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lunedì 9 marzo 2020

LA PAROLA AI GIURATI

533_LA PAROLA AI GIURATI (12 angry men); Stati Uniti, 1957. Regia di Sidney Lumet.


Folgorante esordio alla regia cinematografica di Sideny Lumet, La parola ai giurati è un avvincente film drammatico in pratica girato interamente all’interno dell’aula dove si riunisce una giuria popolare. Già da questa scelta operata da Lumet, si capisce la saggezza e l’acume dell’autore nato a Filadelfia: il regista è infatti all’esordio sul grande schermo e il numero il relativamente basso di interpreti e l’unità di spazio filmico gli permettono di tenere più agevolmente il controllo della situazione. Al contempo, Lumet, può approfondire le caratteristiche dei vari personaggi a turno, man mano che questi prendono parola, approfittandone per scandire il tempo del racconto, che ne esce infatti serratissimo. Innanzitutto si nota un contrasto figurativo: il film si era aperto sulle maestose e geometriche architetture del tribunale, a mettere in risalto il successivo sviluppo filmico compresso nell’aula dove si ritirano i giurati. Una situazione così statica, i dodici uomini chiusi nella stanza, permette al regista di lavorare con libertà sulle tecniche di ripresa, passando dai grandangoli che inquadrano la stanza e permettono di ambientarci, a riprese sempre più ravvicinate, con i personaggi prima filmati prevalentemente dall’alto, in modo panoramico e poi, al contrario, dal basso, in modo da risultare via via sempre più incombenti sullo schermo. La sensazione che se ne ricava è claustrofobica: impressione accresciuta dal caldo asfissiante di cui soffrono i personaggi nella prima parte e dall’opprimente pioggia nella seconda. 


Questa sensazione che non sembra lasciare via di scampo amplifica ma in un certo senso manifesta quello che dovrebbe essere l’atteggiamento responsabile di un giurato: la decisione che è chiamato a prendere è, infatti, di grande importanza e, di conseguenza, dovrebbe essere vista come una responsabilità e quindi, in senso figurato, come un peso, faticoso da sopportare al punto da essere quasi opprimente. Al contrario, l’atteggiamento di quasi tutti i componenti della giuria all’inizio del film è molto leggero, per non dire superficiale. Il verdetto sembra scontato, nel processo l’imputato è apparso colpevole in modo apparentemente chiaro e, per undici dei dodici membri della giuria, non sembrano esserci dubbi in proposito. 

L’unico a porsi in modo un minimo responsabile è il giurato n.8 (Henry Fonda), ma la sua azione, all’inizio, sembra davvero disperata; invece, dapprima spaccia il suo legittimo dubbio per semplice scrupolo (si può condannare a morte un uomo senza nemmeno discuterne?), ma in seguito dimostra come avesse già per tempo premeditato la sua strategia innocentista (si era preventivamente procurato un coltello uguale all’arma del delitto, che era una delle prove schiaccianti a carico dell’imputato proprio per la sua presunta unicità). La presenza di Henry Fonda (qui anche nelle insolite vesti di produttore), interprete famoso per i suoi ruoli di ferrea moralità, è un forte indizio sulla matrice liberal dell’opera, persino in anticipo sui tempi. E’ quindi abbastanza prevedibile che, nonostante l’impresa sembri ardua, il giurato interpretato da Fonda riuscirà a dar credito al ragionevole dubbio presente nell’accusa all’imputato, meno granitica di quanto potesse sembrare ad un esame superficiale. Da questo punto di vista, possiamo anche interpretare La parola ai giurati come un prodotto figlio del tempo, anzi un precursore di quei moti di rivendicazione dei diritti sociali che investirono in modo generico tutta la società negli anni sessanta, culminando nella rivoluzione sessantottina. 


Ma c’è un aspetto che può essere interessante ancora oggi, ed è il modo in cui opera il giurato n.8 per suffragare la tesi di innocenza: egli, infatti, non manifesta una teoria innocentista vera e propria, ma confuta man mano le varie accuse a carico dell’imputato, demolendo una ad una, tutte le posizioni degli undici giurati inizialmente convinti colpevolisti. E’ naturalmente un comportamento naturale in un ambito giudiziario dove, vigendo la presunzione d’innocenza, è compito dell’accusa dimostrare la colpevolezza dell’imputato; la difesa può giocarsela semplicemente smontando le singole accuse, senza avanzare tesi. Ma, se prendiamo La parola ai giurati come manifesto liberal, possiamo quindi dedurre che il movimento per i diritti civili fosse più che altro uno strumento di critica alle istituzioni, e non un modello sostitutivo delle stesse. In questo senso l’importanza del film può essere oggi ancora più clamorosa: se ne deduce che il movimento politico rivoluzionario è certamente funzionale come critica alle ingiustizie presenti nella società, ma non necessariamente adeguato a ricavarne un modello per aggiornare le coordinate delle nuove istituzioni.
Come invece è sostanzialmente accaduto.  



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