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sabato 27 settembre 2025

ADDIO ULTIMO UOMO

1736_ADDIO ULTIMO UOMO , Italia 1978. Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni

Dopo anni di nuove esplorazioni africane, i gemelli Castiglioni ne riproposero, nel 1978, un ulteriore resoconto in forma di documentario lungometraggio. Stavolta Oreste Pellini finì relegato al ruolo di fonico, il montaggio venne affidato a Rita Olivato Rossi e il commento, sempre recitato da Riccardo Cucciolla, fu scritto da Vittorio Buttafava. Le musiche, comunque importanti in questo tipo di produzioni ma stavolta meno efficaci, sono di Franco Godi; la canzone Why [di Birri e F. Godi] è cantata con voce suadente da Kim. C’è un evidente tentativo di chiudere con la precedente, diciamo così, «trilogia» frutto della collaborazione con Guido Guerrasio e, in qualche modo, ricominciare qualcosa di nuovo. Del resto anche il titolo, che comincia con il termine «addio», sembra un tentativo di archiviare un precedente discorso. Oltre che rinsaldare il collegamento con il genere sostanzialmente creato da Jacopetti, che, nella sua filmografia, vantava ben due film, Africa addio e Addio zio Tom, che contenevano appunto il saluto più definitivo. In effetti, Addio ultimo uomo aggiunge poco di nuovo, almeno dal punto di vista commerciale, un aspetto mai rinnegato dai Castiglioni: il film ha senz’altro un valore etnografico perché documenta inediti posti visitati dai fratelli milanesi ma, per lo spettatore comune, in quell’ottica la sostanza cambia relativamente rispetto ai precedenti tre documentari. Intendiamoci, gli usi e i costumi delle varie etnie possono, e forse devono, interessare anche il grande pubblico, ma, a meno di essere studiosi di antropologia, è difficile cogliere gli aspetti e la complessità dei vari riti e tradizioni che finiscono per sommarsi, e divenire difficilmente distinguibili e riconoscibili, gli uni dagli altri. Certo, l’eleganza e la bellezza dei Nuba del Sudan, sono facili da ricordare, del resto avevano attirato anche l’attenzione della fotografa Leni Riefenstahl, che aveva già dimostrato, nella sua pur discutibile carriera, una indubbia capacità di cogliere la fisicità delle anatomie umane dei suoi soggetti. Tuttavia, in questo Addio ultimo uomo, c’è un altro aspetto che sembra premere ai gemelli Castiglioni, ed è il mondo in cui la critica abbia faticato, nel complesso, ad accettare la crudeltà delle scene dei precedenti film dei registi milanesi. In questo senso il richiamo a Jacopetti, e ai suoi contestatissimi film africani, sembra quasi una provocazione dei registi. L’idea di inserire alcune pesanti scene sanguinolente girate nel mondo civilizzato, contrapposte in paragone a classiche immagini esotiche truculente, tramite il montaggio alternato, sembra un tentativo di voler porre di fronte ad un dilemma i severi recensori. Questi orrori, che scandalizzarono la critica benpensante, erano analogamente presenti anche nella nostra quotidianità, per quanto si preferiva tenerli celati; era quindi questo il buon gusto, o meglio, il comune senso del pudore? La capacità di ignorare?

Da parte loro, i Castiglioni rivendicavano il rispetto per le popolazioni primitive che si può cogliere guardando il film. A proposito di ciò, durante l’intervista riportata dal mai lodato abbastanza Jacopetti files, alla costatazione di come il rito funebre finale di Addio ultimo uomo esprima un enorme rispetto per l’anziano, Alfredo commenta: “Questa osservazione mi fa piacere perché –come diceva Angelo– va al di là del fatto che il prodotto finale del film è commerciale –per ovvi motivi di carattere economico”. [Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Intervista a Angelo e Alfredo Castiglioni, da Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 193]. Nel merito di questo rituale, nel quale l’anziano defunto viene praticamente spellato, i fratelli milanesi chiariscono il punto di vista della già citata Professoressa Salvioni che provò ad interpretare la strana usanza dei Kapsiki. “Il bimbo africano quando viene alla luce è bianco. Esce dal ventre materno e, quando muore, deve tornare nel ventre della «Grande Madre», che è la Terra, ancora bianco. Ed è per questo che viene «spogliato» della sua pelle nera. Inoltre, nel filmato, si vede che il cadavere viene messo in una specie di utero scavato sottoterra e composto in posizione fetale”. [Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Intervista a Angelo e Alfredo Castiglioni, da Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 198].
Il film non ebbe un successo clamoroso, ma si comportò dignitosamente al box-office. La critica si confermò, anche in questo caso, divisa tra la bocciatura per la gratuità degli aspetti truculenti e il riconoscimento dell’importanza come testimonianza di un momento cruciale della Storia africana. Tra le tante appartenente al primo filone, possiamo annoverare questa recensione: “Le guerre tribali, le scarnificazioni e i tatuaggi, le danze erotiche, i conventi dedicati al culto del fallo, la spellatura del defunto, la deflorazione rituale, sono «le immagini sconvolgenti che –avverte la pubblicità– vedrete in questo film». Tutto vero, assolutamente vero. E in più ci sono anche evirazioni, arti e orecchie mozzati, amori consumati in modi variamente stravaganti con ricorso anche a particolari strumentazioni, bambini simpaticamente sfregiati, cadaveri in via di putrefazione fatti segno a grande interesse da parte di sciami di insetti. Come si sarà capito, è un film per spettatori dallo stomaco a prova di bomba. Così preavvertito, il lettore che sia ciononostante ancora interessato, potrà sapere che la consueta passerella di usanze africane è alternata a brani che intenderebbero mostrare come, in quanto a efferatezze, gli europei non siano da meno, e che anzi a noi vadano imputate maggiori ferocia e depravazione, a contrasto con l'innocenza degli «ultimi uomini». Si assiste così a stomachevoli imprese dei marines in Vietnam, ributtanti interventi chirurgici e filmini di bordelli tedeschi. In complesso, tuttavia, va detto che le scene vomitevoli e il paternalismo moralistico e superficiale del commento traggono qualche vantaggio da una direzione precisa e formalmente attenta”. [a. dg., Addio ultimo uomo, Stampa sera, 27 febbraio 1979, pagina 21]. Più positivo quest’altro commento, curiosamente uscito qualche giorno dopo sull’edizione mattutina dello stesso giornale: “l’impegno antropologico ed etnologico degli autori è indirizzato verso la ricerca di usanze, tradizioni, consuetudini di remote tribù equatoriali. In minuscoli, sperduti agglomerati umani, dove la civiltà moderna risulta quasi totalmente estranea, sono quindi presenti cinepresa e magnetofono per raccogliere immagini e voci non contraffatte, piegate il meno possibile alle esigenze, sempre in agguato, d’un «sensazionalismo» emotivo e speculativo che faccia spettacolo. In testa al documentario, una citazione del poeta e uomo politico senegalese Léopold Senghor ne giustifica l’assunto, che è quello d’ascoltare le parole degli stregoni e dei cantastorie, dei vecchi saggi che governano tribù antichissime per ricavare, dai loro detti, testimonianze irripetibili. I fratelli Castiglioni hanno ascoltato e, al tempo stesso, guardato e registrato con scrupolo e diligenza: la «camera», maneggiata con grande abilità tecnica da Alfredo, ha filmato, più e più volte con accentuato realismo, riti millenari, cerimonie primitive, manifestazioni crudeli. All’esposizione, in vari momenti impressionante, di questo «materiale» genuino (anche se montato con evidente ricerca dell’effetto) si è voluto contrapporre la visione di altre «crudeltà» molto meno istintive: quelle dovute, per esempio, alle esigenze della chirurgia plastica praticata negli istituti di bellezza, qui alternata alla documentazione di atroci tatuaggi su volti e corpi maschili e femminili. Stonature e intrusioni arbitrarie che potevano essere evitate”. [a. v., Addio ultimo uomo, La Stampa, anno 113, n. 60, 15 marzo 1979, pagina 7].      
Interessante come, nel suo Dizionario dei film, il critico Morando Morandini valuti Addio ultimo uomo in modo non del tutto negativo: “(…) il commento di Buttafava invita, con qualche cedimento alla retorica, alla comprensione di usi e costumi primitivi anche se gli intenti didattici possono essere interpretati come alibi di fronte alla macelleria sanguinolenta di alcune scene. Rispetto al documentarismo all’italiana di Jacopetti e C. i fratelli Castiglioni sono esenti dal reato più grave, la falsificazione dei documenti, la contraffazione della realtà a scopi sensazionalistici. Qualche concessione alla tratta dell’esotismo. Non mancano nemmeno pagine suggestive, come i due riti funebri, all’inizio e alla fine”. [
Morando Morandini, Il dizionario dei film 2003, Bologna, Zanichelli Editore, 2002, alla voce Addio ultimo uomo]. La «concessione alla tratta dell’esotismo» è un riferimento al severo giudizio con cui lo storico cinematografico francese André Bazin censurava il documentarismo, già quello di Enrico Gras degli anni Cinquanta, reo, secondo il critico, di violare la verginità dei paradisi esotici con la tecnologia e i capitali del cinema. Se Bazin aveva simili «perplessità» a fronte dell’opera di Gras o anche di Folco Quilici, figuriamoci cosa avrebbe potuto dire a proposito dei Mondo movie, da Jacopetti in poi, per quanto anche Morandini sottolinei come i fratelli Castiglioni segnino da questi, con il loro cinema, una sostanziale differenza. Tuttavia quando il critico italiano parla di «alibi di fronte alla macelleria sanguinolenta» è evidente che qualcosa anche del cinema dei fratelli milanesi non lo convinca affatto. Morandini pone quindi il solito interrogativo: fino a che punto è volontà di mostrare la realtà, l’insistenza sui passaggi truculenti, e quanto è invece mera speculazione sensazionalista? Lo stesso commento del film, nella scena dell’evirazione del nemico, su cui la ripresa sembra insistere quasi con compiacimento, riflette su questo interrogativo, giustificando la necessità di mostrare quella che era una realtà da conoscere. In sostanza, tralasciando un’autorità come Bazin, Morandini e i Castiglioni sembrano girare in tondo al vero cuore del problema senza affrontarlo. Le scene di macelleria, non sono un alibi: sono il punto cruciale e, semmai, è il documentario etnografico che i Castiglioni gli costruiscono intorno, ad esserlo. In questo senso sono illuminanti gli inserti presi dal moderno mondo occidentale che sono montati in parallelo, a paragone, con le scene più efferate. Un elemento che ha turbato la maggioranza della critica: “piuttosto infelice ci pare la trovata di contrappuntare la violenza «primitiva» a quella del nostro mondo tecnologico (forse con il bel risultato di giustificarle entrambe?)”. [Vice, L’Unità, 17 novembre 1979, tratto da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 251 e 252
]. Non ha torto il recensore dell’Unità, perché le scene della chirurgia plastica mostrata senza sconti sono particolarmente disturbanti, perfino più di quelle esotiche. E, allora, nonostante ci creino qualche problema –anzi, fondamentalmente proprio per quello– forse non sono poi così gratuite. Forse, i Castiglioni, nel cercare di mostrare come la nostra civiltà moderna non sia poi così diversa da quella primitiva, hanno finalmente rivelato l’arcano. Quello che affascina alcuni, che hanno l’onestà di ammetterne il potere seduttivo, è la stessa cosa di quello che la maggioranza –per educazione, cultura, convenienza– rifiuta sdegnosamente: la violenza. Che, spesso, in un modo o nell’altro, si innesta con il sesso. Una legge della Fisica, forse la legge più importante di tutto il Creato, recita: «ad ogni azione, corrisponde azione uguale e contraria». Perché queste immagini, semplici immagini della realtà –ad esempio le interiora di un animale, non sono che le sue parti anatomiche interne– ci ripugnano con tanta forza, con tanta «violenza»? Forse perché, per qualche motivo atavico, ne siamo in qualche modo attratti. Così come ci attrae la violenza; di cui il sadismo e il masochismo –aspetti di cui i Mondo movie sono sempre tacciati– non sono che componenti autoconsapevoli. Ma, per il raggiungimento di un equilibrio davvero stabile –e non imposto artificialmente da strutture esterne quali l’educazione, la religione, il perbenismo– forse è più salutare conoscere meglio sé stessi e i propri limiti, di cui, indiscutibilmente, l’attrazione per la violenza è il principale.
In quest’ottica il cinema dei fratelli Castiglioni, che limita il sensazionalismo alla Jacopetti, rappresenta un deciso passo in avanti. Certamente l’esotico, il primitivo, ci affascina, senza bisogno di eccedere nella messa in scena artefatta, perché nella sua cultura possiamo trovare quei passaggi drammatici –meglio, violenti– nei riti, nelle cerimonie, nella vita quotidiana, che nella nostra civiltà, tendiamo a misconoscere. E per averne la prova, non serve andare in una clinica per la chirurgia estetica, come han fatto i Castiglioni. Quasi in ogni casa, è presente la raffigurazione di un uomo che venne crocifisso ancora vivo; evidentemente, la religione è esente da certe critiche al buon gusto. 




           

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