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martedì 24 settembre 2019

IL COLOSSO DI RODI

415_IL COLOSSO DI RODI; Italia, Spagna, Francia 1961Regia di Sergio Leone.

Il colosso di Rodi è un’opera che è divenuta oggetto di interesse in seguito al successo che il suo autore, Sergio Leone, ebbe coi successivi lungometraggi, a cominciare dai famosi spaghetti-western. In sé, il film, un peplum all’italiana, non è certo memorabile e si inserisce senza particolari evidenze nella produzione nazionale del genere. A livello narrativo, la storia ha una buona struttura, sebbene si dilunghi eccessivamente; visivamente l’opera è interlocutoria. Ci sono scene molto interessanti accostate ad altre meno efficaci e piuttosto dozzinali. Intanto, rispettando i canoni del genere, il film ha un fondamento storico, facendo riferimento alla civiltà di Rodi all’epoca del colosso, che era una delle sette meraviglie del mondo antico. E’ giusto ricordare che ai peplum non era certo richiesto un rigore storico: tuttavia Leone spara subito a raffica una serie di inesattezze, spesso completamente gratuite, quasi a voler delegittimare ogni pretesa anche solo vagamente attendibile del suo racconto. A posteriori, si può notare come alcuni degli elementi più interessanti de Il colosso di Rodi anticipino parte del lavoro che Leone farà per rinnovare il western. Il personaggio principale in Il colosso di Rodi, Dario (Ray Calhoun) è uno straniero, un simpatico perdigiorno che ha come unico interesse correre dietro alle sottane e riposarsi. E’ un eroe di Atene, sia chiaro; ma delle sue imprese ne parlano altri, mentre lui ripete spesso che si deve riposare. L’atteggiamento di cercare di togliersi dal centro della scena, mentre è conteso dalle parti in causa nella lotta, verrà poi ripreso per gli anti-eroi degli spaghetti western. Un discorso analogo, almeno parzialmente, si può fare per l’uso, nell’opera, della figura femminile. Qui le donne sono due, Diala (Lea Massari) e Mirte (Mabel Karr). 
La prima è bella, affascinante, ambigua; la cosa è resa figurativamente da Leone dal fatto che è spesso intenta a rimirarsi allo specchio. Personaggio simbolico e al tempo stesso di una buona resa scenica, tradisce l’eroe ma poi lo salva, a parziale riscatto della propria vita. Un modo importante di intendere la donna che, almeno in principio, sarà estraneo agli spaghetti western. Meno strutturato il personaggio di Mirte: è vero che alla fine riesce a conquistare Dario, ma sembra più che altro una figura di contorno. E questo è, invece, il tipico spazio concesso alla figura femminile in molti western all’italiana. Inoltre, anche il ruolo giocato dal terremoto che, di fatto, ristabilisce la pace a Rodi, ricorda il destino ai cui capricci saranno sottoposti molti dei personaggi dei successivi film di Sergio Leone. 

Ma, come detto, oltre a questi spunti personali, il regista romano rispetta, seppur in modo un po’ sbrigativo, i cliché del peplum italico: ci sono i muscoli esibiti, il balletto coreografico, le belve feroci, i duelli all’arma bianca, le catastrofi. Il cinema di genere vuole i suoi passaggi obbligati e Leone non si sottrae; ma è indubbio che, per quanto il film non sia certo un capolavoro, ci siano numerosi elementi da sottolineare per la consapevolezza del regista nel realizzarlo. Ad esempio, molto interessante è l’uso di un doppio registro, drammatico e umoristico, nel duello notturno in cui Dario si scontra con Peliocre (Georges Marchal) e i suoi fratelli; nell’altra stanza vediamo Lisippo (George Rigaud) dormire beato con i tappi nelle orecchie incurante del finimondo che gli accade accanto. C’è quindi un po’ di ironia diffusa, di cui questo è un esempio esplicito, mentre c’è forse anche un divertimento, da parte di Leone, nel prendere in giro un po’ il genere peplum, che era in effetti spesso enfatizzato ai limiti del ridicolo. Forse la resa un po’ sciatta, dimessa, degli eventi catastrofici è voluta dall’autore per sottolinearne l’artificiosità. 


Del resto, in una scena, viene anche mostrato un plastico dettagliato dell’isola di Rodi e dell’enorme statua, che appare un po’ fuori luogo rispetto al tempo del racconto; così come anche i complicati marchingegni dentro al colosso sembrano di natura tecnica più moderna. C’è forse un tentativo di mostrare i meccanismi della macchina cinema, dei suoi trucchi, coi modellini per le riprese panoramiche; in qual caso con una consapevolezza metalinguistica notevole da parte di un autore che era all’inizio della carriera. In ogni caso, in altre scene, come quelle sulla sommità del colosso, l’autore rivela senza alcun ombra di dubbio, una qualità registica sorprendente quando riesce a citare in modo convincente nientemeno che Hitchcock. L’omaggio più evidente è ad Intrigo internazionale (film del 1959) dove i personaggi si inseguono sulle facce dei presidenti del Monte Rushmore; ma può venire in mente anche Sabotatori (1942), sempre del grande Hitch, con le scene cruciali riprese sulla Statua della Libertà di New York. Insomma, un’opera non completamente compiuta, questo Il colosso di Rodi ma, come è facile a dirsi col senno di poi, dalla quale emerge già la stoffa dell’autore.  






Lea Massari



  

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