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giovedì 19 ottobre 2017

L'UOMO DI LARAMIE

5_L'UOMO DI LARAMIE (The Man from Laramie).  Stati Uniti, 1955;  Regia di Anthony Mann

Quinto capitolo del binomio tra il regista Anthony Mann e l’attore James Stewart, questo L’uomo di Laramie è un capolavoro del genere western e del cinema tout-cort. Il titolo è, innanzitutto, curioso: viene esplicitata la provenienza geografica del protagonista, quando questa non ha apparentemente alcuna importanza per la storia raccontata; cosa che viene pure ribadita dallo stesso Will Lockhart (il personaggio interpretato dal grandissimo Jimmy Stewart), in uno dei dialoghi del film. La cosa che conta, in questa vicenda di profonde ispirazioni shakespeariane, è che Lockhart viene da fuori, è un estraneo che arriva nella cittadina di frontiera di Coronado. In realtà la trama è complessa ma calibrata in modo magistrale, ed è composta da due piani che si incastrano alla perfezione. Lockhart è alla ricerca del responsabile della morte del fratello, un militare ucciso dagli Apache: la caccia a chi ha venduto le armi a ripetizione agli indiani lo porta appunto a Coronado. Nella cittadina il nostro trova un ambiente ostile, chiuso, praticamente medioevale, e la sua venuta sarà il detonatore per la violenza ivi coltivata ma finora sempre repressa dal despota locale, Alec Waggoman. Naturalmente, l’incastro tra le due vicende, la ricerca dei trafficanti di armi e la comunità sottoposta alle angherie del ricco proprietario, è che la prima troverà soluzione giusto in seno alla seconda, ma la situazione nella cittadina si presenta già subito pronta ad esplodere, tanto che basta un equivoco unito al legittimo orgoglio di Lockhart per far scoppiare all’istante i primi pesanti scontri. 

In effetti, le trame potrebbero giustificare due film indipendenti e differenti: uno più strettamente avventuroso, l’altro con valenze e rimandi alle grandi tragedie. La parte più simbolica è, naturalmente, la seconda: il padre-padrone che sente la vita sfuggirgli (la cecità incombente), il timore di vedere sperperato il suo impero, coi dubbi legati alla successione tra legami di merito e di affetto verso il braccio destro Vic (Arthur Kennedy) e quelli meramente di sangue per il figlio Dave, un viziato incapace oltre che psicopatico criminale. 
C’è naturalmente anche la presenza femminile, con l’amore della vita dell’anziano allevatore da sempre negato (verso Kate, una proprietaria terriera vicina) per una sbandata di gioventù; più appetibile, anche per lo spettatore, è la nipote ingenua e innocente, Barbara, che vorrebbe solamente fuggire da quel covo di violenza e soprusi. E c’è infine il sogno premonitore e minaccioso, che agita le notti di Mister Waggoman: uno straniero arriverà e gli ucciderà il figlio. In questo senso, il titolo L’uomo di Laramie suona in modo assai sinistro, per il vecchio: che in effetti coglie la somiglianza tra Lockhart e lo straniero del suo sogno e subito se ne preoccupa. 

Mann, però, vuole in parte sgombrare il campo da questi rimandi simbolici ma anche un po’ astratti: sono importanti, sia chiaro, ma la vera chiave di volta della storia è la ricerca del traffico d’armi, un pretesto concreto, venale, legato unicamente all’avidità e all’incoscienza. Questa è la vera forza del film, perché alla grandiosità dell’opera tragica, si innesta, anzi, ne è la vera forza propulsiva, una matrice materialista legata alle miserie umane (la meschinità di Dave, l’ambiguità di Vic). Il tutto in una messa in scena a dir poco superba, com’è ormai abituale per il formidabile regista americano. Ad esempio nella scena dell’arrivo dei cavalieri alle saline, pregna di una minacciosità splendidamente resa dalle immagini, che sfocia nella brutalità dello scontro tra Lockhart e gli uomini di Dave. Potentissima è la successiva scazzottata tra Lockhart e Dave prima e Vic poi, nella piazza di Coronado, letteralmente tra le gambe delle vacche: di una violenza bestiale, appunto. E che dire dell’infame e vigliacca pistolettata di Dave alla mano di Lockhart, che è la scena forse più drammatica? Tutte scene di grandissimo impatto emotivo e violento, che sono bagaglio caratteristico del regista americano.
Che in quel bagaglio ha anche splendide sequenze di grandissima intimità, con magistrali carrelli e movimenti di macchina, a rendere silenziosamente espliciti i sentimenti dei protagonisti: come il ritrovamento dei resti dei soldati uccisi o quando Mister Waggoman vede il cadavere di suo figlio. Il film ha una grande forza catartica e, alla fine, una volta che il male si è manifestato in tutta la sua violenza, c’è la possibilità di una sorta di happy ending: il vecchio ormai cieco e, simbolicamente, risorto dalla caduta in montagna, si avvicina a Kate, che lo aspetta da sempre; per Lockhart c’è naturalmente Barbara, ma non a Coronado, e nemmeno New York, dove la ragazza voleva emigrare.
No, Lockhart, l’aspetta a Laramie.




Cathy O'Donnell



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