1028_IL FIGLIO DI KOCISS (Taza, son of Cochise). Stati Uniti, 1954; Regia di Douglas Sirk.
Dopo l’escursione nella commedia western Portami in città (1953), Douglas Sirk riesce finalmente a cimentarsi pienamente con il genere che celebrò la conquista dell’ovest americano grazie a Il figlio di Kociss. Il film si presenta sulla scia del successo de L’amante indiana (1950 regia di Delmer Daves) e Kociss, l’eroe indiano (1952, George Sherman) e Sirk non cerca di minimizzarne il ruolo di terzo capitolo, anzi. L’incipit che vede il grande capo indiano Cochise (Kociss nel doppiaggio dell’epoca) in punto di morte, interpretato da quello stesso Jeff Chandler che ne aveva vestito i panni nei precedenti episodi, ne è l’esplicita certificazione: praticamente siamo di fronte ad una trilogia. Sirk è quindi consapevole che il western è un genere prosaico e popolare e risponde prima alle esigenze di mercato – attenzione, più in senso cronologico che non di importanza – rispetto ad eventuali pretese artistiche, e vi si adegua. Oltretutto, a conferma delle dichiarazioni in cui esternava l’ammirazione per il genere western e i suoi autori, si percepisce, guardando Il figlio di Kociss, come il regista nato ad Amburgo affronti con scrupolo e sincera passione l’incarico di completare la citata virtuale trilogia dedicata agli Apache. Il versante culturale del suo film rilancia l’attenzione agli usi e costumi dei nativi americani di Delmer Daves e de L’amante indiana nello specifico. Anche nel terzo capitolo c’è in ballo un matrimonio apache e, in questo caso, il ruolo della sposa è interpretato da Barbara Rush nei panni di Oona.
Cura nei dettagli culturali e soprattutto rispetto per i nativi, che pare abbiano partecipato alla realizzazione dei set di ripresa in esterni, nello Utah: giova forse ricordare che stiamo parlando di una sorta di B-movie, un terzo capitolo di una trilogia, e siamo nel 1954. Ennesima dimostrazione di come, ai tempi, il cinema di Hollywood fosse, in non pochi casi, in anticipo sulla consapevolezza dell’opinione pubblica generale. Le scene di battaglia, che Sirk gira con insospettabile perizia, riprendono la peculiarità di Kociss, l’eroe indiano, racconto filmico che verteva principalmente su due scontri tra gli Apache e l’esercito americano tra cui la Battaglia del Passo Apache ripresa in modo sontuoso da George Sherman. Se vogliamo, quando Taza indossa la divisa delle giacche blu, Rock Hudson finisce per evocare un altro suo ruolo western, quello in Seminoles, uscito l’anno precedente ad opera di uno dei registi preferiti da Sirk, Budd Boetticher.
Proprio l’istituzione di una polizia indiana, che fornirà armi e divise agli Apache collaborativi, è uno dei tasti delicati dell’opera. Naturalmente l’idea di trovare un compromesso per risolvere pacificamente la questione indiana era da plaudire senza se e senza ma, eppure a conti fatti, è difficile essere critici con chi si oppose strenuamente alla civiltà degli invasori bianchi. Intendiamoci, Geronimo (Ian MacDonald) era un predone anche nella realtà storica – e nel complesso si può dire che gli apache stessi lo fossero nei confronti delle altre tribù indiane. Tuttavia il loro fiero combattere l’avanzata di chi – i bianchi – non si rivelarono certo tanto migliori, oggi può legittimamente ispirare una qualche forma di consenso alimentando il carisma di Geronimo e degli indiani ostili in generale. Del resto, anche nel film, la situazione in un attimo si complica e non è semplice, per chi come Taza ha scelto la via di un compromesso che lasci sul piatto più di quanto ne riceva in cambio, rimanere coerente e pacifista. Sirk gestisce con buona capacità questi complessi aspetti etici legati alla conquista; in sostanza si trattava di trovare un modo per ammettere la colpa morale dei bianchi nei confronti degli indiani senza sconfessare la natura celebrativa del western che, come genere, fungeva da narrazione epica della nascita e ascesa degli Stati Uniti, mica roba da poco.
Tuttavia il regista riesce nell’impresa e trova anche il modo di inserire aspetti tipici della sua poetica, agganciandoli narrativamente al romanticismo de L’amante indiana, il capitolo iniziale della trilogia. A complicare le cose a Taza, già diviso tra la sua natura indiana bellicosa, era pur sempre un apache, e il tentativo di mantenere la pace, ispirato dalla volontà del padre Cochise, ci si mette anche una vicenda sentimentale. La presumibile fidanzata del nostro eroe, Oona, è figlia di Aquila Grigia (Morris Ankrum) che non vede di buon occhio il pacifismo del nuovo capo e gli preferisce il più bellicoso fratello minore Naiche (Rex Raison). Ovviamente questi metterà anch’esso gli occhi sulla bella Oona, forte dell’appoggio del padre, andando ad ingarbugliare la vicenda a Taza, tra questioni private, la lotta per la ragazza, a quelle pubbliche, l’appoggio a Geronimo o le istanze di pace ispirate da Cochise. In definitiva Il figlio di Kociss è un buon film, divertente e ben confezionato. Certo, non è un capolavoro e, considerato che tutte queste implicazioni sono condensate in un’ottantina di minuti scarsi, viene un po’ il dubbio che Sirk abbia avuto una sorta di eccesso di riverenza, verso il genere western, che finisca un po’ per ingolfare quello che avrebbe dovuto, nelle intenzioni della Produzione, essere un mero esercizio commerciale. Tuttavia si tratta di un’incursione pregevole, e se ha dei limiti, è per la volontà di rispettare i canoni del genere senza snaturare o svilire la propria cifra artistica:
Barbara Rush
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