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domenica 7 aprile 2024

LA RIVOLTA DEI SEMINOLE

1464_LA RIVOLTA DEI SEMINOLE (Seminole uprising). Stati Uniti 1955; Regia di Earl Bellamy.

Classico B-movie hollywoodiano degli anni Cinquanta, La rivolta dei Seminole si presenta subito con qualche tipico e clamoroso errore: basta infatti guardare gli indiani rappresentati nelle locandine e manifesti, per rendersene conto. D’accordo, da un western d’evasione non si pretende certo il rigore storico ma scomodare i Seminole, una tribù con costumi assai peculiari e stanziata nelle paludi della Florida, per dare il nome agli indiani di una storia che, apprendiamo dalla «voce over», è ambientata in Texas, sembra persino esagerato anche per una produzione di serie B. Verrebbe da pensare che si sia di fronte a quello che in molti ricordano essere il classico esempio di western stereotipato, con i bianchi buoni e gli indiani cattivi e, sul principio, il citato narratore –che si rivela essere la spalla del protagonista, Cubby Crouch, interpretato dal sempre forte William Bill Fawcett– sembra davvero così. Falco Nero – nell’originale Black Cat, impersonato da Steven Ritch – l’improbabile capo dei Seminole, è descritto come un autentico diavolo. E, nel corso della prima metà del film, si comporterà anche come tale. Tuttavia c’è da osservare che la superficialità per i dettagli realistici non riguarda solo i Seminole: certo, Falco Nero col cimiero di piume come un indiano delle pianure che si muove nei deserti del South west, è un bel miscuglio difficile da digerire. Ma, se vogliamo, la stessa ambientazione è inesatta, dal momento che si parla di Texas mentre il film è girato in Arizona e California; e anche le divise dei soldati americani non sono affatto compatibili con l’affermazione che ci informa che la vicenda si sia svolta nel 1855. Insomma, è chiaro che La rivolta dei Seminole è un western di serie B nel quale le licenze poetiche sono assai più numerose dei rimandi storicamente attendibili. E, verrebbe anche da pensare, vedendo queste premesse, che il racconto sia poi un campionario di luoghi comuni con gli indiani a farne le spese di tanta grossolanità. Invece non è affatto così. Tanto per cominciare, salta fuori che, sia Falco Nero che il suo «fratello di sangue» Aquila Grigia, alias Cam Elliot (George Montgomery, il protagonista del film), tenente della cavalleria americana, siano mezzosangue. Il che è già un elemento che scompiglia un po’ le carte: il «cattivo» non è l’indiano ma è un ruolo che spetta ad entrambe le razze. Poi, man mano che la vicenda si snoda, emerge che gli indiani hanno le loro ragioni, e, se è vero che stanno combattendo con violenza, lo fanno per una ragione di vita o di morte. Il film, come molti western minori usciti già nel momento «classico», porta ancora in dote gli elementi del decennio precedente, il periodo «romantico» del genere. 

Qui a sorreggere la traccia rosa è Karin Booth nel ruolo di Susan, nientemeno che la figlia del comandante del forte. La Booth era indubbiamente una bella ragazza, sebbene nel film esageri con trucco, rossetto e parrucchiere: si tratta però di cliché dei western di serie B al pari dell’imprecisione nei costumi e nelle pitture di guerra degli indiani. La trama sentimentale è abbastanza ingombrante, e mette di fronte l’eroe, il tenente Elliot, al vero «cattivo» della storia, il capitano Dudley (Ed Hinton), in lizza per i favori di Susan. Per far quadrare la sceneggiatura, gli autori ricorrono ad una serie di espedienti narrativi certamente un po’ forzati –i debiti del capitano, il fratello del sergente arruolato– ma, se non altro, inseriti con un certo anticipo in modo da essere poi utilizzabili al momento opportuno cercando di dare l’impressione della casualità. Anche questo modo di scrivere la sceneggiatura, formalmente corretta ma con evidenti artificiosità, è un cliché della narrativa di intrattenimento di livello più semplice, al cinema nei B-movie e sulle pagine di carta nei fumetti. Seppure c’è uno sguardo paternalistico nei confronti degli indiani, incarnato da Susan e da suo padre, il colonnello Hannah (Howard Wright), il film non mette certo i nativi sul banco degli imputati, tutt’altro. I personaggi peggiori sono il citato capitano Dudley e, seppur con qualche attenuante, Wilson (Rory Mallinson), un civile a cui i pellerossa avevano rapito moglie e figlioletto. Quando questi scopre che i suoi congiunti sono stati uccisi dai Seminole, si vendica ammazzando a sangue freddo Malawa (Jonni Paris) moglie di Falco Nero e il loro bambino. In seguito si apprenderà che la signora Wilson e suo figlio erano morti in seguito ad una colluttazione e, quindi, non in modo deliberato. 

La cosa è anche giustificata dalla trama, in quanto i Seminole si procuravano le armi vendendo appunto i prigionieri e, quindi, non avevano alcun interesse ad eliminarli. Tra un riconoscimento dei valori dei nativi americani, con il tenente Elliot che afferma che Falco Nero è uomo d’onore più di qualunque bianco, e qualche aggiustatina ai pedigree dei protagonisti non proprio felice –si scopre che l’eroe non è mezzosangue ma è un bianco cresciuto tra gli indiani– si arriva ad una pace che, di fatto, è una resa dei Seminole. Tuttavia, ci sono dei passaggi che meritano di essere ricordati perché, soprattutto considerato il contesto, non sono affatto banali. Quando Susan, in un confronto con Falco Nero, gli chiede cosa risponderà ai suoi figli quando gli chiederanno conto di essersi opposto al progresso, l’uomo risponde laconico: “io non ho più figli”, pensando al suo bambino appena trucidato insieme alla sua amata Malawa. Una risposta onesta e sentita, ma troppo egoista per essere data da un capo indiano degno di questo nome. Quando lo scontro tra i Seminole e i soldati del tenente Elliot si farà via via più aspro, Falco Nero accetterà le condizioni per la resa, sorprendendo il fratello di sangue che ne conosceva bene l’ardore bellico. La motivazione di Falco Nero ne riscatta il valore di autentico leader: guardando i suoi uomini morire sotto i colpi dei soldati, ha pensato ha quanti orfani sarebbero rimasti al campo e a quale futuro potrebbero aver avuto. Una nobiltà d’animo che il sakem Seminole ribadirà nel finale, quando salverà la vita alla truppa che lo sta portando a processo, rivelano il mondo per trovare l’acqua nel deserto. Insomma, La rivolta dei Seminole è l’ennesimo esempio di come gli indiani, ad Hollywood, non fossero affatto mal considerati. Nemmeno nelle serie minori.  




Karin Booth



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