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giovedì 23 ottobre 2025

LA SFIDA DEI FUORILEGGE

1749_LA SFIDA DEI FUORILEGGE (Hell Canyon Outlaws), Stati Uniti 1957. Regia di Paul Landres

In apparenza, La sfida dei fuorilegge è un filmetto western piuttosto scontato per quanto realizzato con onesto mestiere. E potremmo anche chiudere qui l’analisi, dal momento che Paul Landres non è un regista che rimarrà nella storia del cinema come del resto il suo film, nonostante vi abbiano collaborato tecnici esperti come Floyd Crosby, sua la fotografia in bianco e nero, e il montatore Elmo Williams in sala taglio. E, in effetti, il risultato è che La sfida dei fuorilegge è un film che si lascia guardare e che, ora della fine, rivela almeno un aspetto che merita attenzione. Prima di questo elemento, però, c’è da riconoscere che la storia è piuttosto risaputa: a Golden Ridge, lo sceriffo Caleb Wells (Dale Robertson), grazie alla sua colt, ha fatto pulizia di tutti i fuorilegge che infestavano il paese. Ma ora, il consiglio cittadino, vorrebbe disfarsi di Caleb per avere maggior libertà di manovre, e la scusa trovata è quello che lo sceriffo ha sì pacificato il paese, ma lo ha fatto grazie all’uso della pistola, con la violenza. Lo sceriffo viene quindi sollevato dal suo incarico: mai scelta fu più avventata. La sfida dei fuorilegge è un B-Movie dal budget, anche di tempo, risicato e Landers e i suoi collaboratori non hanno pellicola né giorni di riprese da sprecare: ecco quindi che Happy Waters (Brian Keith) e i suoi sgherri piombano subito in città con il chiaro intento di piantar grane. I maggiorenti di Gold Ridge, tutti omuncoli o mezze tacche, non fanno neanche tempo a pentirsi di aver liquidato Wells, che già si trovano nei pasticci. A cominciare dal volenteroso Bert (Alexander Lockwood) che si è preso la briga di assumere la carica di nuovo sceriffo: purtroppo i suoi raffinati metodi diplomatici non hanno alcuna valenza con gentaglia come Waters e i suoi. La violenza, in America, abbiamo imparato essere necessaria per sconfiggere la violenza: paradossale, certo, ma tant’è. Come visto il soggetto non è particolarmente originale ma è tuttavia interessante come Landers utilizzi il cast per stilizzare il suo racconto, dandogli maggior forza espressiva. 

Dale Robertson, il protagonista, era un attore professionale ma non troppo espressivo. La sua figura impettita è congeniale a quella del cavaliere senza macchia e senza paura, giusto e retto esattamente come la postura che mantiene per tutto il film. A suo fianco, da un lato il più pacioso vicesceriffo Bear (Charles Fredericks) e dall’altro la bella e platinata Maria (l’italiana Rossana Rory ai tempi del suo tentativo di aver successo ad Hollywood). In quest’ottica, l’aspetto più interessante del film è la maggior attenzione che viene data per la scelta degli interpreti per la banda di fuorilegge a cui si riferisce il titolo. Sono in quattro, due vestono interamente di nero, uno di nero ha solo il cappello mentre il quarto veste molto scuro e ha il cappello chiaro: più o meno viene rispettato il cliché vestiario dei cattivi. Ma ad impressionare è la loro imponenza: Stan (Buddy Baer), Nels (Mike Lane) e Walt (Don Megowan) superano tutti il metro e novanta che, in un film del 1957, li rende davvero giganteschi. Il capoccia, Happy Waters, al loro confronto, sembra un ragazzino: e dire che Brian Keith, che lo interpreta, era comunque alto un metro e ottantacinque. Queste singolari scelte evidenziano alcuni aspetti poi confermati dalla scarna trama: i cattivi sono semplicemente dei bulli, prepotenti senza arte né parte che approfittano del loro essere grandi e forti per fare i propri porci comodi. Il più interessante è, naturalmente, il personaggio di Keith: come detto, al cospetto dei suoi scagnozzi sembra un ragazzino, un banale teppista, e anche questo è un elemento che caratterizza in sottrazione la figura del cattivo. Non ci sono, in sostanza, ragioni psicologiche, sociologiche o altre raffinatezze per motivare la violenza: bastano superficialità, noncuranza e indolenza. Il capobanda, peraltro, dimostra più volte di conoscere il valore morale delle sue azioni: vuole pagare il conto all’emporio, cerca di non uccidere il giovane e sciocco Smiley (Dick Kallman), propone una soluzione leale per il duello finale con Caleb. Il villain Happy Waters, interpretato in modo efficace da Brian Keith è, in sostanza, un preciso ritratto del personaggio cattivo, senza retoriche sociologiche. Stilizzato, certo, ma, proprio per la bravura dell’attore e l’attenzione degli autori, assai funzionale a descrivere come essere malvagi non è tanto un’indole ma una scelta, deliberata e libera.   



Rossana Rory 



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