1691_MASTRO DON GESUALDO , Italia 1964. Regia di Giacomo Vaccari
Il regista Giacomo Vaccari non ha una filmografia particolarmente
corposa: una trentina scarsa di titoli per la televisione, perlopiù assai
difficili da reperire. In compenso, i pochi film ancora disponibili per la
visioni sono molto interessanti, come nel caso de Il club dei suicidi
(1957), tratto da Robert Louis Stevenson o L’idiota (1959), da Fëdor
Dostoevskij. Purtroppo, pare che La Pisana (1964), sceneggiato ispirato
a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, sia andato perduto.
In ogni caso, rimane reperibile quello che forse è il suo capolavoro: Mastro
don Gesualdo, tratto dal sostanzialmente omonimo romanzo di Giovanni Verga.
Lo sceneggiato venne trasmesso dal Secondo Programma della Rai nel 1964, quando
lo sfortunato regista era già morto da un anno. L’opera detiene un paio di curiosità
che possono essere utili a tratteggiarne alcune caratteristiche: è il primo
sceneggiato ad essere impresso su pellicola cinematografica, ed è anche il
primo inedito trasmesso dalla seconda rete Rai, che fino allora aveva mandato
in onda solo repliche. Il che è un record quantomeno insolito: perché essere
relegato sul «secondo»
non può certo essere un vanto per l’opera in questione, in quanto il Nazionale,
l’odierna Rai Uno, era anche più di oggi considerata universalmente
l’ammiraglia dell’emittente di stato. Se consideriamo l’enorme sforzo
produttivo di Mastro don Gesualdo, sia per l’uso della pellicola, ma
anche per l’accuratezza delle ricostruzioni e della scelta delle location, per
l’attenzione al linguaggio, ai passaggi della trama, la cosa desta un po’ di
stupore. Tra gli attori, che dire poi di Enrico Maria Salerno, che per
incarnare il protagonista dà corpo ad una prestazione di assoluto rilievo, riempendo
lo schermo con la sua verve interpretativa. Benissimo poi anche Lydia Alfonsi,
triste e dolente Bianca Trao, la moglie nobile presa da Mastro Gesualdo per provare,
vanamente, ad agganciarsi alla nobiltà; ma tutto il cast è di ottimo livello, a
partire da Sergio Tofano e Romolo Costa, nei panni degli stralunati fratelli
Trao, personaggi caricaturali ed emblematici della vetusta e decadente nobiltà
siciliana dell’epoca.
Nonostante la ricchezza anche numerica del cast e una
presenza ingombrante come quella di Salerno, Vaccari riesce a mettere in primo
piano il contesto, per un risultato in cui, nonostante la verve di quello che è
il protagonista assoluto della vicenda, a rimanere nella memoria è l’affresco
generale. Un’operazione clamorosamente ben riuscita, perché la mano in regia di
Vaccari è autorevole, e forse in questo senso è da pensare la scelta della
pellicola in luogo dei tradizionali sistemi audiovisivi: il capolavoro di Verga
trova quindi degna rappresentazione sullo schermo. Scrisse, in proposito, Aldo
Grasso: “Vaccari firma il suo capolavoro, scardinando le regole linguistiche
che fino allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla
tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura
comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata. (…) Vaccari
utilizza in parte il dialetto e riproduce i quadri corali di Verga attraverso
il sovrapporsi di voci chiassose; anche queste scelte ribadiscono il rifiuto
dell'impostazione pedagogica a vantaggio di un deciso accostamento alla
sensibilità e alle suggestioni cinematografiche». [dal blog di Silvia Iannello,
pagina web
https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html,
visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Ma, anche grazie a questo lavoro di
attualizzazione, i temi del maestro siciliano risaltarono nitidamente, proprio
quando stavano probabilmente divenendo davvero attuali, in quel 1964, dal
momento che si può tranquillamente dire che per l’epoca di pubblicazione del
romanzo fossero in anticipo. Ovviamente tali spunti erano presenti già ai tempi,
al punto che un genio come Verga poté appunto coglierli, ma solo con il noto «miracolo
italiano» la scalata sociale, l’individualismo materiale, l’ossessione per la
ricchezza –la celebre «roba» verghiana– contageranno in modo diretto o
indiretto grosso modo chiunque nel Belpaese, senza fare prigionieri. Verga non
difendeva, come si evince splendidamente proprio da Mastro don Gesualdo
– il sistema in vigore in precedenza, con la ferrea divisione in classi
sociali, ma stigmatizza anche il nuovo corso sociale che propone come ricetta
per superarlo l’arrivismo senza scrupoli. Un avvertimento inascoltato.
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