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martedì 12 aprile 2022

BASSA MAREA

1001_BASSA MAREA (The House by the River). Stati Uniti, 1950;  Regia di Fritz Lang.

Il precedente film di Fritz Lang, Dietro la porta chiusa, aveva dichiarati debiti con Hitchcock, precisamente con Rebecca, la prima moglie (1940), come ammesso dallo stesso regista nato a Vienna nella preziosa intervista con Peter Bogdanovic (Il cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice). In Bassa marea l’influenza del maestro inglese è invece più diffusa, coinvolge maggiormente tutta quanta la pellicola ma, in fin della fiera, solo formalmente. Il testo fu realizzato da Lang per scopi, diciamo così, alimentari, nel senso che anche i registi devono pur campare e, nel 1950, in America, un cineasta pur indiscutibile come l’autore di capolavori come M-Il mostro di Dusseldorf o La strada scarlatta (per citarne giusto un paio), doveva piegarsi alle regole del mercato hollywoodiano. Il soggetto propostogli è un crime movie con venature noir: il film si presenta come un giallo non di tipo investigativo, visto che assistiamo al crimine e il colpevole si sa per certo chi sia. La storia prevede il delitto, le indagini, il processo e l’epilogo finale e Lang sviluppa con sapienza il lungometraggio ma all’apparenza in modo nemmeno troppo personale. O, al contrario, forse sì? E’ chiaro, questo va detto, che il regista viennese non profonde in Bassa marea la sua poetica in modo poi così convinto, intenso, intuendo presto che sarebbe stato uno sforzo inutile. Nel 1950, lavorare negli Stati Uniti, con il codice Hays più che mai in vigore, per Lang diveniva sempre più frustrante. La cameriera uccisa che dà il via alla vicenda di Bassa marea doveva, secondo il regista, essere di colore, ma i censori chiusero ogni possibile concessione in tal senso. 

Inoltre, ci furono ingerenze persino sulla natura delle esclamazioni nei dialoghi il che, per un autore attento alla verosimiglianza in modo quasi maniacale, era davvero un limite quasi insormontabile. Questi elementi andarono a rafforzare quella che era la natura del testo che, come detto, era stato offerto a Lang che, un po’ come tutti, aveva necessità di lavorare e per questo aveva accettato. Tuttavia la sobria classicità dello stile dell’autore permette a Bassa marea di essere formalmente un signor film, ben diretto, avvincente e appassionante. La vicenda è gestita in modo sapiente con gli snodi cardine della trama (il sacco per la legna marchiato) che funzionano con perfetto sincronismo. La tensione incombe costantemente sulla storia che, di fatto, non ha praticamente mai respiro. 

I rapporti tra i fratelli protagonisti e tra questi due e la moglie di quello sposato, sono ben delineati, con accuratezza; nei personaggi di contorno, primariamente indispensabili al funzionamento della trama, si intravvede il solito divertimento dell’autore nel dipingere l’umanità varia con le sue virtù ma anche le sue debolezze. Insomma, il film è un bel poliziesco, fatto per bene, niente da dire. Ma è nel suo animo, in quelle che potremmo quasi definire le sue premesse, che Bassa marea sbaraglia le tutto sommato modeste carte sul tavolo e vince la sua partita a mani basse. A conti fatti, Bassa marea è un altro capolavoro del maestro viennese. Vediamo perché: innanzitutto, la composizione delle scene inziali è straordinaria, anche nell’evidente povertà tecnica a disposizione per le riprese. I titoli di testa, eleganti e ricercati, scorrono su un grande fiume, con un abbinamento che ricorda subito il sudest degli Stati Uniti. 

La musica, di George Antheil, non è per niente rassicurante; la macchina da presa sembra cercare un pertugio tra la vegetazione sulle rive o forse anticipa una ricerca che avverrà in un secondo momento. O tutte e due; perché poi lo spazio aperto si trova, sebbene sembri talmente claustrofobico da mostrarsi come palese ricostruzione cinematografica. Un po’ come il cortile de La finestra sul cortile di hitchcokiana memoria; solo più in piccolo, qui ci sono solo due personaggi che sono diversamente indaffarati in due punti lontani tra loro sullo schermo. Mrs. Ambrose (Ann Schoemaker) sta lavorando al giardino quando vede passare la carogna di una vacca sul fiume; accanto a lei c’è uno spaventapasseri, altro elemento non certo idilliaco, quando la donna scandisce le prime parole del film: “questo fiume lo odio”. La marea, non proprio gentilmente, infatti, porta avanti e indietro ogni genere di immondizia che si trova a galleggiare sulle acque. Ma la colpa del fiume, come le fa notare l’altro personaggio che apre il film, Stefano Byrne (Louis Hayward), è però solo quella di riportare in superficie i rifiuti che qualcuno scaraventa in acqua. Stefano è uno scrittore e in quella, sopraggiunge la cameriera, Emily (una deliziosa Dorothy Patrick) che gli reca uno dei suoi manoscritti che, come fa notare l’uomo, fanno avanti indietro con la posta proprio come i rifiuti sul fiume. 

Un parallelo per sottolineare le non eccessive qualità artistiche di Stefano ma anche per chiarire la valenza simbolica di questi passaggi e, quindi, dare segnali che attivino l’immaginazione allo spettatore. Il cinema di Lang, infatti, fonda la sua forza sull’uso sontuoso dell’immaginazione del pubblico e il regista è un assoluto maestro in questo. Tanto che, fin qui, nel lungometraggio in questione, non è ancora successo niente eppure siamo già in stato di allerta. Nel frattempo, Emily, dopo qualche chiacchera con Stefano, sta facendo rientro in casa per farsi un bagno, sotto lo sguardo compiaciuto dell’uomo. La cosa non sfugge alla signora Ambrose che, con malcelata malizia, chiede al vicino cosa ne pensi la moglie della nuova cameriera. E’ giusto una battuta ma è ancora una volta un sublime passaggio a più livelli; oltre a quello esplicito, c’è il riferimento a cosa ne pensi piuttosto l’uomo, visibilmente attratto dalla giovane, e intanto c’è un monito nel ricordargli che è sposato. Stefano apre il plico e legge la lettera di accompagnamento, un rifiuto da parte dell’editore interpellato, è evidente, e l’uomo ha un moto di rabbia appallottolando il foglio e scagliandolo via. Nel farlo scorge un grosso insetto sulle carte sul tavolo ma, un po’ a sorpresa considerando il momento non certo sereno, lo scrittore si premura di portare il piccolo animale sul prato, al sicuro. Nel 1950 una simile attenzione per una minuscola vita rivela davvero una notevole nobiltà d’animo senonché, nel deporre l’insetto, Stefano nota la luce al primo piano di casa accendersi: Emily si sta preparando per il bagno. 

Ecco, pur se Bassa marea sembra in prima istanza non essere un capolavoro, Lang dimostra in modo implacabile dove si annida il male nell’animo dell’uomo. Fin qui Stefano si è dimostrato un tipo a posto, dotato di senso civico (il riferimento ai rifiuti nel fiume), rispetto per la natura (l’insetto salvato) e per i suoi simili anche se subalterni (la concessione ad Emily di usare il bagno padronale). Ma basta la tentazione legata all’avvenenza della giovane per far vacillare tutti i suoi buoni presupposti. Qui comincia una discesa negli inferi, per Stefano, che passo passo scenderà una spirale che, ora della fine, lo trasformerà in un essere abietto e profondamente criminale. Questo è l’aspetto più interessante del film grazie alla poetica di un regista che, su questo piano, non teme confronti. Procediamo: quando la personalità dell’uomo si evolverà negativamente, farà sorgere qualche dubbio su quanto considerato fin lì. 

Fino a che punto Stefano era stato sincero nel suo comportarsi bene? Sul dialogo con Mrs. Ambrose inutile interrogarsi; a parole siamo tutti santi. Ma quando aveva concesso il permesso ad Emily di usare il bagno al primo piano, aveva già qualcosa di poco pulito in mente? Quando rientra in casa, dopo aver visto la luce di sopra accendersi, e temporeggia davanti allo specchio (che lo rende duplice come il suo animo, anche visivamente), sta evidentemente creandosi un’occasione. Il fatto che spenga la candela per nascondersi lo prova. Eppure, tornando ai presupposti iniziali, di fronte ad un insetto che invadeva il suo spazio, i suoi scritti, non aveva reagito violentemente, nonostante fosse già indispettito dall’ennesimo rifiuto dei suoi lavori. Insomma, una definizione caratteriale articolata e, tutto sommato, ancora salvabile, se non moralmente almeno in un tribunale. 

Del resto i buoni rapporti che, in avvio, rivela col fratello John (Lee Bowmann) e la moglie Margherita (una dolce Jane Wyatt) sembrano certificarlo. Poi, con lo scorrere del racconto, salteranno fuori anche le magagne pregresse e sopportate dai due ma, tutto sommato, fino al momento cruciale della vicenda Stefano è ancora una persona accettabile. Un individuo probabilmente già borderline ma che, insuccesso professionale a parte, non sembra avere tutti questi problemi e si potrebbe tranquillamente definire una persona normale, proprio come uno di noi. Certo, in seguito la moglie gli rinfaccerà di qualche sua scappatella, non si capisce bene dove collocabile temporalmente: già prima del delitto o solo successiva? In ogni caso, tradimenti occasionali che lei sopportava senza darsi grossi problemi, almeno stando alle sue parole; e anche il fratello, che si renderà complice anche in quest’occasione per cavarlo dai guai, se dirà che non era la prima volta, inizialmente si lascia tutto sommato convincere senza troppa fatica. Insomma, non irreprensibile, questo Stefano, ma comunque in grado di farsi aiutare nelle sue umane difficoltà. La svolta decisiva si fonda magistralmente su questa situazione: nasce come una semplice molestia di Stefano nei confronti di Emily, qualcosa che, a conti fatti, dobbiamo ammetterlo, perfino oggi, settant’anni dopo, è purtroppo troppo comune. 


E’ un reato, sia chiaro, ma di livello inferiore all’omicidio; e poi non è necessariamente detto che si concretizzi. Cioè, un uomo può provarci con una donna e questa potrebbe anche dirsi disponibile volontariamente; in questo caso non è nemmeno reato. Quindi Stefano almeno fino ai primissimi approcci, non fa niente di particolarmente grave; certo, sta già tradendo la moglie ma la successiva ammissione di Margherita ci conferma che si tratta di una cosa accettata. Discutibile ed esecrabile, ovviamente, ma di fatto nel contesto accettata come tollerabile. Tuttavia il comportamento dell’uomo negli attimi precedenti al fatale incontro con la cameriera sulla scala di casa, ci dice che Stefano non è certo innocente. Eppure la semplice impostazione che Lang dà alla situazione permette di fare già una serie di distinguo: Stefano sembra scorgere, sin dalla lamentela di Emily per il fatto che l’idraulico non abbia riparato il bagno di servizio, una possibilità. Successivamente tutto il suo comportamento segue questa pista, come un cane segugio che abbia fiutato la selvaggina. 

Ma che l’evento si concretizzi (e deflagri, sfortunatamente, in qualcosa di più tragico) presuppone una serie di eventualità. E se il bagno di servizio non si fosse mai guastato? E se la moglie non fosse uscita proprio quel giorno? E se la ragazza si fosse arrangiata in altro modo? E se fosse stato lui a non essere libero in quella circostanza? Quanti individui, né peggiori né migliori di Stefano, ci sono al mondo che hanno semplicemente meno sfortuna? Domande moralmente oziose, essendo evidente la responsabilità dell’uomo di fronte al fatto compiuto; ma non così banali se cerchiamo di capire chi sia, quest’uomo. Ovvero quale rapporto abbia con la società. E’ un eccezione o è un uomo comune?
Come sono lontani i tempi del Dottor Mabuse, il supercriminale protagonista di molti film tedeschi di Lang. Il Mabuse era un cattivo vero, per vocazione autentica. In America, il paese in cui perfino l’acqua, simbolo di vita, ha assunto sinistri significati (il fiume odiato, il bagno fatale, il vapore sullo specchio che oscura il volto di Emily, il corpo che ritorna a galla) Lang, si rende presto conto di come è composta la moderna società. Il modello americano ci racconta che uno su un milione riesce ad avere successo e a divenire l’eroe, il campione. Ma il Sogno Americano ha il suo prezzo da pagare: su quel milione, un altro si scoprirà criminale.   




 Jane Wyatt





Dorothy Patrick 



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