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lunedì 29 settembre 2025

AFRICA DOLCE E SELVAGGIA

1737_AFRICA DOLCE E SELVAGGIA , Italia 1982. Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni

“La circoncisione degli adulti, esposta chiara e tonda, può essere di per sé una visione abbastanza schifosa; ma i registi di Africa segreta sono animati da evidenti interessi sadici e sotto i vostri occhi non uno o due, bensì venti prepuzi cadranno al taglio delle cesoie”. [I.R., All’insegna del sadismo, «Avanti!», martedì 25 novembre 1969, pagina 9]. Questo commento del recensore dell’«Avanti!», scritto ai tempi di Africa segreta, potrebbe andar bene anche per Africa dolce e selvaggia, senonché i circoncisi sono fanciulli e sono quasi in numero assai maggiore rispetto al conteggio stilato dal giornalista. Erano passati 13 anni, ma il cinema dei gemelli Castiglioni sembrava quindi fermo ai tempi dell’esordio; anzi, si potrebbe quasi affermare che si fosse esasperato sulle medesime posizioni. Il problema era sempre lo stesso: qual era il confine tra necessità etnografica di documentare usi e costumi di popolazioni definite «primitive» –o comunque meno evolute nel nostro intendere il significato del termine– e il gusto sadico di mostrare violenza, sesso e temi scabrosi sullo schermo? Se prendiamo la prima scena delle circoncisioni, posta quasi in apertura del film e, quindi, in un certo senso, programmatica degli intendimenti degli autori, si può dire che i loro intenti si fossero estremizzati. Non solo per il numero esorbitante di brutali operazioni che vengono mostrate, ma anche per come viene efficacemente organizzato il segmento narrativo. Al di là di tutta la preparazione propiziatoria del rito, un aspetto che lavora nel creare una tensione insostenibile, è la disperazione che assale i poveri ragazzini allorché si avvicina il fatidico evento. Ai ragazzi in attesa, la visione della sorte occorsa ai primi malcapitati, non fa che peggiorare la situazione, con il panico generale che si diffonde. A questo punto, le scene delle rudimentali operazioni sono assemblate con un montaggio frenetico –un taglio e via, sotto con il successivo– in modo da rendere praticamente insostenibile la visione.
Un po’ a sorpresa, un recensore abitualmente critico con i Mondo movie, quelli dei Castiglioni compresi, come Morando Morandini, dalle pagine de Il Giorno ebbe un approccio più ponderato del solito al film: “Il tema conduttore di Africa dolce e selvaggia sono i riti di iniziazione che sanciscono il passaggio da un’età all’altra o da un gruppo sociale all’altro. Ma sono anche riti di fecondità ed espiazione, prove di coraggio e addestramento (alla caccia di rettili velenosi, per esempio), pratiche scaramantiche magiche.
I devoti di San Sadomaso, i delibatori di emozioni violente, gli emofans più o meno perversi hanno pane per i loro denti. C’è da intenerirsi sulla circoncisione di bimbetti piangenti, da svenire per la scalpellatura dei denti incisivi, da fremere per operazioni estetiche di scarnificazione a lametta, da impietosirsi per la castrazione dei dromedari per trasformarli in «mehari» da corsa, da rabbrividire alle visioni di rettili micidiali. C’è anche un bel momento di cinema all’improvviso, con un cobra che colpisce una guida negra. Ma è soltanto una dimensione del film che, in bilico tra spettacolo e documentazione etnologica, è sostenuto dal rispetto per gli usi e i costumi che descrive, da un’apprezzabile rinuncia al sensazionalismo fine a sé stesso, da un ragionevole assillo informativo. Sono qualità che si trovano nel misurato e limpido commento dell’etnologo Guglielmo Guariglia dell’Università Cattolica di Milano, detto dalla sobria voce di Riccardo Cucciolla, e nelle immagini, sempre di alto livello professionale (Eastmancolor 16 mm), talvolta di suggestiva bellezza, spesso di asciutta funzionalità. È un film che dà informazioni, soddisfa curiosità, comunica emozioni ma che insegna anche a capire, a non respingere a priori quel che è diverso soltanto perché è tale, a prendere atto che la presenza del sacro e del rapporto con la natura possono avere modi e forme diverse dalle nostre. È un film che tiene fede al suo titolo. E non è poco”. [
Morando Morandini, Il Giorno, primo ottobre 1982 da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 282]. In effetti il commento di Morandini lascia abbastanza spiazzati, a fronte della posizione che aveva sempre avuto in materia. Tuttavia le sue sono osservazioni di cui è utile far tesoro, anche perché non arrivano certo da un sostenitore del cinema dei Castiglioni e, quindi, quello che di buono mettono in risalto, è certamente meritevole. Senza trascurare, naturalmente, l’innegabile competenza cinematografica del critico milanese.
Per la verità, le tipiche stroncature al film non mancarono: “Sarà poco originale dirlo, ma di riti tribali nel Continente Nero e misterioso avevamo fatto definitivamente provvista con Africa addio di Gualtiero Jacopetti. Invece i fratelli Castiglioni, che da anni esplorano diligentemente l’Africa, ripropongono senza approfondirli i fatti più crudeli che vanno a ripescare in migliaia di chilometri di pellicole impressionate senza complessi di sorta: un «mondo cane» in nero che colpisce ma non commuove lo spettatore. Non basta certo il commento di un etnologo a rendere culturali le curiosità della cinepresa in occasioni di impressionanti circoncisioni e clitoridectomie. I poveri bambini di colore piangono e sudano sangue (non si fa per dire), i registi Castiglioni non si tirano certo indietro per compunzione. Ci sono poi, e qui la novità si direbbe assoluta, maestri catturatoli di serpenti e scorpioni i quali mostrano a volenterosi allievi come ci si mitridatizza. Gli episodi si susseguono in tono acritico finché giungiamo, per l’aggiornamento dato dalla permissività, alla sequenza hardcore: in un rito della fertilità lo stregone (partner?) insinua nella vagina della consenziente un serpente vivo e profanatore. Questa sarebbe l’Africa dolce e selvaggia”. [
p. per, A caccia di crudeltà e riti hardcore, La Stampa, anno 116, n. 262, martedì 30 novembre 1982, pagina 15].
La questione del serpente è, in effetti, un colpo di teatro dal sapore sensazionalista, finanche sia probabilmente un fatto non ricostruito. Tuttavia, gli aspetti più interessanti, e di cui è difficile sostenere la visione, sono quelli citati in cui protagonisti sono i giovanissimi, costretti a subire un’autentica forma di tortura, quale che sia il suo valore simbolico, rituale, religioso e altro.
A conferma di ciò, scrisse, infatti, un recensore: “Non sarà molto professionale, ma io Africa dolce e selvaggia l’ho visto sempre con la testa abbassata, sbirciando con le mani quando finissero i momenti truculenti. Non finivano mai, e così, alla seconda ondata di circoncisioni, ho tagliato la corda”. [
Santuari, Paese sera, 11 ottobre 1982, da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 290]. Non ha tutti i torti, il giornalista del Paese Sera, la visione è davvero dura da reggere. In genere, perfino da questo ultimo critico citato, i gemelli Castiglioni sono considerati esenti dal sensazionalismo «alla Jacopetti»; ma, allora, cosa giustifica una tale scelta narrativa? La ripetizione estenuante di un momento crudo e violento non era il tipico esempio di richiamo per il pubblico in cerca di sensazioni forti, che più che il numero di volte che veniva reiterata un’efferatezza, cercava piuttosto l’evento inedito, il fatto mai visto prima. Qui, poi, i Castiglioni ritornano a quanto già mostrato nei loro primi lungometraggi; niente di nuovo, quindi. Quello che nemmeno cambia, ma è semplicemente più insistito, più ripetuto, è un determinato gesto violento e sadico. E qui viene quasi naturale, coinvolgere in quella sadica violenza, anche gli uomini che vediamo armeggiare a danno dei fanciulli. E, forse, ci viene finalmente un dubbio. L’insistenza su questa barbarie, vestita a festa come rito cultural-religioso, rivela il volto del vero sadismo, quello gratuito e «dipinto» a fin di bene. I ragazzi di Africa dolce e selvaggia, devono compiere il rito per divenire veri uomini; in questo senso la cerimonia è spacciata come qualcosa di utile, per gli stessi giovani. Al netto del rispetto che si deve a qualunque cultura o tradizione, è evidente che, in concreto, non è così. Eppure la tradizione venne mantenuta a lungo. E, c’è da scommetterci, quei ragazzi, che vediamo essere già abbastanza grandi da potersene ricordare per tutta la vita, quando sarà il momento, si comporteranno esattamente come gli adulti che li hanno obbligati a sottoporsi al rito. Che potrà anche avere un valore simbolico, forse avrà anche un’utilità, nel senso che costringe i ragazzi a dimostrare il loro valore, ma, nella sostanza, è una violenza gratuita. Un po’ come, nella nostra società, fatte le debite proporzioni, si presentava il servizio di leva –quando ancora c’era– con lo sradicamento da casa e le vessazioni del «nonnismo», fenomeno che affliggeva anche i «primini» nelle scuole superiori. Naturalmente, facendo qualche accurata ricerca, si potrebbero anche trovare esempi più calzanti, con tradizioni che, anche alle nostre latitudini, sottopongano i novizi di qualunque situazione a sorta di riti di iniziazione più simili alle atrocità mostrate nel film. Ma, concettualmente, può bastare anche il becero bullismo da quattro soldi delle caserme o degli istituti delle scuole superiori: perché è così arduo rompere la spirale di violenza gratuita? Perché quando arriva il turno di chi, a suo tempo, aveva subìto, questi si rivela un aguzzino tale e quale ai suoi predecessori? Forse perché il sadismo non è questione di Jacopetti o dei fratelli Castiglioni, ma dell’uomo. E, spesso, la religione, e non solo quella cristiana, è un alibi per poter soddisfare i propri istinti sadici; come nel caso –anzi, nei numerosissimi casi– mostrati in Africa dolce e selvaggia. Fanno specie, a questo proposito, anche le motivazioni che vengono portate per «giustificare», o quantomeno provare, la natura di questo genere di operazioni sessuali inflitte ai giovani: ai maschi, il prepuzio viene tagliato per eliminare ogni similitudine con le femmine della specie. Alle ragazze spetta un destino anche peggiore, perché l’intento di queste operazioni rituali è di eliminare, o quantomeno ridurre, il piacere nell’atto sessuale. Oltre che rimarcare, anche in questo caso, la differenza tra i sessi. L’accentuazione forzata del dimorfismo sessuale nel genere umano non è chiaramente prerogativa dei popoli primitivi, si pensi anche alla nostra educazione, alla cultura, che ha sempre portato femmine e maschi a connotarsi in modo spiccatamente diverso, a volte del tutto arbitrario e ingiustificato. É curioso come un simile orientamento sia presente sin dalle culture primitive, e, volendo trovare un filo conduttore, si evolva ma mantenga dei tratti evidenti in comune. Come mai, nel corso dell’evoluzione, nessuna di queste storpiature, è stata corretta? Sono domande, d’accordo, che esulano dal contesto di un film come Africa dolce e selvaggia, ma vedere e riuscire, almeno in parte, a cogliere –forse proprio grazie all’insistenza dei Castiglioni sulle efferatezze– come ci si abitua alla violenza, ci fa riflettere sulla nostra capacità di ignorare la sofferenza quando è altrui.
I genitori che spediscono i figli piccolissimi all’asilo nido o alla scuola materna, soffrono, guardandoli piangere?   
Naturalmente la risposta è sì, si tratta di una domanda retorica buona per chiudere la questione –e questa recensione– con una battuta. 



           

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sabato 27 settembre 2025

ADDIO ULTIMO UOMO

1736_ADDIO ULTIMO UOMO , Italia 1978. Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni

Dopo anni di nuove esplorazioni africane, i gemelli Castiglioni ne riproposero, nel 1978, un ulteriore resoconto in forma di documentario lungometraggio. Stavolta Oreste Pellini finì relegato al ruolo di fonico, il montaggio venne affidato a Rita Olivato Rossi e il commento, sempre recitato da Riccardo Cucciolla, fu scritto da Vittorio Buttafava. Le musiche, comunque importanti in questo tipo di produzioni ma stavolta meno efficaci, sono di Franco Godi; la canzone Why [di Birri e F. Godi] è cantata con voce suadente da Kim. C’è un evidente tentativo di chiudere con la precedente, diciamo così, «trilogia» frutto della collaborazione con Guido Guerrasio e, in qualche modo, ricominciare qualcosa di nuovo. Del resto anche il titolo, che comincia con il termine «addio», sembra un tentativo di archiviare un precedente discorso. Oltre che rinsaldare il collegamento con il genere sostanzialmente creato da Jacopetti, che, nella sua filmografia, vantava ben due film, Africa addio e Addio zio Tom, che contenevano appunto il saluto più definitivo. In effetti, Addio ultimo uomo aggiunge poco di nuovo, almeno dal punto di vista commerciale, un aspetto mai rinnegato dai Castiglioni: il film ha senz’altro un valore etnografico perché documenta inediti posti visitati dai fratelli milanesi ma, per lo spettatore comune, in quell’ottica la sostanza cambia relativamente rispetto ai precedenti tre documentari. Intendiamoci, gli usi e i costumi delle varie etnie possono, e forse devono, interessare anche il grande pubblico, ma, a meno di essere studiosi di antropologia, è difficile cogliere gli aspetti e la complessità dei vari riti e tradizioni che finiscono per sommarsi, e divenire difficilmente distinguibili e riconoscibili, gli uni dagli altri. Certo, l’eleganza e la bellezza dei Nuba del Sudan, sono facili da ricordare, del resto avevano attirato anche l’attenzione della fotografa Leni Riefenstahl, che aveva già dimostrato, nella sua pur discutibile carriera, una indubbia capacità di cogliere la fisicità delle anatomie umane dei suoi soggetti. Tuttavia, in questo Addio ultimo uomo, c’è un altro aspetto che sembra premere ai gemelli Castiglioni, ed è il mondo in cui la critica abbia faticato, nel complesso, ad accettare la crudeltà delle scene dei precedenti film dei registi milanesi. In questo senso il richiamo a Jacopetti, e ai suoi contestatissimi film africani, sembra quasi una provocazione dei registi. L’idea di inserire alcune pesanti scene sanguinolente girate nel mondo civilizzato, contrapposte in paragone a classiche immagini esotiche truculente, tramite il montaggio alternato, sembra un tentativo di voler porre di fronte ad un dilemma i severi recensori. Questi orrori, che scandalizzarono la critica benpensante, erano analogamente presenti anche nella nostra quotidianità, per quanto si preferiva tenerli celati; era quindi questo il buon gusto, o meglio, il comune senso del pudore? La capacità di ignorare?

Da parte loro, i Castiglioni rivendicavano il rispetto per le popolazioni primitive che si può cogliere guardando il film. A proposito di ciò, durante l’intervista riportata dal mai lodato abbastanza Jacopetti files, alla costatazione di come il rito funebre finale di Addio ultimo uomo esprima un enorme rispetto per l’anziano, Alfredo commenta: “Questa osservazione mi fa piacere perché –come diceva Angelo– va al di là del fatto che il prodotto finale del film è commerciale –per ovvi motivi di carattere economico”. [Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Intervista a Angelo e Alfredo Castiglioni, da Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 193]. Nel merito di questo rituale, nel quale l’anziano defunto viene praticamente spellato, i fratelli milanesi chiariscono il punto di vista della già citata Professoressa Salvioni che provò ad interpretare la strana usanza dei Kapsiki. “Il bimbo africano quando viene alla luce è bianco. Esce dal ventre materno e, quando muore, deve tornare nel ventre della «Grande Madre», che è la Terra, ancora bianco. Ed è per questo che viene «spogliato» della sua pelle nera. Inoltre, nel filmato, si vede che il cadavere viene messo in una specie di utero scavato sottoterra e composto in posizione fetale”. [Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Intervista a Angelo e Alfredo Castiglioni, da Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 198].
Il film non ebbe un successo clamoroso, ma si comportò dignitosamente al box-office. La critica si confermò, anche in questo caso, divisa tra la bocciatura per la gratuità degli aspetti truculenti e il riconoscimento dell’importanza come testimonianza di un momento cruciale della Storia africana. Tra le tante appartenente al primo filone, possiamo annoverare questa recensione: “Le guerre tribali, le scarnificazioni e i tatuaggi, le danze erotiche, i conventi dedicati al culto del fallo, la spellatura del defunto, la deflorazione rituale, sono «le immagini sconvolgenti che –avverte la pubblicità– vedrete in questo film». Tutto vero, assolutamente vero. E in più ci sono anche evirazioni, arti e orecchie mozzati, amori consumati in modi variamente stravaganti con ricorso anche a particolari strumentazioni, bambini simpaticamente sfregiati, cadaveri in via di putrefazione fatti segno a grande interesse da parte di sciami di insetti. Come si sarà capito, è un film per spettatori dallo stomaco a prova di bomba. Così preavvertito, il lettore che sia ciononostante ancora interessato, potrà sapere che la consueta passerella di usanze africane è alternata a brani che intenderebbero mostrare come, in quanto a efferatezze, gli europei non siano da meno, e che anzi a noi vadano imputate maggiori ferocia e depravazione, a contrasto con l'innocenza degli «ultimi uomini». Si assiste così a stomachevoli imprese dei marines in Vietnam, ributtanti interventi chirurgici e filmini di bordelli tedeschi. In complesso, tuttavia, va detto che le scene vomitevoli e il paternalismo moralistico e superficiale del commento traggono qualche vantaggio da una direzione precisa e formalmente attenta”. [a. dg., Addio ultimo uomo, Stampa sera, 27 febbraio 1979, pagina 21]. Più positivo quest’altro commento, curiosamente uscito qualche giorno dopo sull’edizione mattutina dello stesso giornale: “l’impegno antropologico ed etnologico degli autori è indirizzato verso la ricerca di usanze, tradizioni, consuetudini di remote tribù equatoriali. In minuscoli, sperduti agglomerati umani, dove la civiltà moderna risulta quasi totalmente estranea, sono quindi presenti cinepresa e magnetofono per raccogliere immagini e voci non contraffatte, piegate il meno possibile alle esigenze, sempre in agguato, d’un «sensazionalismo» emotivo e speculativo che faccia spettacolo. In testa al documentario, una citazione del poeta e uomo politico senegalese Léopold Senghor ne giustifica l’assunto, che è quello d’ascoltare le parole degli stregoni e dei cantastorie, dei vecchi saggi che governano tribù antichissime per ricavare, dai loro detti, testimonianze irripetibili. I fratelli Castiglioni hanno ascoltato e, al tempo stesso, guardato e registrato con scrupolo e diligenza: la «camera», maneggiata con grande abilità tecnica da Alfredo, ha filmato, più e più volte con accentuato realismo, riti millenari, cerimonie primitive, manifestazioni crudeli. All’esposizione, in vari momenti impressionante, di questo «materiale» genuino (anche se montato con evidente ricerca dell’effetto) si è voluto contrapporre la visione di altre «crudeltà» molto meno istintive: quelle dovute, per esempio, alle esigenze della chirurgia plastica praticata negli istituti di bellezza, qui alternata alla documentazione di atroci tatuaggi su volti e corpi maschili e femminili. Stonature e intrusioni arbitrarie che potevano essere evitate”. [a. v., Addio ultimo uomo, La Stampa, anno 113, n. 60, 15 marzo 1979, pagina 7].      
Interessante come, nel suo Dizionario dei film, il critico Morando Morandini valuti Addio ultimo uomo in modo non del tutto negativo: “(…) il commento di Buttafava invita, con qualche cedimento alla retorica, alla comprensione di usi e costumi primitivi anche se gli intenti didattici possono essere interpretati come alibi di fronte alla macelleria sanguinolenta di alcune scene. Rispetto al documentarismo all’italiana di Jacopetti e C. i fratelli Castiglioni sono esenti dal reato più grave, la falsificazione dei documenti, la contraffazione della realtà a scopi sensazionalistici. Qualche concessione alla tratta dell’esotismo. Non mancano nemmeno pagine suggestive, come i due riti funebri, all’inizio e alla fine”. [
Morando Morandini, Il dizionario dei film 2003, Bologna, Zanichelli Editore, 2002, alla voce Addio ultimo uomo]. La «concessione alla tratta dell’esotismo» è un riferimento al severo giudizio con cui lo storico cinematografico francese André Bazin censurava il documentarismo, già quello di Enrico Gras degli anni Cinquanta, reo, secondo il critico, di violare la verginità dei paradisi esotici con la tecnologia e i capitali del cinema. Se Bazin aveva simili «perplessità» a fronte dell’opera di Gras o anche di Folco Quilici, figuriamoci cosa avrebbe potuto dire a proposito dei Mondo movie, da Jacopetti in poi, per quanto anche Morandini sottolinei come i fratelli Castiglioni segnino da questi, con il loro cinema, una sostanziale differenza. Tuttavia quando il critico italiano parla di «alibi di fronte alla macelleria sanguinolenta» è evidente che qualcosa anche del cinema dei fratelli milanesi non lo convinca affatto. Morandini pone quindi il solito interrogativo: fino a che punto è volontà di mostrare la realtà, l’insistenza sui passaggi truculenti, e quanto è invece mera speculazione sensazionalista? Lo stesso commento del film, nella scena dell’evirazione del nemico, su cui la ripresa sembra insistere quasi con compiacimento, riflette su questo interrogativo, giustificando la necessità di mostrare quella che era una realtà da conoscere. In sostanza, tralasciando un’autorità come Bazin, Morandini e i Castiglioni sembrano girare in tondo al vero cuore del problema senza affrontarlo. Le scene di macelleria, non sono un alibi: sono il punto cruciale e, semmai, è il documentario etnografico che i Castiglioni gli costruiscono intorno, ad esserlo. In questo senso sono illuminanti gli inserti presi dal moderno mondo occidentale che sono montati in parallelo, a paragone, con le scene più efferate. Un elemento che ha turbato la maggioranza della critica: “piuttosto infelice ci pare la trovata di contrappuntare la violenza «primitiva» a quella del nostro mondo tecnologico (forse con il bel risultato di giustificarle entrambe?)”. [Vice, L’Unità, 17 novembre 1979, tratto da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 251 e 252
]. Non ha torto il recensore dell’Unità, perché le scene della chirurgia plastica mostrata senza sconti sono particolarmente disturbanti, perfino più di quelle esotiche. E, allora, nonostante ci creino qualche problema –anzi, fondamentalmente proprio per quello– forse non sono poi così gratuite. Forse, i Castiglioni, nel cercare di mostrare come la nostra civiltà moderna non sia poi così diversa da quella primitiva, hanno finalmente rivelato l’arcano. Quello che affascina alcuni, che hanno l’onestà di ammetterne il potere seduttivo, è la stessa cosa di quello che la maggioranza –per educazione, cultura, convenienza– rifiuta sdegnosamente: la violenza. Che, spesso, in un modo o nell’altro, si innesta con il sesso. Una legge della Fisica, forse la legge più importante di tutto il Creato, recita: «ad ogni azione, corrisponde azione uguale e contraria». Perché queste immagini, semplici immagini della realtà –ad esempio le interiora di un animale, non sono che le sue parti anatomiche interne– ci ripugnano con tanta forza, con tanta «violenza»? Forse perché, per qualche motivo atavico, ne siamo in qualche modo attratti. Così come ci attrae la violenza; di cui il sadismo e il masochismo –aspetti di cui i Mondo movie sono sempre tacciati– non sono che componenti autoconsapevoli. Ma, per il raggiungimento di un equilibrio davvero stabile –e non imposto artificialmente da strutture esterne quali l’educazione, la religione, il perbenismo– forse è più salutare conoscere meglio sé stessi e i propri limiti, di cui, indiscutibilmente, l’attrazione per la violenza è il principale.
In quest’ottica il cinema dei fratelli Castiglioni, che limita il sensazionalismo alla Jacopetti, rappresenta un deciso passo in avanti. Certamente l’esotico, il primitivo, ci affascina, senza bisogno di eccedere nella messa in scena artefatta, perché nella sua cultura possiamo trovare quei passaggi drammatici –meglio, violenti– nei riti, nelle cerimonie, nella vita quotidiana, che nella nostra civiltà, tendiamo a misconoscere. E per averne la prova, non serve andare in una clinica per la chirurgia estetica, come han fatto i Castiglioni. Quasi in ogni casa, è presente la raffigurazione di un uomo che venne crocifisso ancora vivo; evidentemente, la religione è esente da certe critiche al buon gusto. 




           

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giovedì 25 settembre 2025

MAGIA NUDA

1735_MAGIA NUDA , Italia 1975. Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni, Guido Gerrasio

La collaborazione di Moravia al testo del commento fuoricampo introdusse una perturbazione che ruppe un equilibrio che, fin lì, aveva mirabilmente resistito. Era comprensibile che ci fosse una sorta di gelosia professionale, tra i vari autori: in fondo i Castiglioni e Pellini avevano sudato bel oltre le classiche sette camicie, correndo rischi di varia natura, per spingersi nei più remoti e sperduti angoli dell’Africa Nera. Di contro, Guerrasio, nel caso della sua prima collaborazione, aveva parlato di sei mesi di lavoro al montaggio, per cavarne qualcosa di commerciabile. Insomma, stabilire la paternità di prodotti tanto anomali e peculiari non era semplice e, in effetti, nelle recensioni o negli articoli che vi fanno riferimento, a volte troviamo citati come registi i gemelli Castiglioni, altre volte Guerrasio, altre volte ancora tutte e tre e, in qualche ulteriore esempio, viene accreditato perfino Pellini. Lo spirito di reciproca collaborazione permetteva di mettere in secondo piano i personalismi. Guerrasio, descriveva così la formula segreta: “Ci siamo autofinanziati, il nostro è un nuovo tipo di cooperativa che funziona solo se gli spettatori sono d’accordo con gli autori”. [P. Per., Che colpo il poker di Africa segreta! Incontro con i quattro realizzatori: Guerrasio, i gemelli Castiglioni e Oreste Pellini, Stampa Sera, anno 101, n. 285, sabato 13, domenica 14, dicembre 1969, pagina 8]. E che gli autori siano perfettamente in sintonia tra di loro, sembra sottintendere l’affermazione di Guerrasio. Il coinvolgimento di Moravia, che nominalmente sostituì appunto Guerrasio nella stesura del commento, probabilmente ebbe una sua influenza nel rompere questo equilibrio, e per il cineasta milanese Magia nuda fu l’ultima collaborazione coi Castiglioni. Interpellata in proposito, sua moglie Mimi Ferrari ebbe parole abbastanza decise nel descrivere come maturò la cosa, oltre a rivendicare a nome di suo marito la sostanziale paternità del testo recitato ancora una volta da Riccardo Cucciola. [Conversazione con Mimi Ferrari da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 204 e 205]. Più pacata la ricostruzione di Angelo Castiglioni: “Che Guerrasio abbia partecipato alla stesura del testo è indubbio. Tuttavia, in questi lavori, il risultato finale è sempre frutto della collaborazione di tutti. Ognuno ci mette del suo, poi Moravia ha fatto anche la revisione finale del testo. Ha elaborato la parte giornalistica, e persino poetica del commento al film”. [Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Intervista a Angelo e Alfredo Castiglioni, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 199]. Se l’innesto di Moravia agitò un po’ le acque, all’interno della «squadra», i risultati concreti non ebbero poi questo riscontro: il commento di Magia nuda non è molto diverso da Africa segreta o Africa ama. Per quanto, è proprio nella traccia audio che possiamo cogliere il più significativo punto messo a segno dal nuovo lavoro dei fratelli Castiglioni. Se, nel complesso, le musiche di Francesco Lavagnino fanno il loro lavoro con professionalità, l’incipit coi titoli di testa del film è addirittura stupefacente: una breve ripresa aerea, che ricorda certe sequenze di jacopettiana memoria, poi la sirena navale annuncia l’inquadratura da terra di una larga chiatta fluviale; a questo punto i credits arrivano nel classico giallo intenso –un cliché dei Mondo movie– mentre le immagini dall’alto e quelle dal molo si alternano. Una stupenda musica si fa strada: è Soleado [di Ciro Dammicco, in arte Zacar, Dario e Aberto Baldan Bembo, Maurizio Seymandi, 1974], primo singolo dei Daniel Sentacruz Ensemble che rilancia l’idea di colonna sonora di Riz Ortolani per Mondo Cane o Africa addio, dove ad un testo filmico forte e disturbante era associato una musica eccezionalmente soave. Stando a quanto si può apprendere da un’intervista pubblicata sulla rivista Nuovo Sound, questo splendido brano non fu realizzato «ad hoc» per il film, ma fu semplicemente utilizzato una volta che era già stato registrato. A titolo di ulteriore curiosità si può annotare che, in principio, Soleado fosse stato concepito –grazie ad un’intuizione di Vince Tempera– arrangiando un precedente pezzo di Dammico, Le rose blu, e fosse destinato a finire nel lato B di un nuovo disco in vinile. <da http://Daniel Sentacruz Ensemble 1976 (sopi.it), e https://secondhandsongs.com/work/111539 visitati l’ultima volta il 22 marzo 2024>. L’abbinamento tra la celestiale melodia e le immagini iniziali di Magia nuda, crea un contrasto da pelle d’oca alta un centimetro. Perché non c’è solo il contrasto, tra l’atmosfera idilliaca suggerita dal suono e la prosaicità delle condizioni in cui si presentano i viaggiatori man mano che la chiatta giunge a riva: questo contrasto è trattenuto, come tenuto in sospensione, dal montaggio che intercala, a queste scene, visuali panoramiche dall’areo che, per loro natura, mantengono sempre un certo distacco, da qui la «sospensione», con la nuda realtà terrena. Una volta istaurato questo mistico clima narrativo, la cinepresa può concentrarsi sui malconci passeggeri che scendono sul molo, insistendo anche su un improvvisato controllore di bordo che, ad un certo punto, sembra perfino accorgersi di essere ripreso e manda a quel paese i nostri operatori. Ma nemmeno il suo scocciato sbracciarsi riesce ad incrinare l’atmosfera, anzi, è un ulteriore fattore che alimenta il citato contrasto. In seguito, Riz Ortolani rilancerà ulteriormente in questa sorta di gara nella capacità di abbinare musica struggente ad immagini scioccanti, con lo splendido tema per Cannibal Holocaust [regia di Ruggero Deodato, 1980]. Intanto, in Magia nuda, l’arrivo nella savana a bordo di un fuoristrada, ci riporta definitivamente con i piedi per terra. E sarà terra africana, ma, nel corso del documentario, ci si avventurerà anche in Amazzonia, nelle Filippine, e in altri paesi dell’estremo oriente. Con qualche ritocco alla censura, il film era riuscito ad approdare nelle sale con l’inevitabile divieto ai 18 anni ma, in questa occasione, non erano subentrate noie giudiziarie. La critica, in qualche caso esplicitamente influenzata dalla firma di Moravia sul commento, era stata comunque meno severa rispetto al precedente Africa ama. In realtà le recensioni hanno una duplice matrice, in entrambi i casi abbastanza netta: quelle positive, per salvare il film, devono sottolinearne la validità etnografica del lavoro dei Castiglioni; quelle negative lo stroncano, senza troppi giri di parole, per i contenuti scabrosi, cogliendovi un intento unicamente speculativo. Ecco un commento che appartiene alla prima categoria, positivo con «riserva»: “Certo non ogni capitolo di questo «reportage» è rigorosamente chiuso agli allettamenti del «pittoresco», sì che le servitù commerciali del «genere» ogni tanto non vi si facciano sentire. Ma nessuno digrada mai a mezzo di adescamento, o indugia sulla violenza, sul sesso o generalmente sull’«irrazionale», per il gusto di comunicare al pubblico sensazioni forti. 

In ogni sua parte (anche in quella cinematograficamente un po’ scontata) il film si fa scrupolo di servire il vero, presentando storture, crudeltà e stranezze caratteristiche d’una società primitiva nella luce di un’interpretazione altrettanto umile quanto penetrante, che spogliando il concetto di «négritude» d’ogni ebbrezza estetizzante, gli restituisca (e qui il commento moraviano, affidato alla voce di Cucciolla, è determinante) il significato solenne e triste di una condizione storica”. [l.p. Primitivi e stregoneria, La Stampa, anno 109, numero 102, domenica 4 maggio 1975, pagina 8]. Di contro, le stroncature sono in genere più categoriche: “Il risultato dovrebbe essere «scientifico» ma non è così. Di cose strane ne vediamo molte in Magia nuda. I tagli delle ugole, le operazioni chirurgiche a mani nude, l’endocannibalismo (già illustrato in precedenti film), le flagellazioni rituali, gli esorcismi, le cure medico-animistiche; ma, soprattutto, vediamo sangue che scorre e curiosità esotiche (che rimangono tali, a livello di turismo «particolare») sul sesso, sulla verginità, sulla masturbazione, sulle cure del fallo e così via. Ancora una volta siamo non all’urto del documento puro ma allo «choc» dell’effettismo. Non un film per curiosi in senso sano delle abitudini «diverse», da incuneare nella nostra conoscenza dell’uomo, ma una sollecitazione per guardoni in poltrona, amanti delle sensazioni forti”. [e.c., Magia nuda, Giornale di Bergamo, giovedì 10 marzo 1975, pagina 8].
Magia nuda ci mette, in effetti, in seria difficoltà. Perlomeno, mette in difficoltà l’individuo che prova a farsi un’idea propria sempre e comunque, anche a costo di lasciare alcuni problemi irrisolti. Chi non è avvezzo a prendere soluzioni preconfezionate, dalle religioni, dalle dottrine ideologiche, dalle logiche di partito o fazione, può facilmente rimanere basito di fronte alla nonchalance con cui i Castiglioni riprendono alcuni riti magici, apparentemente inspiegabili, e li sottopongono agli spettatori tramite la visione sullo schermo. Certo, in questo caso è il rispetto per la altrui tradizioni, culture e religioni a frenare l’istintiva curiosità che avrà necessariamente assalito anche i cineasti mentre riprendevano certi stupefacenti riti. Il commento, però, avrebbe potuto –e forse dovuto– fornire qualche elemento in più. Perché, stando alle immagini, siamo stati davvero di fronte ad eventi di pura magia, verrebbe quasi da gridare al miracolo, quando i guaritori filippini praticano la loro «medicina». Non si tratta di sottovalutare o peggio, denigrare, questi fenomeni: ma l’occhio scientifico, si presuppone anche quello etnografico, deve essere scettico quasi per definizione. 

Far passare questi riti alla stessa stregua di quelli erotici o venatori è una scelta che lascia un po’ perplessi. Se le scene dei chirurghi filippini potrebbero essere semplicemente frutto di abili movimenti da prestigiatore, sembrano più realistiche quelle in cui vengono estratti dagli occhi o dalle caviglie sorta di noduli viscidi e vischiosi. Il commento di Moravia lascia più stupefatti delle immagini: “Le energie che si irradiano dal guaritore e dallo sciamano, potrebbero forse essere onde ad altra frequenza, le cosiddette emanazioni kirlian che appartengono alla sfera dei fenomeni paranormali. Queste onde, ignorate in occidente, sono, a quanto pare, oggetto di studi nell’Unione Sovietica con lo scopo di conseguire, alla maniera dei filippini, l’ablazione degli organi”. Il riferimento alle «emanazioni kirlian», da parte di una persona di cultura come Moravia lascia disorientati: per ottenere tale effetto, lo scienziato russo Semën Davidovič Kirlian applicava una forte scarica elettrica (ad alto voltaggio e ad alta frequenza) agli elementi che andava poi a fotografare. Quella sorta di linea luminosa azzurra che li circondava fu, per un certo periodo, scambiata per l’aurea vitale ma si trattava, appunto, dell’effetto kirlian, un fenomeno fisico. In assenza di un qualcosa che generi una energia elettrica, ad alto voltaggio e ad alta frequenza, risulta difficile comprendere come si possa tirare in ballo questo fenomeno. Spacciare per rispetto delle altrui credenze, culture e tradizioni, il tentativo di ammantare di fascino posticcio e truffaldino il documentario, è una sorta di autogol degli autori. Forse fu proprio la firma di Moravia, a far sorvolare su questa cosa, che sembra davvero un passaggio degno di una storiella di Topolino. Nel caso, che sembra assai ipotetico, che tali scene fossero reali, andavano assolutamente approfondite e questo, al contrario, sorvolare genericamente sulla cosa, non depone a favore della buona fede degli autori. Questi aspetti inficiano, onestamente, la riuscita complessiva del documentario, nonostante gli sforzi profusi dagli autori che hanno girovagato per il mondo nella loro ricerca etnografica. Purtroppo se si sceglie e si paventa un approccio scientifico, o quanto meno serio e rigoroso nella sostanza, non sono ammesse deroghe. Qui non si tratta delle concessioni allo spettacolo di cui i Castiglioni avevano già fatto ammissione, perché il passaggio è un po’ più sostanziale e concettuale. Se, nel mostrare determinate usanze, si mostrano scene di sesso e violenza –anche con lo scopo di rendere più commerciale il film– è un conto; si può discutere dell’opportunità o meno della cosa, ma si tratta, appunto, di scelte eventualmente opinabili. Se si trascura volutamente di approfondire scene quantomeno dubbie e ambigue, da un punto di vista scientifico, per alimentare il fascino misterioso del film, allora si finisce per rimpiangere il sensazionalismo alla Jacopetti. 





           

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martedì 23 settembre 2025

PIOMBO ROVENTE

1734_PIOMBO ROVENTE (Sweet smell of success), Stati Uniti 1957. Regia di Alexander Mackendrick

Prima di argomentare a proposito del film di Alexander Mackendrick, occorre una piccola precisazione utile, se non a giustificare, almeno a trovare una motivazione per la scelta del titolo Piombo rovente, in luogo dell’originale Sweet Smell of success, operata dagli ineffabili distributori italiani. Nonostante il titolo italiano sembri echeggiare un gangster movie se non addirittura un western, e il piombo rovente sarebbe quindi quello delle pallottole, il riferimento tutto sommato legittimo è alla «lega tipografica». In tipografia, infatti, i blocchetti che costituiscono i caratteri con cui si compongono le parole e quindi gli articoli dei giornali, sono realizzati in piombo, antimonio e stagno. In sostanza, i distributori italiani, scegliendo Piombo rovente, hanno voluto sottolineare come l’ambiente della stampa americana, vero fiore all’occhiello della società yankee, possa essere paragonato a quello della malavita. Del resto, quello di Mackendrick è in genere classificato come noir ma potrebbe essere un gangster movie a tutti gli effetti, con tanto di boss malavitoso senza scrupoli, J. J. Hunsecker (Burt Lancaster, granitico come suo solito) e il coprotagonista aspirante tale, con ancora meno scrupoli, Sidney Falco (Tony Curtis). Hunsecker è in realtà un famoso editorialista che ha anche una rubrica televisiva quotidiana, ed è talmente influente da determinare il destino delle persone su cui disserta; Falco è un giovane e cinico addetto stampa che procaccia le notizie che sottopone poi allo stesso Hunsecker. La trama del film è relativamente importante: il nocciolo della questione è che Hunsecker non gradisce che la sua giovane e innocente sorellina, Susan (Susan Harrison), frequenti o peggio si fidanzi con il musicista Steve Dallas (Martin Milner). Il ragazzo è un giovane chitarrista jazz ma Hunsecker probabilmente ritiene i 19 anni di Susan troppo pochi per mettersi a fare sul serio. Il problema è che quando Hunsecker parla esige essere ascoltato e, soprattutto, obbedito, cosa che, al contrario, Susan e Steve continuano ad ignorare di fare. 

Il compito di far desistere il musicista è affidato a Falco che, dal suo punto di vista, vede quindi essere messo a rischio la carriera dai capricci di due innamoratini troppo ostinati. Il soggetto è tutto sommato tutto qui, ma è scritto da un califfo quale Ernst Lehman, Mackendrick in regia parte a cannone sin da subito e non molla mai, le musiche sono di Elmer Bernstein, il bianco e nero è opera di James Wong Howe, insomma, la confezione formale è di prim’ordine. I dialoghi sono ficcanti e gli scambi taglienti e anche il cast, è quasi banale dirlo, non delude. Lancaster è praticamente impossibile lo faccia, Curtis rivela come la sua faccia simpatica possa essere presa a schiaffi con piacere e, in merito a interpretazioni un po’ stereotipate, è da segnalare quella di Emile Meyer nei panni del tenente di polizia Harry Kello. Un vero brutto ceffo: perché in un film che critica aspramente la stampa non è che la polizia possa sperare di farci bella figura. Troppo critico, Mackendrick? Macché. Al contrario, ben centrato sulla questione.
E allora cos’è che non va in Piombo rovente? Perché fu un fiasco al botteghino? E perché ancora oggi è misconosciuto? Intanto va detto che la critica lo accolse subito benevolmente e anche oggi il film ha un’ottima reputazione. E giustamente, perché come detto Piombo rovente è un film eccellente che parla chiaro e mette spalle al muro la società americana (e quindi occidentale in generale) prendendosela proprio con il «quarto potere», che dovrebbe essere piuttosto l’ultima garanzia di giustizia. Ma sembra non ci sia verso di risolvere il problema dei problemi che stava tanto a cuore all’ideale democratico: l’indipendenza del potere giudiziario ha semplicemente creato un nuovo centro di potere e anche la libera stampa, che dovrebbe ulteriormente sorvegliare con un occhio imparziale, si è rivelata già da tempo, come dimostra appunto Piombo rovente, un’altra fonte di potere con cui chi comanda deve semplicemente fare i conti. Espressioni artistiche –come appunto il cinema– a parte, per cercare un minimo di verità, sebbene possa sembrare assurdo, i vituperati social media paiono poter essere l’ultima risposta. Un nuovo potere, forse già a sua volta asservito, ma la cui natura anarchica può lasciarci un minimo di speranza.        






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domenica 21 settembre 2025

L'URLO DEI COMANCHES

1733_L'URLO DEI COMANCHES (Fort Dobbs), Stati Uniti 1958. Regia di Gordon Douglas 

Si narra che la Warner Bros volesse trasformare in un divo cinematografico Clint Walker, star indiscussa del piccolo schermo grazie alla serie western Cheyenne [108 episodi interpretati tra il 1955 e il 1962] e il primo passo in questo senso fu affidargli il ruolo di protagonista ne L’urlo dei Comanches. Walker era un buon attore, e nel film interpreta dignitosamente Gar Davis, un uomo giusto ma con qualche ombra nel passato; tuttavia bisogna dare atto a Virginia Mayo, che nel film interpreta la controparte femminile, Celia Gray, che aveva qualche dubbio sulla sua adeguatezza al cinema su grande schermo. Walker era un pezzo di marcantonio di quasi due metri e bell’aspetto; il problema e che non rinunciava alla cura personale, ne L’urlo dei Comanches lo vediamo radersi e sempre coi capelli ingellati in stile anni 50. Se a questi elementi estetici un po’ troppo caratteristici, assommiamo una non eccelsa capacità espressiva drammaturgica, ci troviamo per le mani un bel fusto che sembra pavoneggiarsi del tutto fuori luogo col contesto. Proprio grazie al film di Gordon Douglas si può osservare come, ad esempio, Virginia Mayo, che era una bambolina per nulla credibile in una fattoria isolata nel mezzo delle Montagne Rocciose, riuscisse, grazie ad una vitalità sorprendente e alla proverbiale verve, ad essere funzionale a quello che, è bene ricordarlo, rimaneva pur sempre una ricostruzione di finzione in chiave epica e non un mero documentario. La Warner insistette ancora per qualche film, con Clint Walker, a testimonianza che l’attore comunque aveva potenzialità o quantomeno lo studio vi credesse, ma i risultati non furono sufficienti a renderlo iconico come sperato. L’urlo dei Comanches verte proprio sulla personalità del personaggio di Walker, era quindi l’occasione giusta per affermarsi e, come detto, il risultato non è affatto deludente, di per sé. Il riferimento ai nativi, proprio solo del titolo italiano –quello originale è l’altrettanto scarsamente inerente Fort Dobbs– è fuorviante in quanto il ruolo dei Comanches ricalca quello degli Apaches in Ombre rosse [Stagecoach, John Ford, 1939]. Si tratta, cioè, di una presenza ambientale ostile che dà corpo alla pericolosità insita nella conquista del west, in sostanza uno dei fattori di rischio nell’andarsene verso ovest sul continente americano. 

Non sono indagate le ragioni dei nativi o le necessità di sicurezza dei bianchi nella loro opera colonizzatrice: tra le tante insidie anche gli indiani erano un pericolo, per la verità erano «il» pericolo e, in questo senso, L’urlo dei Comanches li utilizza come elemento narrativo. Il tema del racconto è la parzialità della visione unilaterale, una soggettività dalla quale possono derivare conclusioni sbagliate. Questo è l’argomento portante di tutta quanta la vicenda, con Celia Gray che si fa un’idea errata, basandosi sulle apparenze, a proposito di Gar Davis, ma è anche esplicitato in qualche scelta prettamente registica. Ad esempio nell’uso della soggettiva della Macchina da Presa, stratagemma enfatizzato nella scena dell’assalto dei Comanche alla casa dei Gray, con un pezzo del serramento della finestra, un piccolo bastone verticale, che si trova giusto in mezzo all’obiettivo intralciando la ripresa. In questo senso, volendo, si può inserire anche la Questione Indiana ne L’urlo dei Comanches, con uno sguardo sui nativi che volutamente li lascia fuori da qualsiasi approfondimento e da cui si può, errando, trarre la conclusione che siano i «cattivi» della vicenda. Un po’ come l’ombra del sospetto che grava su Gar Davis, sin dall’incipit nel quale l’uomo regola il conto ad una sorta di rivale in amore ed è successivamente inseguito dallo sceriffo di Largo (Russ Conway) con l’accusa di omicidio. Il finale, che risolve tutti i vari nodi lasciati aperti, sia quello giudiziario che quello sentimentale, non è un semplice happy ending ma qualcosa di più corposo, in quanto al protagonista è concesso il perdono in base alla sua parola sui fatti avvenuti in apertura grazie soprattutto alla condotta successiva; in un film anche credibile ma, trattandosi di omicidio, forse un po’ troppo semplicistico. 

La regia di Gordon Douglas è adeguata, le musiche di Max Steiner sono una garanzia ma la nota di merito, in questo caso, va allo sceneggiatore Burt Kennedy. Kennedy, ne L’urlo dei Comanches, prepara uno script che è la quintessenza del cinema americano: ogni azione, ogni dettaglio, porta in grembo gli sviluppi per lo snodo successivo in un susseguirsi di concatenazioni perfino eccessive ma sempre godibili. Tra i passaggi emblematici in questo senso si possono ricordare quello della giacca che Gar Davis si scambia con il morto che trova mentre sta scappando dalla posse dello sceriffo. Uno stratagemma per ingannare i suoi inseguitori ma anche il dettaglio che lo metterà successivamente in cattiva luce agli occhi di Celia Gray. Quest’ultimo è il passaggio migliore del lungometraggio, anche grazie alla capacità artistiche di Virginia Mayo, sempre eccellente quando deve sfoderare gli artigli, ma i meccanismi narrativi di Kennedy perdurano imperterriti lungo tutti gli incastri della trama, in qualche caso con sincronismo persino esagerato. Si veda l’arrivo al forte, il successivo ritorno sulla scena di Davis con lo stratagemma dei cavalli che sembrano capitare lì a bella posta, e via di questo passo. Tra gli aspetti toccati da L’urlo dei Comanches c’è quello delle armi a ripetizione, nello specifico il fucile Henry, capaci di sparare 15 colpi di fila senza dover ricaricare. A portarli in dote al racconto è Clett (Brian Keith), furfante che ha come scopo principale quello di mettere in luce le qualità di Davis, per contrasto, dopo, peraltro, aver rivelato qualche particolare oscuro del passato del protagonista. I fucili a ripetizione sono l’asso nella manica che permette di risolvere la partita e anche questo elemento certifica il lavoro maniacale in sede di sceneggiatura per cui tutti quanti i dettagli sono asserviti al funzionamento del racconto. Clett prova anche a scaldare dal punto di vista erotico il racconto, elemento inevitabile se si considera l’avvenenza della Mayo; per la verità, in questo campo non è che Clint Walker fosse da meno e gli autori, per smorzare questa traccia, inseriscono la figura del bambino, Chad (Richard Eyer), figlio della donna. 

La presenza di Chad, oltre a questo aspetto di monito, introduce una nota umoristica che serve da lubrificante in una vicenda che, per il resto, si basa sulla tensione costante mantenuta viva dalla minaccia dei Comanches. Se la prima scena in cui appare Chad è comica a scoppio ritardato, ovvero solo quando scopriamo che è stato il bambino a sparare a Davis, nella scena dell’assalto degli indiani c’è almeno un passaggio ai limiti della commedia slapstick. Più divertente e anche piccante la citata in precedenza sequenza in cui Celia finisce per sospettare Davis di aver ucciso suo marito. La donna, cocciutamente, aveva provato ad attraversare da sola un fiume in piena, venendo poi sopraffatta dalla forza della corrente. Davis si era tuffato e l’aveva tratta in salvo; con la donna priva di sensi, l’aveva evidentemente spogliata dagli abiti bagnati e l’aveva coperta con la giacca che teneva nella sacca. Questa giacca non era più la sua; era la giacca che aveva scambiato con un cadavere, ucciso da una freccia comanche, al fine di ingannare lo sceriffo. L’uomo ucciso dagli indiani era, naturalmente, il marito di Celia. Intanto era scesa la sera e, al calore del fuoco, la donna si era destata; Davis stava pulendo il fucile di Chad, in quel momento opportunamente a nanna. Dopo un attimo di smarrimento, la gratitudine inondava la ragazza, che si rendeva conto di essere viva grazie all’uomo che l’accompagnava e l’aveva salvata dalle acque. Poi, anche vedendo i suoi abiti stesi ad asciugare, si rendeva conto di essere nuda mentre, colui il quale l’aveva spogliata, stava strofinando con vigore la canna del fucile. Ogni riferimento erotico era, evidentemente, ricercato dallo zelo di Kennedy se non da Douglas che, comunque, aveva approvato in ultima analisi. Passaggi di questo tipo non sono infrequenti, nel cinema di Hollywood, ma nel western non sono poi così abituali come lo furono, ad esempio, nelle commedie brillanti. La Mayo, in questi frangenti, è formidabile e lo è in particolare quando si accorge che la giacca che la copre è quella di suo marito, con tanto di foro insanguinato sulla schiena, di cui, ovviamente, finisce per accusare Davis. La gattina si trasforma rapidamente in una tigre e poco ci manca che faccia la festa al suo salvatore ma nel western chirurgicamente calcolato di Kennedy e Douglas il rischio è sempre calcolato con precisione affinché rimanga solo tale. La Mayo farà di meglio, nella carriera, per quanto non è che sia un’attrice particolarmente apprezzata; eppure riesce sempre a dare una nota di valore alle produzioni a cui partecipa. Ne L’urlo dei Comanches, oltre alla confezione formale molto buona, alla sceneggiatura perfino troppo puntuale, è proprio la sua presenza a rimanere nella memoria. 





Virginia Mayo 





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