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venerdì 11 maggio 2018

FURIA INDIANA

145_FURIA INDIANA (Chief Crazy Horse). Stati Uniti, 1955;  Regia di George Sherman.

E’ consuetudine ancora troppo diffusa considerare la svolta revisionista del genere western degli anni settanta come la presa di coscienza del cinema americano circa la vera natura della conquista del west, che non fu propriamente l’epica storia della civilizzazione di un paese selvaggio, ma piuttosto uno scontro tra due civiltà che vide la più progredita ed evoluta, parlando soprattutto dal punto di vista tecnologico, prevalere. Questa credenza, pur essendo radicata, è almeno parzialmente infondata, in quanto il cinema western ha in moltissimi casi mostrato le ragioni degli indigeni, i pellerossa, e gli esempi che si possono fare risalgono fin già dagli anni ‘50 (L’amante indiana, di Delmer Daves, 1950, tanto per fare un titolo), che furono il periodo di massimo splendore del genere nella sua forma considerata classica.  Proprio a metà di quegli anni si colloca Furia indiana dello specialista del genere western George Sherman; è un’opera certamente poco conosciuta, ma comunque importante, perché è un racconto totalmente visto nell’ottica dei pellerossa, con il protagonista Cavallo Pazzo (Cavallo Folle nella traduzione dell’epoca) interpretato da una star di buona grandezza come Victor Mature. Il film è girato in modo sicuro, che Sherman è un valido regista e conosce molto bene come si conduce un western; e l’eccessivo lirismo continuamente ricercato non è fine a se stesso, ma è un tentativo di tradurre, coi metodi del cinema hollywoodiano, quella spiritualità intrinseca alla cultura dei nativi americani e del mitico Cavallo Pazzo, che fu un uomo singolare anche da questo punto di vista. 

I titoli di testa scorrono sulle immagini del cielo, con grandi nuvole estive ad esaltare la profondità della volta celeste e a lasciare presagire una vita fatta anche di fenomeni violenti; sullo stesso cielo il grande leader indiano vedrà proiettata la sua visione (una sorta di messaggio divino), e lo stesso cielo sarà inquadrato durante la battaglia del Little Bighorn, lasciando in questo modo il massacro di Custer e dei suoi uomini fuori campo. Se questa scelta può essere stata fatta per non urtare la sensibilità degli americani (quella di Custer è comunque una delle sconfitte più brucianti subite dall’esercito a stelle e strisce) non si può ignorare come un personaggio del calibro del biondo colonnello delle giacche azzurre sia inquadrato solo di sfuggita nel film di Sherman, come un qualunque nemico senza particolare importanza. 
La trama, pur se fortemente romanzata, corrisponde, grosso modo e nei suoi punti salienti, alla vita di Cavallo Pazzo; è però un motivo di prestigio e un segno di rispetto, che ci siano alcune differenze dalla nuda biografia storica. Se l’opera fosse infatti un fedele documentario, starebbe a significare semplicemente una presa di coscienza dal punto di vista storico, da parte di Hollywood; invece Furia Indiana è a pieno titolo un’opera di finzione ispirata ad un personaggio storico e agli eventi che lo videro protagonista. Nella sua messa in scena Sherman si prende, cioè, non poche libertà, com’è giusto che sia, perché Cavallo Pazzo è, prima che un personaggio storico, un eroe, una leggenda, ed è sacrosanto che venga raccontato come tale, romanzandone le gesta.

Notevole, anche da questo punto di vista, la presenza di Raggio di Sole, la moglie di Cavallo Pazzo, interpretata dalla bellissima e sfortunata Suzan Ball che morì di cancro a soli 21 anni in quello stesso 1955.
Molto bello l’incipit della scena finale che la vede punto focale di svolta della sequenza: Cavallo Pazzo ha ormai deposto la scure di guerra e si trova presso il forte dei soldati; di ritorno dal quartier generale si incontra con Raggio di Sole, che lo abbraccia e gira la testa per stringersi più vicino al petto del compagno. Con questo movimento la ragazza si volta verso l’obiettivo e la sua espressione muta dalla felicità del momento alla preoccupazione.

Uno stacco in controcampo della mdp ci permette di vedere il gruppo di scout (indiani impiegati nell’esercito come guide) che vengono a prelevare Cavallo Pazzo; in realtà si tratterebbe solo di una nuova convocazione nel quartier generale, ma l’antico rivale in amore del condottiero, ora arruolato, ne approfitta per vendicarsi e lo uccide con un colpo di baionetta alle spalle.
Un finale certamente triste, in linea con la vera storia del valoroso personaggio storico, che venne realmente ucciso a tradimento pare con la complicità di un rinnegato; e soprattutto, ahinoi, un finale simbolicamente adatto a rappresentare il destino di un intero popolo.





Suzan Ball





mercoledì 9 maggio 2018

IL PONTE DELLE SPIE

144_IL PONTE DELLE SPIE (Bridge of spies). Stati Uniti, 2015;  Regia di Steven Spielberg

Steven Spielberg è forse il regista che meglio è in grado di capire e tramutare in cinema il sentimento comune; ovvero quello su cui tutti quanti, consapevolmente o no, stanno riflettendo in quel momento storico. Dalla paura degli squali, agli extraterrestri, al ritorno dell’avventura classica o dei dinosauri, fino ai conti da risolvere con la guerra e le sue decisioni o ai drammi come l’Olocausto.
Dove c’è un conto in sospeso, prima o poi arriva l’Autore che ne coglie le potenzialità artistiche e ci invita a rifletterci sopra in modo più costruttivo: Spielberg è quell’Autore che arriva con preciso tempismo, esattamente quando il grado e la capacità di comprensione del pubblico sono maturi al punto giusto.
Su cosa verte, questo Il ponte delle spie? E’ un film sulle spie, sullo spionaggio, quindi il tema non può che essere l’osservare, il guardare. E cosa si fa, quando si guarda? Si vedono immagini e, in un certo senso, queste immagini si prendono: infatti la spia russa dipinge e quella americana fa foto, entrambe producono immagini. Quindi il lavoro della spia è simile a quello del regista che con le immagini produce il suo lavoro, il cinema. Se questo regista è Spielberg, possiamo stare sicuri che farà un buon lavoro ma, soprattutto, possiamo stare anche sicuri che il tema sarà attuale, contingente. E infatti c’è sicuramente bisogno, in questo momento storico, di capire chi veramente siamo, quali ragioni abbiamo, e dove abbiamo eventualmente sbagliato: di questi tempi si fa’ più che mai fatica a capire qualcosa nella confusione tra le bufale e l’informazione di regime, con i terroristi che non vengono da un altrove in qualche modo alieno ma sono cresciuti nei nostri stessi quartieri. 

Occorre davvero riflettere da capo, tornare al principio, per risolvere la prima domanda, quella da cui dipende tutto il resto: chi siamo?
Per la nostra attuale società, farlo significa tornare al dopoguerra, l’ultimo vero re-boot; per il cinema, significa riprendere il Cinema del Sogno Americano, quello di Frank Capra, per capirci. Non a caso tra gli sceneggiatori di questo Il ponte delle Spie ci sono i fratelli Coen, abilissimi, oltre che nel produrre intrecci e sceneggiature impeccabili, a ricreare il mondo del grande regista italoamericano.
Storicamente, il dopoguerra si trasformerà immediatamente in Guerra Fredda, e qui, in questo momento storico, è ambientato il film di Spielberg: è quindi questa la radice politica della nostra società, la contrapposizione tra i due blocchi, filo-atlantico e filo-sovietico. 

Manca, perciò, una età dell’oro, un paradiso perduto: questo periodo aureo è solo negli ideali, ma non c’è a livello pratico. Lo capiamo nella differenza tra l’approccio al caso tra l’avvocato  Donovan, un’eccellente Tom Hanks,  e l’intero paese degli Stati Uniti: persino il giudice della corte, pretende dall’avvocato una difesa per onor di firma e per niente scrupolosa. Rudolf Abel (un insuperabile Mark Rylance), la spia russa,  è un nemico, e con il nemico, si sa, il regolamento non si usa. Ed è proprio questo il punto cruciale della storia: perché proprio quel regolamento, che è nientemeno la Costituzione Americana, dovrebbe sancire la differenza tra i buoni e i cattivi

Ma se non viene applicata non sancisce proprio niente: la differenza tra buoni e cattivi è perciò solo nella forma (il processo, in America, almeno in apparenza, è celebrato con tutti i crismi) ma non nella sostanza. Gli sguardi ostili sulla metropolitana, dove l’avvocato Donovan è riconosciuto e visto come un traditore, mostrano l’incapacità di comprendere non solo le ragioni dell’altro, ma anche di capire noi stessi. Tom Hanks, il prototipo dell’americano ideale (Mr. Donovan goes to Berlin, potremmo dire) viene guardato con diffidenza quando non con odio (gli spari nel salotto di casa) dalla stessa società che lo ha prodotto e, almeno sulla (magna) carta o sullo schermo, idealizzato. C'è quindi una sorta di smarrimento della propria identità, in un popolo, se non è più in grado di riconoscere quegli eroi che ha scelto di elevare a propri illustri rappresentanti. Ma allora è solo nello sguardo dell’altro, ad esempio il dipinto in regalo, che possiamo davvero trovare noi stessi. Il nostro semplice essere non basta più per capire chi siamo; e neppure ci basta riflettere. Occorre un altro punto di vista, quello dell’altro. La scena iniziale, è eloquente: Abel, la spia russa, il cui scopo in quanto spia è guardare e capire, si sta’ facendo un autoritratto. Nella stessa sequenza abbiamo il suo volto, il volto riflesso, e quello dipinto. Tre punti di vista diversi, ma comunque riconducibili alla stessa persona, eppure non bastano a capire che tipo di uomo sia Abel. E’ una spia che fa’ quindi solo il suo dovere, oppure è un personaggio abietto? Sarà Donovan a farci capire che è un uomo degno di rispetto, al di là della doverosa e coscienziosa difesa nel processo.

Così come sarà un ritratto in dono da una spia russa a far capire all’avvocato Donovan di essere davvero un buon americano, ovvero un uomo comune (non il principe o comunque l’uomo dal sangue blu della tradizione europea) che in condizioni non comuni, si erge allo stato di Eroe.
E guardandone una foto sul giornale o un’immagine in tv, anche sulla metropolitana e in famiglia, stavolta se ne accorgono.
E’ un film ottimista, quindi, questo Il ponte delle spie, ed essendo uno Spielberg, c’era da scommetterci. Ma l’ottimismo del geniale regista americano è tutt’altro che di comodo. E’ un ottimismo salubre, salutare, perché ci mostra la strada, una possibile soluzione, a questi tempi dove in molti auspicano di chiudere le frontiere, di issare muri (e, emblematicamente, il titolo del film, al contrario, ci parla di un ponte).
Fidiamoci dell’altro; è l’unico che può dirci chi siamo.



lunedì 7 maggio 2018

IL MESTIERE DELLE ARMI

143_IL MESTIERE DELLE ARMI  Italia, 2001;  Regia di Ermanno Olmi.

Le Guerre d’Italia della prima metà del XVI secolo sono un periodo storico non solo cruciale per i secoli a venire, ma anche interessante e ricchissimo di spunti narrativi. Ci furono personaggi leggendari tra cui il Giovanni delle Bande Nere protagonista del film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Eppure il nostro cinema non ha mai sfruttato realmente a fondo questo periodo, diversamente, per esempio, da quanto fatto ad Hollywood con la conquista del west; ci sarà pure un motivo per questo, ma per restare attinenti all’opera in questione, basti sapere che un personaggio come Giovanni dalle Bande Nere sarebbe l’ideale modello per decine di film di avventura, ben più di tanti eroi western. E, in ogni caso, anche ad Olmi non interessa celebrare l’eroe, il mito del valoroso cavaliere; e nemmeno il periodo storico che ha dato il via al Rinascimento. Il film si apre con un funerale, quello di Giovanni de’ Medici detto delle Bande Nere, e si chiude con lo stesso evento, mettendo così come corpo portante della struttura circolare dell’opera, gli ultimi giorni di vita del valoroso condottiero. Se narrativamente a morire è l’eroe di tante battaglie, il racconto di Olmi sembra più che altro ufficiare la morte del mestiere del cavaliere; un ordine, come fa notare lo stesso Giovanni in punto di morte, che è paragonabile per dedizione, lealtà e senso dell’onore, a quello religioso. Nel medioevo i cavalieri, gli uomini d’arme, avevano un codice d’onore, che l’avvento dell’era moderna disconosce: in uno degli episodi di battaglia, i lanzichenecchi astutamente si ritirano evitando lo scontro, e sebbene sia per calcolo strategico e non vigliaccheria, non è certo visto dagli italiani come un qualcosa di cui farsi vanto. 

Già quel confronto metteva in risalto la più moderna concezione di strategia militare degli alemanni rispetto a quella più tradizionale italiana. Ma è soprattutto l’introduzione delle armi da fuoco pesanti a spostare gli equilibri, a rendere inutili il valore e il coraggio tanto quanto le corazze e gli scudi. L’età moderna metterà in pensione il mestiere delle armi come era stato inteso nei secoli precedenti, e le innovazioni tecniche prenderanno una rilevanza via via sempre maggiore. La morte di Giovanni delle Bande Nere per mezzo di un falconetto (un innovativo pezzo di artiglieria leggera) è quindi un momento simbolico perfetto per rappresentare il passaggio storico: un grande e valente condottiero, ucciso in modo banale dal colpo di un’arma sì moderna, ma nemmeno così cruciale, e che non raggiungerà mai più una simile ribalta. Olmi sfodera tutta la sua fedeltà narrativa, e con grande rigore ricostruisce in modo credibile gli ultimi giorni di Giovanni; un’attendibilità che usa per dimostrare come la guerra fosse pesante da sopportare per il freddo e la fame almeno quanto per i pericoli in combattimento. Non c’è nulla di epico nella guerra del film del regista lombardo, ma solo fugaci scontri in una pianura piena di freddo, umidità, privazioni, sporcizia.

Giovanni delle Bande Nere è interpretato in modo eccellente dall’attore bulgaro Hristo Jivkov, ed è un nobile valoroso; ben diverso dai suoi pari, i signori di Mantova e Ferrara, viscidi, servili e timorosi di perdere quei privilegi che consentono loro una vita agiata anche in quei tempi difficili. Il marchese di Mantova Federico Gonzaga cede, infatti, il passaggio ai Lanzichenecchi, mentre ostacola le truppe di Giovanni; peggio di lui fa il duca di Ferrara Alfonso d’Este che fornisce alle truppe tedesche i pezzi d’artiglieria che saranno fatali al condottiero italiano.

Il problema che si pongono questi nobili è solo che le truppe germaniche passino il più velocemente possibile attraverso le loro terre e, per far questo, non esitano a favorirle nello scontro con i pontifici di Giovanni, tradendo quelli che erano fino allora gli accordi. E allora viene anche facile capire perché questi episodi non siano stati celebrati tanto spesso dal nostro cinema: in essi si vede già la matrice infingarda che purtroppo ha contraddistinto troppo spesso le gesta italiche, con tradimenti e viltà all’unico scopo di salvare il proprio tornaconto. In questo senso, ahinoi, il film è rimasto moderno, attuale, visto che ancora oggi in Italia si ha la prassi di pensare sempre all’interesse privato e mai a quello collettivo. 

E anche le considerazioni di Giovanni circa le proprie truppe, reputate poco inclini alla disciplina al cospetto delle molto più organizzate e ordinate tedesche, sono rimaste maledettamente valide anche, e purtroppo, parlandone fuori dal contesto militare. Da un punto di vista tecnico, differentemente rispetto a quanto non faccia in genere il cinema, Olmi non attualizza la forma delle vicende per renderle comprensibili al pubblico moderno. Non adegua cioè la storia narrata al linguaggio attuale ma, piuttosto, cerca di ottimizzare lo strumento cinematografico per riportarci completamente nella Pianura Padana nel 1526. Un’operazione che gli riesce compiutamente e, se questo rende la pellicola meno facile alla visione, le conferisce grandissimo fascino.


LA BAIA DEL TUONO

142_LA BAIA DEL TUONO (Thunder Bay). Stati Uniti1953;  Regia di Anthony Mann

Film che rivela chiaramente il suo essere smaccatamente opera su commissione, La Baia del Tuono è al contempo un onesto prodotto di svago pur rimanendo coerente con la poetica dell’autore, il validissimo regista Anthony Mann. Infatti c’è un James Stewart (l’ingegner Steve Martin, nel film) che si butta anima e corpo in un’impresa che, allo spettatore (e forse anche allo stesso regista ma certo non al protagonista) in qualche momento sembra porre qualche dubbio morale. Lo sfruttamento petrolifero del Golfo del Messico è davvero quella benedizione per l’umanità che va professando il prode ingegnere? Alla fine, il trasporto trascendete per il proprio lavoro, vissuto come una vera e propria missione di vita, finisce quasi per convincere anche noi che, a posteriori, sappiamo bene quali danni ha fatto l’industria petrolifera nel mare (e non solo). Ma naturalmente l’obiettivo della macchina da presa di Mann non è focalizzato sull’ecologia, ma piuttosto sulla brama interiore, sulla sete di conquista (intesa in senso lato) che anima gli spiriti pionieri come l’ingegner Martin. Questo naturalmente mentre, in modo diciamo così ufficiale, viene imbastita una doppia storia d’amore a sfondo progressista, nel senso che il progresso aiuta e alla fine si sposa (letteralmente) con la comunità locale dei pescatori, in perfetta armonia da film hollywoodiano.

Nel lungometraggio c’è una esplicita componente tecnica che supporta il valore del progresso: viene illustrata per sommi capi l’idea di un’istallazione (la prima al mondo) di una piattaforma petrolifera in mezzo al mare e vengono anche mostrati alcuni passaggi sul suo funzionamento. Buona anche la doppia storia d’amore, con l’aiutante di Martin, Johnny Gambi (Dan Duryea) che si sposa la figlia minore (Marcia Henderson) di un marinaio locale, mentre all’ingegnere toccherà quella più grande, ovvero la splendida Stella (nientemeno che una smagliante Joanne Dru), pur dopo una logicamente tribolata storia sentimentale.

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe dire; se non fosse che oggi sappiamo come le cose, nella realtà (in riferimento generale all’uso del petrolio e particolare all’estrazione nel Golfo), alla lunga non siano andate poi in modo così trionfale. E allora questo film, proprio per la sua onesta e ingenua propaganda tecnica del progresso, qualche dubbio può farcelo venire, magari quando ci raccontano delle meraviglie tecnologiche del futuro.    

   


Marcia Henderson


Joanne Dru





sabato 5 maggio 2018

AVENGERS: INFINITY WAR

141_AVENGERS: INFINITY WAR  Stati Uniti, 2018;  Regia di Anthony e Joe Russo

Avengers: Infinity War può essere considerato il frutto ideale del lavoro dei Marvel Studios, ottenuto con una strategia che ha, in un certo senso, ricalcato la consolidata filosofia aziendale della Casa delle Idee, che da sempre opera in modo simile nel mondo dei comics-books. La Marvel, infatti, ha sempre puntato forte sulla cosiddetta continuity, oltretutto comune per tutte le collane, per cui tutte le storie dei vari personaggi della casa editrice sono collegate tra loro e spesso si intrecciano passando da una serie all’altra. In questo modo le possibilità narrative si moltiplicano, sebbene a costo di un’attenzione enorme da parte degli autori e anche dei lettori; che, seguendo questa filosofia editoriale, vengono così indotti a comprare tutto quanto (o quasi) la Marvel produca, per poter avere chiaro quello che succede anche in una singola storia o collana. Nel cosiddetto Marvel Cinematic Universe (ovvero l’insieme dei film supereroistici prodotti direttamente dai Marvel Studios) non siamo ancora a livello dei fumetti, anche perché molti dei diritti cinematografici dei personaggi sono detenuti da altre Majors; ma gli effetti del lavoro dello studio cominciano a farsi vedere. Ad esempio: Avengers: Infinty War è un’opera in cui assistiamo, in praticamente tutte le due ore e mezza di film, a scene di azione, guerra e combattimenti vari. Mancano gli approfondimenti psicologici che, anche se minimi, visto il genere di film, comunque ci devono essere sempre; diversamente il racconto non sarà mai coinvolgente. Naturalmente Avengers: Infinty War è coinvolgente e appassionante: è un bel film, divertente. 

Com’è possibile, se manca il tempo per conoscere i protagonisti? Perché li conosciamo già tutti, visto che sono stati, chi più chi meno, al centro dei precedenti film Marvel. E poi sono tutti, in un modo o nell’altro, personaggi un po’ complessi o almeno problematici, visto che il motto della Casa delle Idee è da sempre ‘Super-Eroi con super-problemi’. Quindi, pur facendo la tara al tipo di prodotto di cui si parla, non è certo il profilo psicologico degli eroi dei film Marvel, a poter essere un lato debole: da Iron-Man (Robert Downey Jr.) in giù, sono tutti personaggi ben costruiti. Piuttosto, un discreto approfondimento psicologico è invece destinato al cattivo di turno, Thanos, un personaggio interessante e ben caratterizzato, a cui va certamente parte del merito della riuscita del film.

Se un rammarico ci può essere, è che il coinvolgimento generale di tutti i personaggi (o quasi) lascia poi solo dei ritagli di racconto a molti di loro: il caso più eclatante è quello di Hulk che, per altro è in linea con la personalità del mostro verde dei comics, nel suo ostinarsi nel rifiutare a collaborare con gli altri. Ma è prevedibile che lui, come gli altri eroi impiegati in maniera minore in questa occasione, possano tornare alla carica nel prossimo, prevedibilissimo (anche visto il sorprendente finale) episodio di questa guerra, davvero, se non senza fine, perlomeno non ancora finita.
Però, almeno per il momento, che bel finale!
      



Scarlett Johansson





giovedì 3 maggio 2018

DEVIL GIRL FROM MARS

140_DEVIL GIRL FROM MARS Regno Unito1954;  Regia di David MacDonald.

Devil Girl from Mars è un film a bassissimo costo prodotto nel Regno Unito, che ha come principale (e probabilmente unico) motivo per essere ricordato la presenza, nel ruolo della protagonista, di Patricia Laffan. L’attrice sfodera tutto il suo fascino magnetico nei panni di Nyah, la Devil Girl del titolo, che è una spietata extraterrestre proveniente da Marte in cerca di uomini per rinforzare la razza marziana. Le abitanti del pianeta rosso sono infatti reduci da una tremenda Guerra dei Sessi, che ha visto gli uomini soccombere (e vedendo Nyah la cosa è anche comprensibile), ma ora alle marziane serve nuova linfa per ridare slancio alla stirpe. Vabbe’, si tratta di uno Z-movie dichiarato, e quindi non è che ci si debba stupire più di tanto a fronte dell’assurdità dell’intreccio narrativo. Che, per altro, ha anche alcuni aspetti curati, come la controtrama tra i componenti del piccolo ostello, con il giornalista di buoni ideali fronteggiato dal carcerato fuggitivo, che però si redime sacrificandosi salvando contemporaneamente la Terra da una successiva invasione marziana.




 Comunque la storia narrata è solo un evidente pretesto per vedere la statuaria presenza scenica della Laffan, del resto recentemente già ammirata nel Quo Vadis di Mervyn LeRoy, nei succinti panni di Poppea (mitica la sua apparizione con due ghepardi al guinzaglio). A colpire, oltre che l’altero atteggiamento di superiorità insito nella portamento dell’attrice, è anche l’abbigliamento di Nyah, che è coperta da un abito attillato in PVC nero che lascia abbondantemente scoperte le lunghissime gambe ma che, oltre a stuzzicare alcuni appetiti, mette sicuramente anche soggezione. Insomma, un personaggio interessante che dà modo ad un’attrice non certo bellissima, di mostrare il suo indubbio fascino scenico tutt'altro che banale. Nel cast da segnalare anche la bellezza più classica di Hazel Court, attrice che negli anni '60 si specializzerà in film dell'orrore (Sepolto vivo, I maghi del terrore, La maschera della morte rossa).

Hazel Court



Patricia Laffan







martedì 1 maggio 2018

IL SILENZIO DEL MARE

139_IL SILENZIO DEL MARE (Le silence de la mer). Francia, 1947;  Regia di Jean-Pierre Melville

Opera prima di Jean-Pierre Melville, Il silenzio del mare è un film del tutto sorprendente. Tratto da un testo (il romanzo omonimo di Vercors) ritenuto, a ragione, anticinematografico, rispetta nei fatti questa caratteristica, riuscendo, al contempo, ad essere pienamente cinema. Nella storia raccontata dal romanzo e dal film, non c’è azione e nemmeno dialoghi: c’è solo un personaggio che pronuncia monologhi e altri due che li ascoltano. Il narratore è l’ufficiale nazista Von Ebrennac (Howard Vernon) che, durante l’occupazione della Francia, si insedia nell’abitazione di due francesi, un attempato signore e la giovane nipote. L’ufficiale è zoppo e resta alloggiato nella casa per diversi mesi; i due francesi lo accolgono con freddezza, non rivolgendogli la parola e nemmeno lo sguardo. Il tedesco, in tutta risposta, non sembra affatto esserne risentito, comprendendo l’ostilità di chi vede la propria casa e la propria terra occupata forzatamente: addirittura si dimostra estremamente cortese, passando tutte le sere a salutare, con brevi monologhi, la coppia di persone, senza che queste gli concedano mai un cenno di risposta. Pian piano l’ufficiale mostrerà il suo animo, la sua apertura mentale, la sua ammirazione per la cultura francese; una gita nella Parigi occupata gli farà aprire gli occhi sulla impossibilità che il sogno di un’unione felice tra tedeschi e transalpini possa essere compiuta. Unione che, nel ripetersi della scena con il passaggio serale, va sempre più sovrapponendosi ad un’altra intesa, quella tra l’ufficiale stesso e la ragazza francese; un’ipotesi di unione fondata su sguardi non replicati, su risposte non date, su saluti non corrisposti, ma comunque via via sempre più evidente.

Un’evidenza espressa da Melville attraverso un uso proprio dello strumento cinema: alcune scene sono da antologia, tanto azzardate quanto, nella loro espressione, classiche. Le due più note sono una ripresa che mette a fuoco contemporaneamente tre differenti piani del locale dove in sostanza si svolge quasi tutto il film, e che è ottenuta da Melville in modo davvero empirico. Il regista gira in più riprese gli stessi fotogrammi di pellicola, illuminando di volta in volta, a turno, i vari soggetti disposti a diverse distanze dall’obiettivo, ottenendo quindi, la massima profondità di campo. La seconda è una panoramica che parte dalla Cattedrale di Chartes, sale verso il cielo, dove, in dissolvenza, l’immagine si sposta sul cielo di Parigi, sopra la scuola militare, con la mdp che arriva poi sul cannone e quindi sul carro armato che è piazzato là come monumento, ma che nel film serve a rappresentare la guerra in corso. Stratagemmi al limite dell’incredibile, ma necessari. Perché, giova ricordarlo, Jean-Pierre Melville gira Il silenzio del mare senza i diritti sul libro, senza autorizzazioni, praticamente senza pellicola e senza budget ma, grazie a talento ed ingegnosità, riesce a produrre un film che niente ha da invidiare a moltissimi prodotti dell’industria cinematografica, anzi.

Il lungometraggio è costruito su un’improvvisazione dietro l’altra, ma ha il vantaggio che il regista francese sa perfettamente quello che poi rimarrà sullo schermo, una qualità innata (assistita dall’abilità dell’addetto alla fotografia Henri Decae) che gli permette di arrivare a soluzioni visive perfettamente funzionali allo scopo (e quindi classiche), pur con sistemi artigianali e artificiosi, non disponendo di uno studio alle spalle come supporto tecnico. Le inquadrature dal basso che riprendono l’ufficiale tedesco, sottolineando l’assurdità dei deliranti monologhi, e il ritmo serrato del montaggio, che si contrappone alla sostanziale inattività della trama, creano un clima di tensione costante. Lo spettatore è perennemente sulla corda; sembra sempre di essere sul punto in cui qualcosa rompa l’assurda routine degli incontri serali.

La tensione sentimentale tra il tedesco e la ragazza cresce, lentamente, silenziosamente, ma si muove; così come anche la stima reciproca tra i due uomini. Ma la situazione di stallo in cui si sono imprigionati i due francesi, non cede.
E come potrebbe: il film è, in effetti, proprio un manifesto alla resistenza francese. Questo spirito era già presente nel libro di Vercors, ma Melville ne trae un film che lo comunica con gli strumenti propri del cinema, riuscendo, quindi, in un’operazione certamente ardua visto anche la fama anticinematografica che accompagnava il romanzo. Ma l’autore francese, o se vogliamo assecondarne i gusti, il creatore francese, non ha scelto il proprio pseudonimo a caso: Hernan Melville era un grandissimo narratore, così come monsieur Grumbach, in arte Jean-Pierre Melville.