1568_SONGS OF SLOW BURNING EARTH. Ucraina, Svezia, Danimarca, 2023; Regia di Olha Zhurba
Della modestia dell’artista, legata alla relazione tra l’artista e l’arte, ne ha disquisito in modo esemplare già Thomas Mann nell’interessante opuscolo L’artista e la società [Thomas Mann, L’artista e la società, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1953]. Scrive, infatti, Mann: “Io vorrei vedere quell’artista che non conosce l’improvviso rossore di fronte all’opera d’arte che sta presso di lui e d’innanzi a lui: è un rossore che deriva dal fatto che ogni esercizio di arte comporta un nuovo e già di per sé artistico adattamento all’arte di ciò che personalmente e individualmente si possiede. Il singolo, anche dopo la riuscita e il riconoscimento delle sue realizzazioni, può domandarsi, paragonandole con le opere d’arte altrui: «com’è stato possibile il mio adattamento personale, anche per un istante solo, con tali cose?». «Com’è stato possibile?» Questa è la domanda che scaturisce dalla schietta modestia dell’artista”. [Thomas Mann, L’artista e la società, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1953, pagine 13 e 14]. Quella stessa “schietta modestia” si è manifestata nelle parole di Olha Zhurba, nuova stella del firmamento del cinema ucraino, intervenuta a Lugano, all’11° Film Festival Diritti Umani, a presenziare la proiezione del suo splendido Songs of slow burning Earth. L’entusiasmo non è di maniera, unicamente lo spettatore che ha la fortuna di assistere al documentario della Zhurba, non può che essere travolto dalla potenza artistica della cineasta ucraina, e, per assurdo, tornarsene a casa rinfrancato. Per assurdo perché Songs of slow burning Earth è un documentario durissimo e pesantissimo, dal punto di vista umano, perché mostra senza sconti la tragedia immane che sta accadendo in Ucraina, dopo quel maledetto 24 febbraio 2022. Olha, facendo scaturire –per usare le parole di Mann– la citata modestia d’artista, nel dibattito post proiezione, ci ha tenuto a precisare che la sua rappresentazione della situazione è limitata e non rende assolutamente l’atrocità della guerra. Da un punto di vista puramente descrittivo, la cosa è anche vera, molto probabilmente, perché la regista non indugia eccessivamente sui dettagli scabrosi o macabri. Testualmente la Zhurba ha dichiarato che la sua arte è debole, al cospetto della guerra, e non può riportarcene l’enorme gravità. Ma è un commento che non rende giustizia all’arte di Olha, perché il suo cinema è tutto fuorché debole; debole semmai sono la guerra, la violenza, la prevaricazione, che della forza hanno solo la parvenza materiale. Al contrario, Songs of slow burning Earth ha una potenza che lascia senza fiato, emoziona, commuove, sgomenta, sempre con grande forza d’urto. È un’opera universale, quella della regista ucraina e lo si capisce sin dal nome del film: c’è la capacità di architettare un titolo composto, con l’attenzione al sonoro –«songs», canzoni– e il riferimento al cinema –«burning slow», ovvero bruciare lentamente. Una definizione, nel caso specifico, valida anche da un punto di vista letterale ma, in ambito cinematografico, l’espressione «burning slow» è usata, sin dai tempi delle comiche di Stanlio e Ollio, per descrivere quelle situazioni che, pur sviluppandosi in modo apparentemente lento, avanzano inesorabilmente fino alla catastrofe. Se nei film di Laurel e Hardy e nelle commedie, questo stratagemma narrativo prevedeva una soluzione esplosiva ma umoristica, il timore è che, il film della Zhurba ci racconti di un’evoluzione drasticamente diversa. Ma naturalmente è nella realizzazione dell’opera vera e propria che si concretizza la bravura della regista: dalla superba capacità compositiva delle immagini degna di Anthony Mann [uno dei maestri del cinema hollywoodiano, famoso, tra le altre cose, per l’abilità nel gestire il formato panoramico CinemaScope, al tempo novità delle Settima Arte], al montaggio, spesso usato in modo spiazzante e contrapposto, ad un utilizzo della traccia audio davvero notevole o all’efficace simbolismo di alcuni passaggi. Come accennato, i fotogrammi del film della Zhurba non insistono sulle atrocità della guerra, ma l’autrice ha una capacità di costruzione dell’immagine tale da rendere le sue scene, per quanto rigorosamente documentaristiche, interpretabili come artificiose. Emblematica, di questa estrema abilità della regista, la domanda arrivata dalla platea dopo la citata proiezione a Lugano: uno spettatore chiedeva a Olha come fosse riuscita a ricostruire tutte quelle scene con tale realismo. La cineasta ucraina garantiva, a quel punto, dell’autenticità delle immagini, e, al di là dell’estrema bravura della Zhurba nel cogliere sempre le prospettive e i soggetti migliori, la cosa è evidente. Questa abilità consente alla regista un primo livello narrativo, già all’interno della stessa immagine; spesso la camera è ferma, molte altre volte si muove con un carrello lento, circospetto e descrittivo. Le immagini di Songs of slow burning Earth parlano da sole e, spessissimo, a farlo sono i primi e primissimi piani sui volti della gente ucraina, donne, uomini, bambini, che soffrono per la tragica situazione e che la camera di Olha riesce a raggiungere e a renderci vicinissimi. Il montaggio, spesso, mette in risalto questi elementi, accostando immagini completamente diverse, come le tante visioni bucoliche che si alternano alle devastazioni urbane create dai bombardamenti. In sala taglio, accanto a Olha, ha lavorato Michael Aaglund, per un risultato sopraffino anche sotto un aspetto, altre volte nel caso di documentari, assai meno determinante nel computo finale. Ma Songs of slow burning Earth è un documentario realizzato come fosse un film di finzione e, quest’impressione, è determinata anche dal magistrale uso del sonoro, degno di un horror da manuale. In moltissimi casi, non solo bellici ma anche di catastrofi di altra natura, ad impressionare maggiormente, gli sfortunati che abbiano avuto questo tipo di esperienza, è il rumore. In effetti, l’uomo occidentale, dai tempi dell’alfabetizzazione [iniziata con la stampa a caratteri mobili inventata da Johannes Gutenberg nel 1453] tra i suoi sensi, ha privilegiato in modo totalizzante la vista, che permette di acquisire informazioni mantenendo sempre un certo distacco da esse e dall’ambiente circostante. Al contrario, l’udito, è un senso che «ci tocca» nel nostro intimo, considerato che le onde sonore riescono ad arrivare fino al timpano, posto ad una certa profondità nell’orecchio. Questo è uno dei motivi che rende il suono un elemento tanto destabilizzante e, nel cinema e in particolare in quello dell’orrore, si può associare con grandissimo profitto con il «fuori campo». Un rumore fortissimo ci spaventa di per sé; un rumore di cui non riusciamo a percepire la fonte, ci inquieta ulteriormente. I carrelli laterali o le inquadrature fisse, a volte di una natura anche tranquilla, in Songs of slow burning Earth sono accompagnati spesso da suoni stranianti, disturbanti, per un effetto che instilla una sottile ma strisciante e corrosiva paura. Uno stile che ricorda, un po’ come tutto il film di Olha Zhurba, un altro capolavoro recente del cinema ucraino, This rain will never stop, di Alina Gorlova. [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020]. L’utilizzo del rumore fuoricampo come strumento di terrore è poi esemplificato nella scena con il bambino che si diverte con il fucile mitragliatore giocattolo. Il ragazzino, in una casa sperduta nella campagna ucraina, sta «sparando» a destra e a manca con la sua mitragliatrice fatta di scatole e tubi, quando si sente arrivare un suono devastante, il rumore di un caccia da guerra. Il piccolo d’un balzo scappa a cercare riparo, il rombo sovrasta la scena ma del jet nessuna traccia: il semplice rumore fuoricampo ha spaventato tanto noi che il ragazzino sullo schermo. Ma anche l’utilizzo della traccia audio è universale, e non si limita unicamente a questi aspetti d’impatto; ci sono le registrazioni dei colloqui telefonici, le chiamate al numero d’emergenza, soprattutto in apertura. Tra le ripetute segnalazioni dei primi improvvisi scoppi c’è l’esplicita domanda se si tratti di guerra e l’operatore risponde affermativamente, ma in modo un po’ vago, perché, in realtà, nessuno sapeva ancora cosa diamine stesse accadendo. In questo caso, cinematograficamente, la consapevolezza di quello che era in corso, l’invasione del 24 febbraio, rende ora quelle voci ancora più intimorite, spaventate, indifese. Si tratta di un adattamento al testo di un classico cliché del cinema thriller, la suspense: come insegnava Hitchcock, un evento che capita senza preavviso può spaventare fino ad un certo punto. A creare tensione è la consapevolezza, da parte degli spettatori, di quello che inevitabilmente succederà: in questo caso il pubblico sa perfettamente come i timori delle persone che dialogano piene di apprensione, abbiano completo fondamento, il che rende quelle voci ancora più angoscianti di quanto non siano. Il sonoro è poi parte integrante della sequenza madre di Songs of slow burning Earth, quella con il feretro del soldato morto al passaggio del quale tutti quanti si inginocchiano: una scena molto toccante che, al cinema, si era già vista in War note di Roman Lyubiy [War note, Roman Lyubiy, 2021]. In quest’occasione la costruzione della sequenza è molto più accurata, e questo può aiutare a capire la maniacale attenzione di Olha nel comporre il suo cinema.
La regista si prende tutto il tempo necessario ad un momento tanto lirico: inizialmente abbiamo solo la visuale in soggettiva di un automezzo che avanza su una tortuosa strada. Il primo individuo che si incontra, si inginocchia, e lì per lì la cosa sembra un comportamento anomalo, poi la scena si ripete, fino ad arrivare ai tratti di strada lungo i quali sono assiepate decine di persone, tutte inginocchiate. A meno di non conoscere questo tipo di situazione, non si è ancora in grado di comprenderla a fondo: cosa o chi sta passando, per meritarsi tale tributo? Anche per questo motivo, la sequenza è molto lunga, scandita inesorabilmente dal lento movimento del tergicristallo, con le spazzole che fanno un fastidioso rumore faticando sul vetro appena umido. Una litania che aumenta la sensazione estenuante che la persistenza di questo viaggio produce nello spettatore, che, nel frattempo, è divenuto ormai conscio, qualunque sia la sua conoscenza della situazione, di quello a cui sta assistendo. E, proprio allora, con perfetto tempismo ritardato, incombe il taglio del montaggio che ci permette di vedere il camion con la bara avvolta nella bandiera ucraina: il cadavere di un soldato fa ritorno al paese natio e chiunque, al suo passaggio, gli tributa l’onore pienamente meritato. Questo momento non è il solo che mette in rilievo la preoccupazione –a quel che dato sapere unicamente ucraina, tra le forze in contrapposizione– per l’identificazione dei morti. Anzi, si può dire che proprio il contrario approccio alla questione sia uno degli elementi che permetta di decifrare meglio una guerra come quella russo-ucraina, dal punto di vista occidentale abbastanza incomprensibile. Gli ucraini, che leggono nell’aggressione russa non tanto un tentativo di vincerli, quanto quello di cancellarli dalla faccia della terra, hanno una lodevole e sacra ossessione per il riconoscimento dei cadaveri, e non solo quelli dei propri compatrioti. Di contro, i militari russi, non perdono l’occasione di eliminare fisicamente il nemico, anche quando questi è già morto. La cronaca ne ha portato diversi casi, sebbene resti sempre il problema dell’attendibilità delle notizie. Per restare in ambito cinematografico, il cinema ha insistito su questo aspetto della vicenda, ma si deve registrare come, almeno in base ai film presi in esame in questo studio –che ha cercato di essere il più completo possibile e tra cui, come si è visto, vi sono tutte le opere russe o filorusse circolanti o reperibili– sia un tema solamente ucraino o filo-ucraino. Se ne trovano, infatti, cenni in Atlantis [Atlantis, Valentyn Vasyanovych, 2019] e Reflection [Reflection, Valentyn Vasyanovych, 2021] di Valentyn Vasyanovych, in Frost [Frost, Šarūnas Bartas, 2017] di Šarūnas Bartas e in Nessun segno manifesto [No obvious signs, Alina Gorlova, 2018] di Alina Gorlova: abbastanza per credere che si tratti di un’attività bellica peculiare di questo conflitto e, nello specifico, dell’esercito invasore di questo conflitto. La cancellazione fisica del nemico fa decadere il rispetto per i morti che, almeno sulla carta, era uno degli ultimi baluardi di umanità che si poteva sperare di trovare in uno scenario di guerra. Certo, c’è sempre stata, citata anche in Songs of slow burning Heart, la barbara usanza di predisporre i cadaveri dei nemici come bombe-trappola, ma, a parziale –e assolutamente insufficiente– scusante, si poteva portare, in questo caso, l’utilizzo del nemico morto come arma utile alla propria causa bellica. Nell’invasione su larga scala, invece, la strategia russa sembra quella di cancellazione del nemico intesa come rimozione fisica, negazione retroattiva, qualcosa di malvagio ideologicamente e concretamente.
La risposta ucraina a questo tentativo è commovente e ben documentata dalla Zhurba nel suo film: gli ucraini fanno di tutto per restituire la dignità di un nome a chiunque sia caduto a difesa della Patria, e questo diametralmente opposto atteggiamento nei confronti di chi ha perso la vita, non permette alcuna equiparazione in onore ad una neutralità dello sguardo. E, ancora una volta, la macchina da presa di Olha è illuminante: la sua regia è tutto fuorché imparziale, neutra, al punto che, come detto, c’è chi ha pensato a scene ricostruite. Ma un documentario cinematografico ha il compito di documentare, è ovvio, ma, in quanto cinema e quindi arte, può assurgere a Verità, la Verità dell’arte. Che non si cura di presunte e fittizie parzialità o imparzialità: è semplicemente vera, autentica. E, stante questa critica situazione, la verità dell’arte –e del cinema nello specifico– è la nostra ultima speranza. E qui si chiude il discorso aperto in avvio, sulla modestia dell’artista, perché Olhia Zhurba, in quel di Lugano, oltre a dichiarare la debolezza della sua arte –appena smentita dal suo film, peraltro– si è detta anche senza speranza, almeno per sé stessa e la sua generazione. In effetti, verso la fine, Songs of slow burning Earth si concentra sul futuro, con i ragazzi ucraini di una scuola che cercano di immaginare come sarà la pace dopo la guerra e, in contrasto, le curiose immagini all’interno di un istituto scolastico russo nel quale si insegna a bambini e bambine a marciare e cantare manco fossimo in una caserma. Olhia ha dichiarato che si tratta, come le precedenti, di immagini genuine, anche queste ultime carpite sul suolo russo, sebbene la cosa fosse, evidentemente, proibita. Un passaggio che vuole essere inquietante, dal momento che il Cremlino, stando a quanto mostrato nelle scene, sta creando un popolo di guerrieri. Può essere vero, maestra Storia insegna che situazioni del genere si sono già verificate. L’unica arma a cui possiamo appellarci è la speranza che ciò non accada, diversamente sarà, in ogni caso, una catastrofe. E, da cittadino italiano ed europeo, di un Paese al momento in pace, questa speranza nel futuro la posso prendere proprio dal cinema di Olha Zhurba, una donna che proviene da paese che, al momento, non sembra che un cumulo di macerie; una donna che, comprensibilmente, si dice senza speranza. Come questo paradosso sia possibile lo ha spiegato Mann: la modestia dell’artista.
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