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giovedì 8 febbraio 2018

RAPINA A MANO ARMATA

98_RAPINA A MANO ARMATA (The Killing). Stati Uniti, 1956;  Regia di Stanley Kubrick.

Ad un certo punto, Fay (la dolce Coleen Gray) confessa a Johnny Clay (l’impassibile Sterling Hayden) che, nei cinque anni in cui lui si trovava in prigione, lei si sentiva chiusa fuori; insomma, come se la vera libertà fosse stata potersi congiungere con il suo uomo nel chiuso di una cella e non restare fuori di essa. Un paradosso per testimoniare l’amore per l’uomo, certo, ma anche, almeno in senso letterale, una messa in discussione del concetto di spazio: uno spazio confinato molto piccolo diviene infatti un ambiente libero, il restante sconfinato mondo intero, una prigione. Un piccolo indizio che ci permette di cogliere la natura dell’operazione alla base di Rapina a mano armata del geniale regista statunitense Stanley Kubrick. Con quella affermazione della compagna del protagonista del film, viene infatti contraddetto il punto di vista abituale, mettendo in rilievo la soggettività dello sguardo, che può sempre essere messo in discussione. Del resto, in originale il titolo è The killing, ma la sparatoria con le uccisioni a cui si riferisce dura solo un breve momento del film, mentre il corpo principale della pellicola è occupata da una rapina (a mano armata) all’ippodromo. Analogamente al discorso sullo spazio, in questo caso viene messo in discussione il concetto di tempo, nel senso che un evento che dura pochi minuti è messo in rilievo rispetto ad un altro che occupa oltre un’ora di lungometraggio. Sono indizi, certo, ma che vengono confermati dallo sviluppo e dall’impostazione dell’opera: tempo e spazio vengono infatti divisi, scomposti, riproposti e ripetuti, durante lo scorrere della pellicola. 

La linea temporale degli eventi viene spesso violata, con numerosi flashback, tesi non tanto a raccontare episodi mancanti alla narrazione che provengano dal passato ma per rivedere la stessa situazione da un altro punto di vista, o per assistere, da un momento precedente, a quello che è successo in un altro ambiente. E, quindi, questi sbalzi non sono inerenti soltanto alla linea temporale, ma anche allo spazio del racconto: il luogo filmico è scomposto in tanti frammenti (spaziali e temporali), che poi si ricompongono in un unico grande avvenimento che è il corpo centrale della storia, la rapina a mano armata E questo enorme puzzle che è The killing funziona, e funziona perfettamente su entrambi i piani in cui si può leggere: oltre in riferimento alla vicenda effettivamente narrata, si potrebbe infatti intendere il film come una sorta di esperimento, una prova per verificare se, anche scomponendo una storia, questa poi possa essere comprensibile e soprattutto appassionante. Un test che l’opera supera brillantemente; e che ci dice che in un film non sono tanto importanti quei concetti legati alla trama, alla logicità dello scorrere del racconto, perché Rapina a mano armata dimostra che si può guardare un racconto scomposto e comprenderlo come senso compiuto e quindi ricomposto. 


Anzi, a ben vedere, l’opportunità di scomporre a piacimento il racconto permette all’autore una presentazione di personaggi e situazioni più organica, più ragionata e, quindi, per assurdo, più accessibile di una narrazione che segua le abituali consuetudini cronologiche. Che non sono aspetti secondari: queste regole narrative, infatti, sono spesso legate al genere, nel senso che il cinema ha una serie di codici (ad esempio i generi) che, venendo rispettati, istradano già lo spettatore in una certa direzione, aiutandolo nella fruizione. Per fare un esempio banale, in un western non serve che ogni volta ci venga specificato dove ci si trovi, perché la gente porti la pistola, o altre cose di questo tipo, perché sono legate al tipo di pellicola e lo spettatore le conosce.

E, in questo ambito, c’è forse il pregio maggiore dell’opera di Kubrick: Rapina a mano armata è infatti un testo metalinguistico, che riflette cioè sul cinema e non tanto su fattori esterni (come ad esempio la realtà contemporanea o di un certo periodo storico). E, nel farlo, il film mette in discussione due degli stessi aspetti più importanti del cinema di genere americano; i principali tra quelli legati alla sceneggiatura, alla trama, ovvero il tempo e lo spazio del racconto. E per di più lo fa all’interno di un noir, che tra i generi è quello che, insieme al western, probabilmente li considera più sacri.


Ma, e qui sta una delle qualità rilevanti dell’opera, questa contestazione non avviene da un punto di vista esterno, ma da un’opera che, pur mettendoli in discussione, rispetta questi dogmi. Rapina a mano armata è un noir, ma forse è meglio definirlo un crime-movie, perfetto, con una sceneggiatura di ferro, come si suol dire; che rispetta quindi al meglio i codici di genere ma, al contempo, ci permette di capire come questi vincoli siano secondari, non siano il punto cruciale dell’opera.

Un indizio che ci avvisa che si può trattare di un testo metalinguistico è anche il modo in cui viene usata la voce fuori campo: in questo caso, il narratore non è uno dei protagonisti e nemmeno un personaggio secondario, una comparsa, un testimone della vicenda. No, la voce appartiene a qualcuno di estraneo ma che, curiosamente, si dimostra ammiccante nei confronti dello spettatore, facendo anche battute umoristiche sui fatti narrati, come ad esempio quella su Marvin (Jay C. Flippen) che, apparentemente senza una logica, scommette su tutti i cavalli di una corsa (lo fa perché è uno dei meccanismi del piano della rapina). Il fatto che la voce esterna si prenda delle simili confidenze può farla attribuire, ad esempio, a quella del regista o anche più genericamente all’entità stessa del tempo ma, in ogni caso, serve a rendere questo puzzle narrativo di facile approccio, permettendo allo spettatore di godersi senza sforzi lo sviluppo dell’intreccio.

E questa è una della cartine tornasole della grandezza di Rapina a mano armata: il film, per quanto possa avere rimandi per cinefili, chiavi di lettura su piani diversi, non rinuncia mai ad essere uno spettacolo piacevole e godibile nel suo svolgersi; anzi, sembra proprio questo il suo scopo primario. Del resto il tema del gioco è un altro degli assi portanti dell’opera: dalle corse coi cavalli, alle scommesse; al passaggio dei messaggi sui bigliettini dei membri della banda, che ricorda certi divertimenti infantili, alla sala dove si gioca a scacchi, alla maschera da carnevale con cui Johnny esegue l’irruzione armata. Il cinema è un gioco e, come in tutti i giochi, basta un piccolo dettaglio, un colpo di sfortuna, un ferro di cavallo che buca una gomma, un cagnolino che sfugge alla padrona, e il risultato finale si può rovesciare, come la valigia piena di soldi che finiscono così per svolazzare sulla pista dell’aeroporto. Ma, in realtà, il finale è semplicemente parte di quel rispetto formale per il genere che Kubrick tiene a non smentire: il crimine non paga, questa è la regola nel cinema nero e, quindi, il piano di Johnny deve andare all’aria insieme ai bigliettoni. Il regista ha già mostrato, nel corso di tutto il corpo filmico di Rapina a mano armata, che la grandezza del cinema di genere è oltre le regole stesse dei generi e, quindi, anche e soprattutto nel finale, può tranquillamente rispettarle.



Coleen Gray




Marie Windsor




2 commenti:

  1. devo dire che non sono mai stato uno che si concentra troppo sulla trama, nel seguire un film... mi faccio catturare da tutto il resto, fotografia, immagini, belle attrici... :P

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  2. Scommetto soprattutto queste ultime... ;)

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