RAPPRESAGLIA  Italia, Francia 1973;  Regia di George Pan Cosmatos.

L’episodio della strage delle Fosse Ardeatine è un argomento delicato e, in prima istanza, verrebbe da pensare che vada trattato con il massimo riguardo storico. Ci sono 335 morti verso i quale viene naturale portare un rispetto sacro, vista la gravità di quanto accadde. Ma, pensandoci meglio, questi timori riverenziali forse sono solo una forma un po’ di maniera con cui le nostre coscienze mettono in atto una sorta di autoindulgenza. Mannò, ben vengano invece film come quelli di George Pan Cosmatos, che sfruttano un fatto storico per scuoterci un po’; se poi si vuole una ricostruzione storica, precisa e puntuale, possiamo sempre approfondire con altri sistemi, nessuno ce lo vieta. Nello specifico, il film Rappresaglia ci da’ un bello scossone, soprattutto con le terrificanti scene finali, quelle dell’eccidio nelle grotte ardeatine di 335 italiani, per ritorsione all’attentato che, in via Rasella, aveva mietuto 33 tedeschi. A essere sul banco degli imputati, in questo atto di denuncia che in fin dei conti è il film di Cosmatos, è l’opportunismo della ragionevolezza che, specialmente in ambito nazista, spesso sfocia nell’ottusità della sadica burocrazia del potere. Per quale motivo, si chiede padre Antonelli (Marcello Mastroianni) la cosiddetta rappresaglia (l’eccidio dei 335 italiani), viene programmata in segreto e in tutta fretta? Perché prima non si reclama, pubblicamente, la resa di chi ha commesso l’attentato di via Rasella? Una volta proclamato l’appello, se nessuno si fosse consegnato, allora la ritorsione avrebbe almeno una logica vendicativa. “Nella città ci sono gli attentatori, la città non me li consegna, punisco la città”. Una metodica processuale crudelmente infantile, ma perlomeno con una sua logica. Invece, quale motivazione si può assurgere al racimolare tra i condannati a morte, tra i detenuti, tra le minoranze, un numero ritenuto congruo (più di 10 a 1), per poi trucidarli quasi in segreto? Mah.

Forse quello tedesco era un tentativo di restare in bilico tra il non creare ulteriori disordini e il poter ottenere, dando l’annuncio a cose fatte, un effetto terrorizzante e traumatizzante sulla popolazione romana. In ogni caso, rimane sempre l’orrore per quello zelo burocratico (di cui si trova traccia anche negli ordinati registri dell’Olocausto) per cui quando muore uno dei soldati, in un primo momento solo ferito durante l’attentato, allora occorre trovare assolutamente altri dieci italiani per riequilibrare l’equivalenza; come se la contabilità fosse un ordine superiore a cui obbedire a ogni costo. Dovevano essere 320 per 32 tedeschi morti, ma con il decesso del trentatreesimo ne occorrevano appunto altri dieci; infine saranno 335, cinque in più, forse perché una delle parole d’ordine della burocrazia è il famoso proverbio melius abundare quam deficere

Questa filosofia è resa in modo convincente dalla figura del maggiore Kappler (un efficace Richard Burton): un uomo intelligente, istruito, amante dell’arte, dotato di buon senso, ma incapace di prendere una posizione al di fuori della macchina burocratica di cui è un perfetto ed efficiente ingranaggio. Ecco, oggi forse il nazismo è un problema superato (da sottolineare il 'forse'); ma nelle pastoie della burocrazia ci siamo in pieno. Gli uffici, le caserme, le società pubbliche e private, sono piene di addetti e impiegati zelanti che, se per fortuna non mandano a morire nessuno, creano però ugualmente problemi e disagi spesso per il puro gusto di farlo. Del resto, il sadismo, come forma comportamentale, è sempre lo stesso.     


domenica 13 maggio 2018

IL CAPITALISTA

146_IL CAPITALISTA (How anybody seen my gal?). Stati Uniti1952;  Regia di Douglas Sirk

‘Hey! Devi fare tutto questo rumore per suonare “Notte silente”?’ E’ una simpatica battuta che passa inosservata nel film Il capitalista di Douglas Sirk, ma che condensa quasi tutta l’atmosfera della pellicola. Innanzitutto c’è la scena natalizia, il carrettino ambulante che suona appunto Silent night (da noi conosciuta come Astro del ciel o Notte silente), posizionato davanti all’emporio che vende un po’ di tutto, di quelli che si vedono in tanti film americani. Siamo nei tardi anni venti del XX secolo, e questo sembra il quadro perfetto per uno dei famosi film di Frank Capra, se non fosse che è a colori. A questo punto esce dal negozio mister Quinn, il proprietario, che invita in malo modo, con la frase citata, l’ambulante a fare meno rumore. Ecco, Douglas Sirk opera in tutto il film con questa filosofia, costruendo una storia molto edulcorata, quasi zuccherosa, ma poi vi inserisce sempre una nota un po’ critica. Ed è una nota critica non da poco, perché all’alba dei favolosi anni cinquanta si denuncia la pericolosità del denaro all’interno della società americana. Il tono ironico della pellicola ha permesso alla Universal di scherzare sopra al messaggio comunista dell’opera: “Che ne dice Carlo Marx?” recita infatti il promo del film negli Stati Uniti, e forse deve aver ispirato i distributori italiani per quel Il capitalista così diverso dal titolo originale How anybody seen my Gal (“Qualcuno ha visto la mia ragazza?”). Il film è in realtà molto leggero, aiutato in questo suo essere disimpegnato dai briosi intermezzi musicali, che non ne fanno certo un musical ma, senza mai annoiare o essere d’intralcio, aiutano a dare ritmo alla narrazione. Il capitalista del film è Mister Fulton (uno straripante Charles Coburn) che, ricco sfondato e senza eredi, decide di lasciare tutto alla famiglia di una sua vecchia fiamma.
La motivazione che porta ai suoi esterrefatti legali è un altro piccolo tassello che aiuta a capire la logica del film di Sirk: la ragazza in questione a suo tempo rifiutò la proposta di matrimonio di Fulton; per la delusione questi andò in cerca di fortuna, trovandola. Quindi, in un certo senso, la ricchezza trovata da Fulton ha un merito anche nella decisione della giovane; di qui la scelta di premiare con l’eredità i suoi discendenti, visto che la stessa donna è già trapassata. E allora, se la dolce melodia di Notte silente può essere definita rumorosa, (contraddicendo il nome stesso del brano) e la fortuna (economica) di una vita può essere motivata da un insuccesso (amoroso), il film può essere benissimo una critica al sistema economico americano, seppure sia apparentemente una commedia leggera che ha addirittura come protagonista un vecchio capitalista filantropo.

La pellicola presenta una serie di contrapposizioni attraverso le quali procede la storia: la più evidente è la rivalità tra i pretendenti della deliziosa Millicent Blaisdell (Piper Laurie), il sincero ma semplice commesso Dan (Rock Hudson) e il ricco e sfrontato Carl Pennock. Ma si possono notare anche la differente condizione tutto sommato ospitale dei Blaisdell quando erano semplici borghesi, rispetto all’atteggiamento snob tenuto nel momento in cui arricchiscono; lo stesso divario esiste al principio tra i Blaisdell prima maniera (ovvero non ricchi) e i più facoltosi Pennock; e ci sono poi contrapposizioni concrete, ad esempio il cane bastardino sostituito dai due barboncini di razza francese o la stessa casa abbandonata per la sfarzosa villa. E anche Fulton adotta un comportamento contrapposto: rigoroso (pur se con qualche licenza, vedi i mozziconi dei sigari nascosti sotto le coperte) nella sua vita abituale, passa per un vecchio reprobo pluripregiudicato nella sua seconda identità di John Smith. Proprio a proposito del nome adottato da Fulton per non essere riconosciuto (è infatti famosissimo per via della ricchezza accumulata) c’è un’altra simpatica battuta che aiuta a capire la natura critica dell’opera; purtroppo nella traduzione italiana se ne è perso un po’ il senso, ma quando il magnate si presenta come John Smith, la piccola Roberta Blaisdell, una vivace bimbetta di una decina d’anni, gli chiede se si tratti del famoso marito inglese di Pocahontas, la principessa pellerossa.

Nella traduzione italiana si fa riferimento ad una generica principessa atzeca, ma il paragone può comunque reggere: entrambi i John Smith (sia quello storico che lo pseudonimo di Fulton) arrivano con la cultura dell’economia di mercato a corrompere la genuinità là dei nativi americani, qua di una famiglia piccolo borghese. Il senso più generale è naturalmente che il denaro non fa’ la felicità, anzi; ma lo sguardo di Sirk è più sottile di quanto non voglia farci intendere lui stesso a prima vista. Certo, il film può definirsi ottimistico, ma lascia troppi punti in sospeso: come valutare la signora Blaisdell (Lynn Bari), vero e proprio capofamiglia che dimostra nell’opera valori abbastanza discutibili? Forse un po’ migliore si dimostra il marito, che però le è succube. 

Anche la bella Milli è una mezza delusione, in quanto si lascia trasportare troppo dal corso degli eventi, mentre più defilata la posizione del fratello; chi è sicuramente positiva è la piccola Roberta, l’unica veramente innocente (probabilmente in quanto ancora fanciulla). Malissimo i Pennock, tipica famiglia alto borghese piena di soldi ma vuota di valori; male il giudice, dipinto come un tipo superficiale; male anche il nuovo proprietario dell’emporio, il signor Quinn avaro e incapace di capire perfino lo spirito natalizio (sua la battuta su Silent night). E, in fondo, anche Fulton, come ne esce? Letteralmente, dal racconto, alla chetichella, per paura di essere riconosciuto dai giornalisti; ma in senso più generale, il film non può essere considerato poi così positivo, e sempre perché lascia in sospeso troppi passaggi: a questo punto, il magnate, confermerà la volontà di lasciare la sua eredità ai Blaisdell, dopo aver visto che solo 100.000 dollari li avevano trasformati in modo così infelice?

E il suo bilancio personale, in questa vicenda, qual è? Anche questo non certo positivo: a parte aver vissuto un periodo in cui si è divertito, alla fine si è dovuto allontanare in incognito, ritornando alla solitudine dorata che aveva all’inizio della storia. Insomma, un film piuttosto strano, insolito, in cui accompagniamo un miliardario in incognito e siamo gli unici a conoscere tutti i retroscena, che permettono le gustose gag. Ma anche in questo caso, da un punto di vista narrativamente tecnico, c’è un’anomalia: perché in genere questi equivoci trovano il libero sfogo nella loro rivelazione, mentre in questo Il capitalista rimangono tutti trattenuti, non rivelati ai personaggi della storia.
E’ quindi questa non consapevolezza, questa incoscienza che Douglas Sirk vuole quindi evidenziare? E’ forse per questo che ambienta con una didascalia esplicita la storia nei tardi anni 20, poco prima della Grande Depressione del 1929, ma ci mostra una cittadina colorata con balli e situazioni, che sì, riprenderanno anche lo stile dei roaring twenties ma sembrano perfettamente incarnare i favolosi anni ’50?
Insomma, che la storia non abbia insegnato nulla all’America?



Lynn Bari




Piper Laurie