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venerdì 2 febbraio 2018

L'ALBERO DEGLI IMPICCATI

95_L'ALBERO DEGLI IMPICCATI (The Hanging Tree). Stati Uniti, 1959;  Regia di Delmer Daves.

Delmer Daves, dopo gli ottimi esordi, nel 1950 approda al western (con l’eccellente L’amante indiana) e in capo ad una decina d’anni diventa uno dei migliori interpreti del genere, con una manciata di film memorabili (Rullo di Tamburi, Vento di terre lontane, L’ultima carovana, Quel treno per Yuma) a cui si aggiunge, ultimo in ordine di tempo ma non certo in fatto di qualità, L’albero degli impiccati. Sono passati quindi quasi dieci anni dal suo esordio nel genere e, sebbene il sognante titolo L’amante indiana sia dovuto ai distributori nazionali, è indubbio che paragonandolo a questo L’albero degli impiccati, quello che  ci presenta il regista è ora un quadro decisamente meno romantico; già il solo confronto tra i titoli è emblematico in tal senso. Daves ha sempre un’inclinazione al melodramma, anche nei suoi western, ora più accentuata ora meno, ma i toni di questa sua ultima opera appaiono sin dal principio piuttosto cupi. Il film si apre con l’arrivo del Dottor Frail in un campo minerario del Montana: l’uomo ha un vestito scuro e l’aspetto serio e un po’ sofferto di Gary Cooper. Prima di entrare nell’abitato, il nostro passa accanto ad un maestoso albero morto e contorto, che porta ancora la corda dell’ultima impiccagione: la sua presenza incombente è sia ironica insegna di benvenuto che esplicito monito. Il paese è malandato e in generale la vallata, a differenza dei territori circondati da montagne attraversati poco prima dal Dottor Frail, è sinceramente squallida. L’attività mineraria ha violentato la terra, la natura, e il quadro d’insieme è davvero desolante. Dov’è il romantico far west? Se lo deve essere chiesto anche il dottore, quando decide di comprare una casa in vendita, piuttosto malconcia. Significativo che al venditore offra in prima istanza 5 centesimi; poi, a fronte di una richiesta di 1.000 dollari, si accorderà per 500. A quel punto il venditore gli offre anche la donna indiana che stava con lui, per soli 5 dollari: una squaw dall’aspetto pesante e abbruttito dalla fatica, ma la mente corre lo stesso ad un’altra pellerossa dei film di Daves, Stella del Mattino, a cui prestava le grazie una deliziosa Debra Paget nel già citato L’amante indiana. Sono passati quasi dieci anni, ma per Delmer Daves sembra passato un secolo.


Naturalmente il Dottor Frail rifiuta l’offerta visto che, al di là della scarsa avvenenza della donna, non sembra certo venuto a rintanarsi in un simile inferno per farsi (o rifarsi) una vita; piuttosto per espiare qualcosa, visto l’ambiente. Sulla scena fanno poi via via la loro comparsa gli altri personaggi dell’opera: Rune è un giovane ladro che il dottore salva dall’impiccagione e che poi prende con sé come aiutante per permettergli di saldare il debito, in un modo un po' ricattatorio. Il che rende il rapporto piuttosto difficile, visto che il ragazzo prende la cosa come un'imposizione ottenuta con mezzi sleali; ma il dottore ha una sua moralità, che ben celata dietro i modi bruschi e spesso incomprensibili al giovane, alla lunga verrà comunque alla luce. Poi c’è Frenchy (un viscido Karl Malden), perfetto esempio di contaminazione, meglio ancora di degrado, della figura nobile e epica del colono.

Con il suo ridicolo berretto completamente fuori luogo, è un individuo che è sempre in bilico per uscire dalla legalità, e anche quando è dalla parte della ragione (come all’inizio, quando viene derubato da Rune) è disturbante il modo in cui si esalta nello sparare a quello che, seppure è un ladro, anche nel selvaggio west rimane comunque un uomo. Sarà lui, comunque, ad introdurre l’ultimo personaggio, nonché quello più importante, nella vicenda: Elizabeth (la bella e dolcissima Maria Schell) una ragazza svizzera che rimane ustionata nel deserto in seguito all’attacco della diligenza su cui viaggiava. Ovviamente, essendo rimasta inferma, finisce sotto le cure del dottor Frail, con il quale avanzerà più che un debito di riconoscenza. Gli elementi a questo punto ci sono quindi tutti: in una comunità che ipocritamente cerca di mantenere l’aspetto integro a fronte di un continuo e vituperato scempio a Madre Natura, la presenza di un uomo, per altro austero e riservato ma dal passato tanto misterioso, che malignamente si suppone possa convivere con una ragazza giovane, altrettanto fastidiosamente irreprensibile vista l’apparente matrice puritana, non può certo passare sotto silenzio. Daves snoda e riannoda gli intrecci di questa trama a cavallo tra il western psicologico e il melodramma torbido, fino al drammatico finale, preannunciato da una apparente buona notizia.


Frenchy, Elizabth e Rune, che si erano messi in società, hanno finalmente trovato un giacimento ricchissimo. L’improvvisa ricchezza fa crollare tutti i freni inibitori di Frenchy che via via contagia l’intero insediamento a cui, nella baldoria, viene dato addirittura fuoco. Infine Frenchy si rivolge a quella che era stata sin dall’inizio il suo vero obiettivo, ovvero Elizabeth, ma ovviamente il dottor Frail interverrà per tempo chiudendo definitivamente i conti con il degenerato. Ma nell’isteria collettiva, il gesto è visto in pessima luce, essendo Frenchy degno rappresentante dell’intera comunità, e il predicatore da strapazzo Grubb (George C. Scott) arringa la folla e la convince ad impiccare il dottor Frail. Solo il tempestivo intervento di Elizabeth e Rune, salverà il dottore dalla morte (in cambio dell’oro del giacimento) e il film si conclude con un tenero ma allo stesso tempo lugubre lieto fine tra la ragazza e Frail. Più in disparte il giovane Rune che, nel conto finale, non sembra averci guadagnato un granché. Il western, il genere che raccontava la nascita della nazione, era al crepuscolo; ma quale futuro poteva avere un paese in cui, ai giovani, le ragazze preferivano gli uomini ormai al tramonto?









Maria Schell







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