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lunedì 26 febbraio 2018

MILANO CALIBRO 9

107_MILANO CALIBRO 9  Italia 1972;  Regia di Fernando Di Leo.

Ugo Piazza, uscito il giorno prima dal carcere di San Vittore a Milano, dopo aver subito già troppe vicissitudini per soli due giorni di libertà (pestaggi, incursioni notturne e diurne, reinserimento forzato nella mala milanese) si reca in un night club. Nel locale, alla go-go dancing c’è Nelly, e il suo spettacolo è già un motivo più che sufficiente per rendere Milano calibro 9 un film indimenticabile. Nelly è una meravigliosa Barbara Bouchet, che si esibisce in una danza erotica che il regista Francesco Di Leo sfrutta benissimo con alcune riprese di grandissimo impatto scenico. Ugo Piazza, il protagonista della nostra storia, è invece un formidabile Gastone Moschin, abilissimo nel rendere un personaggio tanto ambiguo quanto determinato. Comunque, Milano calibro 9, oltre alla celebrata scena del night, ha moltissimi aspetti interessanti e, nel complesso, è sicuramente un film eccellente. Teso e avvincente, presenta subito un livello di violenza fuori dall’ordinario, ma Di Leo non stempera mai nell’ironia la brutalità delle sue scene: la violenza in Milano calibro 9 è eccessiva e mantiene sempre la sua forza distruttrice, e quindi la pellicola non è certo per stomaci teneri. Le scene dei pestaggi sono impressionanti come raramente capita di vederne al cinema, e rendono pienamente il clima violento dei primi anni settanta nella società italiana. In realtà, più specificatamente, e lo si capisce già dal titolo, il film è focalizzato su Milano, la città che ha il volto più internazionale nella penisola. 

Il genere poliziesco di matrice urbana, che ha la sua collocazione naturale negli Stati Uniti, può infatti avere la sua migliore versione nazionale nel capoluogo lombardo; per altro è vero che, accanto ad alcuni luoghi tipicamente meneghini, (il grattacielo Pirelli, la torre Velasca, il Duomo, la torre Branca, i Navigli, il carcere di San Vittore) molte scene sono state naturalmente ricostruite a Cinecittà. Ma questo non è un limite, anzi, già da questo semplice dettaglio possiamo capire il valore cinematografico dell’opera: la Milano di Milano calibro 9 non è credibile tanto per l’autenticità dei luoghi di ripresa, ma piuttosto per l’atmosfera che Di Leo ricrea, sia con location meneghine che con ricostruzioni in studio, ma soprattutto per il clima pesante, di piombo, verrebbe da dire, che si respira nella pellicola. In questo senso il film è davvero notevole; come del resto per altri aspetti tipicamente tecnici, come il montaggio autorevole e la colonna sonora incalzante (opera di Luis Enrìquez Bacalov e del gruppo progressive degli Osanna). 


Il regista pugliese impiega quindi gli strumenti propri del cinema di azione, quelli utilizzati prevalentemente dal cinema di genere hollywoodiano, ma lo fa con mano personale, arrivando a cristallizzare al meglio il genere poliziesco all’italiana. Il tenore della storia, determinato più che altro dal grado di violenza che la percorre, è elevato, ma non arriva a farne un’opera grottesca o peggio una parodia. In questo senso sono eccezionali gli interpreti: l’imperturbabile Moschin tiene un profilo basso, visto che il suo ruolo richiede sobrietà, ma Philippe Leroy, Lionel Stander e soprattutto Mario Adorf recitano alzando i toni, riuscendo al contempo a rimanere comunque coerenti con l’armonia stringata della vicenda. Leroy è Chino, un malavitoso, a cui piace stare sulle sue, ma guai a chi gli pesta i calli; Stander è l’Americano, il boss della malavita milanese: l’attore statunitense recita sopra le righe ed è perfetto per il ruolo, così come lo è il suo caratteristico ghigno. 
Ma il vero protagonista del film è (insieme ovviamente a Moschin) Mario Adorf: Rocco, interpretato dall’attore tedesco, è la controparte sguaiata alla sobrietà di Ugo Piazza. Tanto il Piazza cerca di defilarsi, quanto Rocco prende sempre la scena, scimmiottando un po’ la figura del gangster mafioso, ma in modo perfettamente credibile. Adorf è poi bravissimo nel trasmettere il cambio di opinione che il suo personaggio realizza, quando si rende conto del bluff di Piazza; non è quindi un mero stereotipo, il suo Rocco Musco, ma un uomo, criticabile fin che si vuole, in grado di mutare la sua posizione all’interno della storia. Purtroppo nel film ci sono anche note meno liete: la prima è legata ad un singolo dialogo tra Chino e Don Vincenzo (Ivo Garrani), il vecchio padrino, nel quale l’anziano si lascia andare a commenti di rimpianto sulla mafia del tempo che fu, diversa e più rispettabile rispetto alle bande criminali moderne. Di Leo inserisce questo dialogo in modo poco naturale e, comunque, l’impressione è che sia un concetto condivisibile quando invece si tratta di una concreta aberrazione di ogni forma di senso di giustizia. A fronte di questo fugace elogio alla vera mafia, il regista fa anche di peggio in tutte le discussioni che mette in scena tra il commissario di polizia (Frank Wolff) e il vicecommissario Mercuri (Luigi Pistilli) che più che dialoghi sembrano comizi politici per il grado di faziosità e il ricorso ai più banali luoghi comuni.
Peccato; questi inserti stridono con il resto della pellicola, ma sono comunque utili perché dimostrano come in Italia non si riesca a far proprio, a possedere, il cinema come strumento per raccontare la propria realtà fino in fondo. Infatti, anche nel caso di un bel film di azione, che, per molti versi non ha niente da invidiare ad un prodotto hollywodiano, quando Di Leo arriva al nocciolo del discorso, all’aspetto più sentito, smette di utilizzare gli strumenti propri del cinema (la trama, la musica, il montaggio, i personaggi, ecc.) per inserire pedantemente discorsi-manifesto nei dialoghi.
Meglio chiudere con un elogio a Barbara Bouchet che, oltre alla scena del night, ci regala una deliziosa ma infida femme fatale. Che, sarà forse un caso, ma finisce malissimo pure lei.



Barbara Bouchet










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