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mercoledì 13 marzo 2024

L'ULTIMA MINACCIA

1452_L'ULTIMA MINACCIA (Deadline U.S.A.). Stati Uniti, 1952; Regia di Richard Brooks.

È la stampa, bellezza, e tu non ci puoi fare niente, niente!”. Questa celeberrima battuta, detta in chiusura de L’ultima minaccia da Humphrey Bogart, condensa perfettamente lo spirito del film di Richard Brooks. Per decenni, o forse per secoli, la libertà di stampa è stato l’ultimo appiglio a cui si poteva ancorare l’umanità, nella sua ricerca di giustizia e verità. Negli anni Cinquanta, L’ultima minaccia è del 1952, si raggiunse forse l’apice di questa illusione, in corrispondenza con il momento di maggior fiducia nel Sogno Americano, che non valeva soltanto per i cittadini a stelle e strisce ma un po’ per tutto quanto il mondo cosiddetto occidentale. Richard Brooks, autore versatile, aveva a cuore i temi quali la giustizia sociale, l’uguaglianza, la libertà ed era ben consapevole del ruolo che i giornali avevano in una moderna società. La stampa era la coscienza della comunità e ne L’ultima minaccia, Brooks si prodiga per farlo capire in ogni modo. Dal tema della vendita del Day, il giornale dove è ambientata la storia, alle parole dell’immigrata tedesca Mrs. Schmidt (Kasia Orzazewski), si sottolinea la necessità, in seno alla società, di una stampa libera e indipendente. Il soggetto, opera, come la sceneggiatura, dello stesso regista, verte sulla messa in vendita di un giornale, il citato Day, considerato che agli eredi del fondatore non interessa più rimanere nel settore dell’editoria. E non è un tema campato per aria; intanto perché è ritagliato sulla storica chiusura del New York Sun, venduto alla catena Scripps Howard e assorbito nel World-Telegram, e poi perché è una situazione che abbiamo visto ripetersi un’infinità di volte. La volontà di raccontare una storia vera, si trova nelle scelte registiche di girare alcune scene nella sala stampa del New York Daily News, con veri giornalisti, o nella ricostruzione di una redazione negli studi di Hollywood. O anche nella dedizione del grande Humphrey Bogart – che interpreta Ed Hutcheson, direttore del Day – che si recò più volte presso il citato New York Daily News per comprendere come funzionasse un giornale. 

La regia di Brooks è solida è diretta tanto quanto la sua penna e difficilmente si può quindi trovare, sul grande schermo, un testo che rappresenti al meglio la frenetica e concitata vita di un giornale quotidiano. E già, solo per questi motivi, L’ultima minaccia merita lo status di capolavoro. Ma per l’aspetto più prezioso del film dobbiamo rivolgerci all’anima democratica, rooseveltiana, liberale, di Brooks, uno che davvero credeva in quei principi che, al tempo, si pensava potessero ancora salvare la nostra società. Il regista è però onesto e, quindi, già nel suo film riconosce anche i limiti di questi suoi ideali, la loro natura illusoria. Nel lungometraggio, il tribunale, massima espressione della Giustizia, non può opporsi alla cessione del giornale presso cui lavora Hutcheson. Il punto è che le sorelle Garrison (Fay Baker e Joyce Mackenzie), eredi del fondatore, vogliono cedere il Day al più scandalistico quotidiano concorrente per banali questioni economiche. Che il giornale rivale lo acquisti solo per levarsi di mezzo una scomoda concorrenza, a loro non interessa e neppure è agli atti dell’udienza e il tribunale, su questo aspetto, non è tenuto ad intervenire. La madre delle due donne, la vedova Margareth (Ethel Barrymore), è presto convinta dalla determinazione di Hutcheson e, anche in memoria degli ideali del compianto marito, prova ad opporsi alla vendita, ma non riuscirà nei suoi propositi. Hutcheson, infatti, per cercare di ostacolare il passaggio di mano del suo giornale – che vorrebbe dire chiusura certa e, oltretutto, la perdita del lavoro per un mucchio di persone – gioca il tutto per tutto e imbastisce una pesante inchiesta contro il boss malavitoso della città, Rienzi (Martin Gabel). A titolo di curiosità, va segalato che nella versione italiana del film, con un opportunismo che farebbe certo storcere il naso a Brooks, Rienzi diventa Rodzich, trasformando in slava la siciliana origine del nome. 

L’inchiesta del Day ha successo e, dopo una serie di peripezie, Rienzi o Rodzich che sia, è messo spalle al muro. Siamo quindi nel mezzo di una clamorosa campagna stampa contro la malavita cittadina, condotta in solitaria dal Day, tuttavia l’udienza per la compravendita del giornale arriva comunque alla sua deadline, per riprendere il titolo originale del film. Il giudice è chiamato a decidere: in tribunale va in scena l’ultimo dibattito. Nella stringata e impotente arringa di Hutcheson, intervenuto in via del tutto straordinaria, c’è l’ammissione da parte di Brooks che il libero mercato, la libera concorrenza, non possono essere imbrigliati alla bisogna. Certo, il discorso sul fatto che la stampa sia la coscienza della società è sacrosanto ma, ahimè, utopistico. È vero, in molti paesi occidentali ci sono leggi speciali, che ne tutelano la sussistenza ma, e Brooks certo lo sa perfettamente, l’unica Legge assoluta, nel mondo cosiddetto libero, è quella del denaro. Il regista, attraverso l’operato di Hutcheson, prova a raccontarci qualcosa di diverso, qualcosa in cui, almeno al tempo, era bello e facile credere; ma già in tribunale, di fronte alla fredda e gelida Legge, il direttore alza sostanzialmente le mani in segno di resa. Non ci resta che l’implicita domanda che ci pone Brooks, ovvero se sia giusto ciò che accade nel film, e cioè che i proprietari di un giornale, lo vendano secondo il proprio comodo.
E, con dispiacere, ma verrebbe da rispondere: è il libero mercato, bellezza.    


Kim Hunter 


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