1035_L'ESORCISTA (The Exorcist). Stati Uniti, 1973; Regia di William Friedkin.
Oggi, probabilmente, L’esorcista di William
Friedkin è universalmente riconosciuto come capolavoro. Il che, guardando il
film, è facilmente comprensibile: quello tratto dall’omonimo best seller di
William Peter Blatty è un horror che fa davvero paura, in una confezione
formale notevole da ogni punto di vista. A cominciare dagli effetti speciali che
sono straordinari ancor’oggi ma all’epoca, i primi anni Settanta, ebbero un impatto
sconvolgente oltre che significativo: da quel momento in poi si ricorrerà
sempre meno al fuori campo per relegare il mostro di cui avere paura. E così
nel successivo new horror, di cui L’esorcista fu una sorta di
apripista, con l’impiego di trucchi visivi sempre più efficaci e make-up
raffinati, l’orrore potrà fare sfoggio di tutta la sua bruttezza sullo
schermo, riuscendo a cogliere meglio il senso del termine che definisce il
genere – laddove orrore è un mix tra paura e disgusto mentre, ad esempio,
terrore indica solo la prima. Ma queste conseguenze sono dettagli: gli elementi
che fanno del film di Friedkin un’opera epocale sono certamente gli effetti
speciali uniti alla traccia audio, alla vena blasfema e all’eccellente gestione
della suspense, visto che il racconto mette i brividi non solo nei passaggi più
estremi. Degli effetti speciali si è detto: il vomito verde pisello (pare fosse
veramente una passata di quel legume), la testa di Regan (Linda Blair) che
ruota di 180°, la camminata della ragazzina posseduta a mo’ di ragno –
rovesciato! – sulle scale, tanto per citare alcune delle scene più memorabili
in tal senso. Il sonoro del film vinse l’Oscar e in effetti è tremendamente
efficace.
La composizione delle tracce musicali è affidata a diversi autori, Tubular
Bells di Mike Olfield è l’angosciante tema principale ma tutta la colonna
sonora, riarrangiata dalla London Symphony Orchestra, è notevole, con passaggi
agghiaccianti e disturbanti. Oltretutto non è solo la musica a rendere il
sonoro de L’esorcista così efficace: i colpi, i rumori, la voce
d’oltretomba del demone, quando non è la musica a terrorizzarci o inquietarci
subentra il loro lavoro a metterci in apprensione. In un film horror la
traccia audio è cruciale perché il suono, a differenza dell’immagine che tutto
sommato rimane relegata sullo schermo, ci immerge nella scena: spesso si
avverte la vivida impressione che ci tocchi e ci avvolga.
E il sonoro de L’esorcista
lo fa splendidamente e in più di un momento durante la visione capiterà a
chiunque di avere il dubbio che il sinistro rumore avvertito provenga da
qualche parte al di qua dello schermo. Un aspetto che innegabilmente
contribuì a rendere affascinante il film fu poi il linguaggio scurrile, a dir
poco, della povera Regan mentre era posseduta. A dirla tutta, l’elemento che
forse, perlomeno nei paesi cristiani – e cattolici nello specifico – diede
maggior fama a L’esorcista fu la celeberrima scena del crocefisso, assai
più dell’altra scena clou in questo senso, quella della statua della madonna
profanata. Quella del crocefisso è una scena disturbante ai limiti della
tollerabilità per l’individuo laico ma assolutamente inaccettabile per i
credenti praticanti del tempo. Questo rese L’esorcista un testo eretico
e, quindi, per il tipico pubblico del cinema horror, che da sempre annovera fan
tra adolescenti e giovani, ancora più stuzzicante. Tuttavia sarebbe ingiusto
ritenere che il film di Friedkin sia solo il frutto di scene blasfeme di grande
impatto visivo ben supportate da un sonoro d’eccezione.
L’esorcista è
molto ben costruito e, anzi, raggiunge forse il suo apice in fatto di paura
quando il demone si appresta ad impossessarsi di Regan, con l’autore che
ricorre ai classici trucchi del cinema di genere specifico e lo fa con
grande perizia. Certo, a rendere unico il film sono gli eclatanti passaggi
successivi, ma la loro forza è amplificata dall’innestarsi su un testo che già
si era dimostrato valido a preparare il terreno con gli strumenti abituali del genere.
La costruzione dell’intreccio narrativo, con il ritrovamento della statuetta
del demone Pazuzu e della medaglietta di San Giuseppe in Iraq, è volutamente
abbozzata. Così come la successiva evocazione fortuita da parte di Regan
giocando con una tavoletta Oujia trovata in soffitta in quel di Washington. In
effetti, questa flebile narrazione riesce nell’intento di porci nella stessa ignara
condizione di Chris MacNeil (Ellen Burstyn), madre di Regan, che davvero non si
capacita di cosa stia accadendo alla figlia.
Da un punto di vista simbolico,
l’incipit iracheno, assolato e polveroso, anticipa la presenza di qualcosa di
estraneo al corpo del racconto filmico principale che si svolge nella grigia
capitale americana. Insomma, ci sono molti elementi che concorrono a rendere L’esorcista
il film memorabile che è diventato ma c’è un aspetto che può apparire forse
secondario ma che è però interessante per il valore più generale che potrebbe
avere. Se L’esorcista fu un successo immediato e clamoroso di pubblico,
la critica ebbe nei confronti del capolavoro di Friedkin un approccio non del
tutto omogeneo. Alcuni critici americani, tra cui il regista Joe Dante, furono
positivamente impressionati dal film, mentre altrove ci fu chi non si dichiarò
così convinto della bontà dell’opera, spesso probabilmente per motivi d’opportunità
più che per lacune vere e proprie della stessa.
In Italia, ad esempio, quello
di Friedkin era davvero un testo scomodo. Innanzitutto il soggetto era stato
concepito da un autore cattolico come Blatty ma ben difficilmente poteva
ottenere un qualche riscontro favorevole dagli ambienti clericali, anche
soltanto per l’eccessiva blasfemia delle scene citate. Nonostante in nessun
posto come in Italia la Chiesa Cattolica sia importante, questo risultò un
problema limitato, in sé stesso, perché la critica predominante nel Belpaese
era di inclinazione fortemente progressista. Tra l’altro, si era nei
primi anni Settanta e quindi nel pieno della rivoluzione culturale che trovò
largo seguito anche tra i cinefili di professione. Tuttavia gran parte della
critica fu anche più piccata del mondo cattolico ma lo fu dal contenuto
del film riuscendo senza problemi ad andare oltre alle scene blasfeme:
l’intellighenzia colse appieno il senso che Blatty voleva dare alla sua storia
e che andava contro le imperanti convinzioni sessantottine. Il Male esisteva. Il
che significava che non tutto ciò che di negativo infestava il mondo aveva una
ragione sociale o economica, come invece sembrava essere convinta l’élite
culturale.
Il genere horror, in particolar modo da La notte dei Morti
Viventi (1968, regia di George A. Romero), aveva quasi assunto il ruolo di
bandiera della rivoluzione culturale nel mondo del cinema prestandosi a molte
interpretazioni metaforiche che denunziavano la decadenza del modello borghese.
Anche ad un livello più complessivo, per far questo, si era precedentemente iniziata
un’opera di smantellamento della sovrastruttura culturale legata a vecchi concetti
di cui la religione e i suoi dogmi erano una colonna portante. L’esorcista,
con la sua terrorizzante paura legata al più classico cliché della tradizione,
il Diavolo, scombinava le interpretazioni sociologiche dei critici. E lo faceva
in modo consapevole. Il film ha anche una sponda metalinguistica, infatti,
visto che Chris è un’attrice e uno dei personaggi importanti della storia,
Burke (Jack MacGrowan) è il suo regista. Il film che stanno realizzando, tra
l’altro, verte proprio sulla contestazione giovanile di cui molta critica
cinematografica era figlia. La meschina figura del regista, inquadrato come una
sorta di idiota di idee progressiste, sia per la natura del film che
stava dirigendo ma anche per le offese rivolte al domestico di casa MacGrowan,
che era di madrelingua tedesca e per questo accusato di essere nazista dal
cineasta, è uno dei tre morti del racconto. Ma se il sacrificio dei due
sacerdoti, padre Damien Karras (Jason Miller) e padre Merrin (un monumentale
Max von Sydow) risolve la questione della possessione, la morte di Burke non
porta alcun beneficio.
E anche questo aspetto, per molti appassionati di
critica cinematografica, dovette essere un motivo, forse inconscio, di scarso
gradimento: la salvezza risiedeva negli uomini di chiesa e non in quelli di
cinema. Inoltre, uno dei cavalli di battaglia preferiti dalla critica ma anche
dalla stessa Settima Arte per dare spiegazione ai problemi che
affliggevano i propri personaggi, in particolare i villain, era da anni
la psicanalisi: spesso usata un tanto al chilo, altre volte con più
avvedutezza, in ogni caso il ricorso alla disciplina del dottor Freud era ormai
un vero e proprio topos narrativo del cinema horror e non solo. Una
tendenza attinente alla realtà, questo è fuori dubbio, e che rispondeva alla
chiave interpretativa dell’élite culturale: in fondo la questione sociale
veniva trattata con lo stesso sistema dell’individuo in psicanalisi, cercando
cioè cause nascoste da cui derivavano i malesseri, in questo caso della
comunità. Il fallimento degli ottomila psichiatri, per citare le parole
di Chris, che alla fine suggeriscono loro stessi di convocare un esorcista, è
una mazzata sulle convinzioni della maggior parte dei critici cinematografici.
Quello che Blatty e Friedkin mettono in scena, in effetti, è la contraddizione
di decenni di lavoro atto a smantellare credenze e convinzioni religiose e superstiziose
che, per restare in Italia, ai tempi nemmeno erano state completamente
debellate.
In ogni caso, il soggetto di Blatty sembra avere un conto aperto con
il cinema non riservandogli sostanzialmente mai un trattamento di riguardo. Il
tenente Kinderman (Lee J. Cobb), personaggio sostanzialmente inutile nella
vicenda, insiste nell’invitare al cinema i preti della storia, prima ci prova
con padre Karras e nel finale con padre Dyer (William O’Malley). Questo secondo
scambio di battute costituisce una delle sostanziali differenze tra la versione
di Friedkin (1973) e quella voluta da Blatty (2000). Lo scrittore tenta di
stemperare un po’ l’angoscia e il dubbio che il regista aveva voluto lasciare
aleggianti con il suo ambiguo finale, forse preferibile. Tuttavia non si può
evitare di notare come il film che propone di vedere Kinderman, seppur diverso
nelle varie traduzioni nei differenti paesi, non esista mai nella realtà. Nel
caso italiano, tanto per dire, il presunto film in questione è un improbabile,
oltre che inesistente, Otello con John Wayne e Anita Ekberg.
E dire che
il tenente asserisce di essere un patito di visioni cinefili da commentare poi
approfondendo l’argomento. Certo, una nota scherzosa o poco più, forse nel
tentativo, assai vano, di alleggerire la plumbea atmosfera del lungometraggio.
Ma anche uno sberleffo al tipico approccio critico alla Settima Arte.
Sempre in ottica di rimandi al mondo del cinema, non può nemmeno sfuggire che
per il ruolo di massimo esorcista competente sia chiamato Max von Sydow,
interprete del capolavoro di Ingmar Bergman Il Settimo Sigillo (1957),
dove l’attore svedese se la doveva vedere nientemeno che con la Morte in
persona. Stavolta la partita è con il demone Pazuzu, e il nostro eroe darà un
contributo decisivo pur lasciandoci la pelle: insomma, il cinema, perlomeno
quello prerivoluzionario, ha comunque una sua valenza anche ne L’esorcista.
Ma è un’interpretazione metalinguistica, occorre cioè conoscere la filmografia
di uno degli attori per poterla intendere. Viceversa, alla spietata critica più
generale al mondo dell’arte – la misera figura del regista e anche quella del
suo film, benché appena abbozzato – e della scienza – i medici impotenti e
presi a male parole dalla bambina posseduta prima e, in parte, anche dalla
madre disperata poi – fa da contraltare il ruolo della chiesa, custode della
via verso la salvezza.
Per la verità, il passaggio decisivo lo compie padre
Karras, prete in forte crisi di vocazione e, allo stesso tempo, medico
psichiatra e che risulta essere, quindi, una figura tutto sommato
interlocutoria. Però per riuscire nell’impresa deve ritrovare la fede oltre a
fare una scelta di sacrificio che certo rientra maggiormente nella sua
vocazione religiosa piuttosto che in quella medica. Insomma, il critico medio
italiano si trovava di fronte ad un film che rinnegava la svolta rivoluzionaria
che il cinema horror, consapevolmente dal citato film di Romero del 1968 in poi,
si pensava avesse intrapreso. Il fastidio di fronte alla scomodità di doversi
allineare alla critica cinematografica di orientamento religioso era forse solo
parte del problema. Il tasto dolente è che L’esorcista arrivava e, con
la paura che diffondeva, azzerava tutto il percorso che si poteva credere di
aver già fatto, arrivando a darlo per scontato. Se una banale storia di un
demone, che più o meno altri non era se non un’incarnazione del Diavolo, poteva
farci tanto paura, era inutile cercare di dire che il Male non esisteva e
piuttosto c’era sempre una motivazione sociale dietro il disagio. A questo
proposito, forse serve ricordare che c’è un piccolo dubbio, che il film lascia,
ed è quello legato alla bottiglietta di finta acqua santa con cui padre Karras
ingannava il demone. Cosa poteva significare? Che anche il Male subiva la forza
dell’autosuggestione? Che non c’era alcuna valenza mistico-religiosa nell’acqua
santa, visto che quella normale sortiva un effetto simile? L’esorcista,
anche in forza di questo passaggio ambiguo, non offre una risposta netta.
Quello a cui ci mette di fronte, e che risultò tanto scomodo da accettare, è un
cortocircuito della nostra capacità razionale. Forse il Diavolo non esiste. Ma
la paura del Diavolo eccome.
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