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giovedì 31 ottobre 2024

PHOTOPHOBIA

1569_PHOTOPHOBIA. Ucraina, Slovacchia, Cechia, 2023; Regia di Ivan Ostrochovsky e Pavol Pekarcik

Il titolo del film di Ivan Ostrochovskye Pavol Pekarčík, Photobhobia –in italiano fotofobia– fa riferimento al disturbo dovuto al fastidio per la luce, la cui origine può essere dovuta a motivi diversi. Nel caso del film della coppia di registi slovacchi è legato alla vita reclusa e lontana dall’aria aperta a cui è costretta la popolazione ucraina –nello specifico della città di Kharkiv– per proteggersi dai bombardamenti russi scatenatesi dopo l’inizio dell’aggressione su vasta scala. Photobhobia è un ibrido tra un film e un documentario, e lo pseudo-racconto che sorregge l’opera si concentra sulla vita di un pugno di persone, tra le tante che si sono rifugiate nella metropolitana di quella che è la seconda città ucraina, e che lì sotto vivono 24 ore al giorno sette giorni su sette, ormai da due mesi. La confusione e lo stato di precarietà estremo regnano sovrani, considerato che nei tunnel della metro mancano gli elementi necessari alla vita: luce, aria, spazio, prima ancora di acqua e cibo. La messa in scena di Ostrochovsky e Pekarčík è soffocante, con lo schermo sempre e costantemente ricolmo di cose –persone, animali domestici, materassi, borse, scatoloni, qualunque oggetto è ficcato dentro l’inquadratura in ogni spazio disponibile– a sottolineare la situazione fortemente oppressiva. Manca il cibo, come detto, e l’acqua è razionata; ma a far più danni è la lontananza dall’aria aperta, dalla luce del sole: Niki (Nikita Tyshchenko), il ragazzino protagonista del film, comincia ad avvertire i primi sintoni che una vita costantemente al chiuso comporta. «Costantemente» nel puro senso del termine, perché la potenza di fuoco russa non concede deroghe: chi si azzarda ad uscire alla luce del sole, rischia grosso. “I bambini si ricorderanno tutto questo?” chiede, durante il film, la madre di Niki (Yana Yevdokymova) al marito: è questo, il quesito su cui si interrogano gli autori. Il punto di vista è, infatti, quello dei più piccoli: di Niki, ma anche di Anya (Anna Tyshchenko), la sua sorellina, o di Vika (Viktoriia Mats), l’amichetta del cuore. Un punto di vista che non ha mai un orizzonte, perché relegato dentro i vagoni di un treno o la galleria della metropolitana, e su questo aspetto insistono con perseveranza gli autori. Persino i ricordi, l’immaginazione dei ragazzini, non è in grado di andare oltre alla tragedia della guerra. Simbolicamente, ed efficacemente, questo è mostrato dall’utilizzo, da parte di Niki e Vika, di un vecchio visore portatile per diapositive che, magicamente, è in grado di riprodurre brandelli di vita all’aria aperta, come fossero filmati in Super 8. Ma i personaggi che vi si vedono sono sempre accompagnati da uno sfondo distrutto dai bombardamenti, a ricordare l’onnipresenza della guerra, anche nella fantasia dei ragazzini. Visivamente, la sensazione di chiuso, di costrizione, persiste anche in queste immagini, per altro surreali per via della colorazione fortemente artificiosa: le varie inquadrature sono circondate dai bordi delle diapositive a significare l’impossibilità di qualsiasi via di fuga, persino per l’immaginazione. È un film triste, pessimista, quindi, Photophobia? Certamente non è allegro, se pensiamo che le uniche persone che vediamo muoversi all’aria aperta sono gli uomini che trafficano con tubi di ferro vicino ai tombini, in una Karkhiv spettrale con le poche auto che sfrecciano veloci per il timore del bombardamento russo. È il breve ed enigmatico incipit, poi tutto il resto del film si svolge nel chiuso della metro e la luce del sole farà la sua comparsa, per un breve momento, unicamente nel finale, quando Niki e Vika giocano con le mani a fare le ombre cinesi sul muro. Vika, per la verità, con le sue buffe orecchie da coniglio suonanti, è stata, sin dal primo incontro, una nota –anche letteralmente– lieta, qualcosa in grado di sovvertire la negatività imperante nei tunnel della metropolitana. Due elementi, la musica e il sentimento, che il romanticismo coniugava alla perfezione e di cui si fa efficace portavoce il vecchio cowboy (Vitaly Pavlovitch), e che possono forse incarnare l’ultima speranza d’evasione. Non a caso, nel momento più trascinante del film, quando la colonna sonora si fa potente, i ragazzi corrono veloci per i corridoi della metro, deserti per l’occasione, che, in quel frangente, sembrano ambienti domestici e non claustrofobici. Merito della musica e, ça va sans dire, dell’amore, anche di quello tenero e acerbo di due ragazzini. E allora si può rispondere alla domanda della signora Yevdokymova, la madre di Niki: i bambini si ricorderanno di tutto questo, e, a quel punto, nei filmini dei loro ricordi ci sarà qualcosa che nessuna bomba potrà mai distruggere.









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