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giovedì 22 febbraio 2018

FRANKENSTEIN

105_FRANKENSTEIN  Stati Uniti 1931;  Regia di James Whale.

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L’insospettabile successo di Dracula di Tod Browning spinse la Universal a mettere in cantiere immediatamente un altro film horror, anche questo basato su un romanzo gotico del 1800. Anzi, in realtà, come del resto per il film di Browning, alla base del trattamento per la sceneggiatura c’è un’opera teatrale, (di John L. Balderston) più che il libro in modo diretto. E’ quindi già un piccolo indizio di come lo studio abbia tentato sì di ripetere la formula utilizzata per la precedente pellicola horror, ma migliorando quello che si poteva e mantenendo inalterate quelle scelte strategiche che avevano funzionato. L’impianto teatrale offriva infatti una solida base per la messa in scena, cosa che permetteva ai personaggi mostruosi di manifestarsi nel loro statuario fascino: se il Dracula di Bela Lugosi era stato una figura assolutamente fantastica, la creatura di Frankenstein interpretata in modo magistrale, pur sotto il pesante trucco, da Boris Karloff non le era da meno. Questi mostri erano la vera attrattiva del film, e quindi un impianto scenico che mettesse i personaggi in bella vista era quello che ci voleva. Del resto un’altra strategia vincente era insita nel titolo delle opere: così come Dracula era sia il nome dell’opera che del personaggio mostruoso che primeggiava sullo schermo, anche nel film Frankenstein si ripeté la stessa formula, nonostante non ci fossero i presupposti narrativi. In effetti Frankenstein è il nome del dottore, e non della creatura, ma un po’ tutti hanno sempre avuto l’abitudine di identificare, con il sinistro nome, l’appellativo della creatura con la testa squadrata: un errore indotto dalla produzione che riuscì però nell’intento di comunicare, in modo quanto mai efficace, l’arrivo sugli schermi di un nuovo mostro targato Universal.

Anche sulle scenografie, del resto cruciali vista la matrice teatrale dell’opera, si riuscì a ripetere i fasti di Dracula, sia per la cura del regista James Whale (non a caso autore di scuola teatrale), sia per l’opera dell’esperto scenografo Charles D. Hall (già responsabile dell’ottimo lavoro in Dracula). Eccezionale poi la ricostruzione del laboratorio del dottor Frankenstein, opera di Kenneth Strickfaden, con macchine davvero futuribili e addirittura una bobina di Tesla per creare l’energia necessaria a dar vita al mostro. Insomma, se nella realizzazione di Dracula c’erano stati alcuni contrattempi (che non avevano però vanificato la riuscita dell’opera) per Frankenstein, Carl Laemme Jr (figlio del boss della Universal) non volle correre rischi, e organizzò tutto per eseguire un lavoro perfetto in ogni dettaglio. E così fu. 

A dirigere le operazioni in un primo momento fu chiamato il regista Robert Florey, ben presto sostituito dal britannico James Whale che, pur non avendo grandissima esperienza nel mondo del cinema, godeva della piena fiducia della produzione. Una stima pienamente meritata: Whale era regista abile e dotato di una capacità di comporre l’inquadratura eccellente, possedeva un talento visionario assolutamente fuori dall’ordinario, a dir poco geniale, conosceva come dettare i tempi del racconto e non lasciava nulla al caso. E tutte queste doti sono perfettamente riconoscibili in Frankenstein, film che è un assoluto capolavoro, sin dalle primissime e folgoranti inquadrature con il dottor Frankenstein (Colin Clive) e il fido Fritz (Dwight Frye) a disseppellire e trafugare cadaveri. 

Proprio la presenza di Dwight Frye è un altro trait d’union tra il film di Whale e Dracula: l’attore americano era stato un efficace Reinfield nel film di Browning, mentre addirittura si supera nella parte di Fritz, il servo gobbo e dispettoso del dottor Frankenstein. Whale muove con delicatezza sinuosa la sua macchina da presa, conducendoci nelle varie scenografie in un modo non troppo rispettoso della matrice teatrale, e queste ambientazioni sono vissute in modo cinematograficamente moderno, tanto che, una volta sullo schermo, sembra difficile pensare che alla base ci sia un’opera presa dal palcoscenico di un teatro. L’impronta del regista è poi riconoscibile in alcune soluzioni narrative (il mulino della scena finale), e anche nella leggera ironia che caratterizza il Barone Frankestein, padre del dottore che da’ la vita alla creatura. Sulla cui celeberrima maschera visiva la paternità è invece controversa: ufficialmente attribuita a Jack Pierce, pare però che lo stesso regista abbia avuto una certa influenza nella scelta del trucco, così come nella decisione di affidare la parte della creatura stessa a Boris Karloff. Questi dettagli possono sembrare puramente enciclopedici, però in questo caso sono parte integrante e decisiva nel valore dell’opera: a posteriori, siamo abituati a dare per scontato tantissime cose, che sono ormai divenute cliché del cinema horror; ma questi codici, queste consuetudini di genere, vennero definiti e inventati proprio in quei primi mitici film che segnarono il definitivo salto di qualità dei film del terrore.


Anche quella che oggi può sembrare una banale maschera di un mostro, come appunto è quella di Boris Karloff in questo film, fu in quel caso tanto efficace da arrivare con il suo carico di inquietudine, spaventosità, ma anche un suo particolare fascino, intatta fino ai nostri giorni. Venendo all’opera filmica in se’, va subito detto che ci sono moltissime sequenze memorabili: da quella del laboratorio dove prende vita la creatura, a quella in cui la folla inferocita arriva per fare giustizia. Davvero notevole la capacità di Whale di gestire queste scene traendone il massimo profitto. Dopo un preambolo introduttivo in cui uno degli interpreti (Edward Van Sloan ovvero il dottor Waldman nel film) avverte gli spettatori più impressionabili (ma si tratta di un’abile manovra pubblicitaria di Laemme Jr.), e i titoli di testi inquietanti (i tanti occhi che, come una sorta di occhio di Dio replicato, sembrano guardarci con rimprovero) e astutamente misteriosi (il punto di domanda a lasciare ignoto l’interprete del mostro), il lungometraggio si apre subito alla grande, con la scena del lugubre, a dir poco, funerale e che mette in campo il dottor Frankenstein e il fido Fritz pronti a trafugare cadaveri per i noti esperimenti. James Whale è però regista di grande gusto e una volta creato un clima tanto sinistro, inserisce toni anche più leggeri, di garbata ironia, che permettono di allentare la tensione, pur rimanendo su un piano parallelo a quelli più cupi. 

Il pericolo, nei film horror, se da un lato è di eccedere nella cupezza della storia, facendo divenire la visione troppo opprimente, dall’altro è che si rischia, con una componente umoristica troppo invadente, di smontare il meccanismo della paura, che verte, per sua natura, sulle componenti infantili dello spettatore. Whale riesce nel delicato equilibrio di produrre un’opera che procede sui due binari contemporaneamente, quello prevalente horror, e quello secondario, quasi di servizio, che mette un pizzico di humor che non inficia l’efficacia dell’inquietante storia. 

Nella quale assistiamo, naturalmente, alla creazione, da parte del folle dottor Frankenstein, di un uomo composto coi pezzi di cadavere; c’è, sottointesa, la critica alla Scienza e al suo sconfinamento in altri ambiti, nel voler sostituirsi a Dio, e, andando ancora più nello specifico, nel volere il controllo totale della propria creatura (celebre la scena del raggio di luce che il dottore toglie dal viso del mostro). Sono del resto i temi del libro di Mary Shelley che è alla base del plot narrativo e che, nel frattempo (il libro è del 1818, il film di Whale del 1931) sono diventati anche più attuali rispetto ai tempi della pubblicazione del romanzo. Il regista britannico è bravo, perché li mantiene tutti inalterati, pur producendo un evidente film destinato, come primo criterio apparente, a soddisfare il grande pubblico; un’opera popolare, insomma. 
Spiazzante, ancora oggi, la scena nella quale la creatura, dopo essere fuggita, incontra Maria, la bambina. In un primo momento, quando la scorge, si ha un piccolo dubbio sulle intenzioni del mostro: è un’espressione turbata o solo incuriosita? L’innocenza della piccola Maria cancella subito qualsiasi malignità, e la creatura mostra il suo lato umano. Poi, in modo del tutto sorprendente ma allo stesso naturale, quasi ovvio, il mostro getta la bambina nel lago, annegandola: non c’è cattiveria, beninteso, solo un’ottusa associazione di idee, da parte della creatura, che risulta fatale alla piccola Maria. La visione della bambina gettata in acqua dal mostro è stata spesso tagliata nelle varie riproposizioni dell’opera, e rimane ancor’oggi scioccante. La vicenda scorre poi nel solco prevedibile, con la folla che accorre con le torce e dà fuoco al mulino in cui si è rifugiato il mostro, chiudendo la questione in un’altra spettacolare scena. Naturalmente il vero mostro, il cattivo della storia,  è il dottore e non la creatura, la quale è una sorta di vittima dell’arroganza scientifica dello scienziato; ma va detto che Whale non indugia in commenti morali agli eventi, ma lascia allo spettatore il compito di trarre le logiche deduzioni, mentre il film si chiude, ironicamente, addirittura con un brindisi ‘alla salute dei Frankestein’!
Anche per questo, Frankenstein è tutt’oggi un film moderno, oltre che un capolavoro senza tempo.




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