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giovedì 11 giugno 2020

K-19

582_K-19 (K-19: The Widowmaker); Stati Uniti, Regno Unito, Germania, 2002. Regia di Kathryn Bigelow.

K-19 è un film su un sottomarino nucleare sovietico. Un lungometraggio bellico, quindi; si e no, perché il racconto è ambientato nel 1961, in piena Guerra Fredda. Si sa che la Guerra Fredda era quella contrapposizione tra i due blocchi, la Nato e il Patto di Varsavia, che lasciava intendere l’imminenza di uno scontro bellico concreto e che proprio questo timore mantenne solo potenziale questa eventualità. In sostanza la Guerra Fredda fu una guerra non combattuta sul fronte di battaglia e in questo senso va vista l’ambiguità che deriva dall’ambientazione temporale del film. In effetti la Bigelow è brava, come suo consueto, a tenere il racconto teso e concitato dalla serie ininterrotta di esercitazioni a bordo del K-19: come detto nella Guerra Fredda non si combatteva ma ci si preparava a farlo. Esercitazioni, prove, simulazioni; almeno fino all’evento drammatico culminante, anche questo di natura non-bellica: l’incidente al sistema di raffreddamento del reattore nucleare. In realtà un contatto con il nemico, all’interno del racconto, c’è: l’offerta di aiuto via radio da parte di un incrociatore americano. Certo, gli americani avranno fiutato la possibilità di mettere le mani su una succulente preda bellica russa, il formidabile K-19; ma a conti fatto l’unico ingaggio con il nemico per l’equipaggio russo rimane un’offerta di soccorso.
Ma allora di che parla, questo K-19? Di gravissimi e mortali incidenti radioattivi quando non di esercitazioni (nella quale si feriscono comunque un paio di uomini)? Certo, il racconto è quello. Ma non possiamo trascurare che siamo a bordo di un sottomarino, quindi nel posto più claustrofobico del cinema (anche rispetto alle astronavi: lì, almeno, fuori, c’è lo spazio). 

Quindi, riassumendo: in un ambiente chiuso su sé stesso i pericoli derivano dalle proprie azioni (le esercitazioni) e dall’interno dell’ambiente stesso. Anzi dal cuore pulsante di quell’ambiente, il reattore nucleare. Vale a dire che, con i nemici che dall’esterno offrono soccorso, i marinai del K-19 devono guardarsi dalla loro scarsa preparazione e dalle insidie tecniche dei propri strumenti. Detta così sembra un film di dietrologica propaganda ai danni dell’Unione Sovietica. Ma l’impressione guardando l’opera non è affatto quella, perché la regista è bravissima a cogliere l’umanità dell’equipaggio e a creare empatia con i protagonisti della vicenda. 

E proprio la scelta degli attori per interpretare questi personaggi è illuminante: Liam Neeson è il Capitano Mikhail Polenin e Harrison Ford il Comandante Alexei Vostrikov. Cioè due star di Hollywood, un cavaliere Jedi e Han Solo, tanto per citare una traccia comune a tutte e due. Insomma, è dura credere che si possa coinvolgerli in prima persona per una puerile e tardiva azione denigratoria di contropropaganda. Piuttosto, guardando il manifesto di K-19 si nota una certa analogia con quello di Air Force One, opera del 1997 di Wolfgang Petersen: un intenso primo piano di Harrison Ford occupa tutto lo spazio a disposizione. Se invertissimo didascalie e titoli i manifesti sarebbero quasi indistinguibili. 


Insomma, la questione, sembra dirci Kathryn Bigelow, non è tra buoni e cattivi, ma tra noi e noi stessi, perché russi o americani non cambia la sostanza e i pericoli maggiori sono quelli che ci creiamo con le nostre stesse mani. Per una efficiente donna d’azione come l’autrice americana, la mancanza di meritocrazia, le raccomandazioni, l’incompetenza, sono all’origine dei nostri guai collettivi. Nella messa in scena di questa sua riflessione sull’autodistruttiva natura umana, la regista sfodera un film emozionante, avvincente, drammatico, dove vengono esaltati quei valori di solidarietà che quella stessa inclinazione autolesionista mai avrebbe lasciato intendere fossero possibili. 

Infatti saranno proprio i due raccomandati, due personaggi che sono frutto e simbolo dell’inefficienza, ad ottenere il maggiore riscatto: il comandante Vostrikov (quello interpretato da Ford), che ha fatto carriera perché ha sposato la figlia di un pezzo grosso, e l’ufficiale addetto ai reattori, nominato per un simile incarico pur se privo di esperienza. Il senso del dovere, il rispetto per i propri compagni (termine qui enfatizzato dall’ambientazione russa) sono però il vero tema del film: il sottomarino funge così da concentratore, obbliga e forza i membri del suo equipaggio, (anche quelli eticamente meno nobili, i raccomandati) a fare fronte comune. Il comandante Vostrikov che non ordina, ma chiede (su suggerimento di Polemin) un sacrificio al suo equipaggio è il segnale del cambiamento di rotta decisivo. Lo spirito di corpo, la solidarietà uno per l’altro (contrapposta in un simile contesto all’individualismo di stampo americano) è la vera forza a cui attingere. Quelle dell’amichevole partita sul ghiaccio, e soprattutto la foto ricordo come una vera squadra di calcio, non a caso uno sport collettivo, rimangono come immagini simbolo di questo ottimo K-19.



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