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venerdì 13 marzo 2020

OKINAWA

535_OKINAWA (Halls of Montezuma); Stati Uniti, 1951. Regia di Lewis Milestone.


Il titolo originale di Okinawa, film di Lewis Milestone del 1951, è Hall of Montezuma e fa riferimento alla prima strofa dell’Inno dei Marines, protagonisti dell’opera in questione. E, in effetti, è una scelta anche condivisibile: oltre che per il valore simbolico, anche musicalmente l’Inno dei Marines è uno degli elementi di maggior presa del film. Bisogna dire che la non completa riuscita del film rende, per un volta, l’idea di cambiarne il titolo in favore di Okinawa, non così peregrina: forse solo un po’ più scontata, ma è di quello sbarco di cui si racconta ed è esattamente quello che lo schermo ci propone. Tuttavia il titolo originale evidenzia meglio il tentativo, purtroppo riuscito solo il parte, intrapreso da Milestone: un’opera che sia un vero inno al corpo militare americano per eccellenza e, quindi, in chiave simbolica, valido per tutti i soldati in guerra. L’operazione rimane un po’ sospesa a metà ed è per questo che, alla fine, il riferimento all’inno può risultare un po’ estemporaneo. L’idea di base era però potenzialmente funzionale, essendo quello dei Marines un inno efficace, un inno nel vero senso della parola, ovvero non una mera esaltazione dei valori militari del corpo ma un motivo in grado di suscitare emozioni. Questa attenzione all’aspetto sentimentale del film è un po’ la cifra stilistica ricercata da Milestone ed è particolarmente inusuale in un film bellico dell’immediato dopoguerra. L’intenzione del regista di dare il giusto spazio al lato umano nella sua opera è evidenziata subito da un paio di flashback in avvio, che ci mostrano la vita quotidiana prima dell’arruolamento di alcuni protagonisti della storia. 

Anche tecnicamente, i passaggi tra il flusso degli eventi in contemporanea e i ricordi e viceversa, provano a far vivere allo spettatore il riaffiorare delle immagini in modo naturale e sentito, con il cambio di scena che avviene come d’incanto. In quest’ottica si inserisce la scelta degli attori chiamati ad interpretare i principali protagonisti: oculata e orientata ad avere personaggi che comunichino un certo travaglio interiore. Richard Widmark è il tenente Anderson, nella vita borghese un professore, un uomo duramente provato dall’esperienza di guerra, viste le enormi perdite che, nel tempo, ha subito il suo reparto. Al punto da riuscire ad andare avanti solo con l’aiuto di medicinali. 

Widmark, attore molto bravo, è perfetto per il personaggio buono ma sprovvisto della vera tempra del classico eroe cinematografico: in questo senso l’umanità che riesce a trasmettere ci rende un’idea di quello che poteva significare davvero la guerra. Tra gli interpreti della truppa spicca la presenza di Jack Palance, è il soldato Pigeon Lane: spesso utilizzato per la parte del cattivo, Palance ha certamente un aspetto inquieto e vederlo nei panni di un personaggio positivo ci comunica anche una certa sensazione di sofferenza o disagio. Karl Malden (è Doc) è un altro che interpreta il mestiere di attore con un che di ambiguo. Qui la connotazione è completamente positiva, come intuibile dall’appellativo (in effetti il personaggio è perfino l’addetto a compiti sanitari), ma il tipico sguardo di Malden, in cui brilla una vivacità che non sembra sempre controllabile, non è che lasci proprio tranquilli. 

Ma, del resto, se per l’ufficiale più alto in grado, il tenente colonnello Gilfillan, è stato chiamato quel brutto ceffo di Richard Boone, al suo esordio cinematografico, è chiaro che Milestone non vuole raccontarci una guerra d’eroi. Questo tentativo di farci vivere, insieme a personaggi più umani e realistici, la drammaticità della guerra, fatica però a trovare una forma coerente nel suo complesso. Perché poi il racconto di una vittoria militare finisce comunque per rischiare di sconfinare nella propaganda bellica ma, in questo caso, manca poi il supporto tecnico, a livello narrativo, fornito dalla retorica che, in questi casi, funge da efficace sostegno al racconto avventuroso. Okinawa finisce così per battere un po’ la fiacca, non riuscendo ad approfondire gli spunti intimi e umani intavolati, visto che c’è comunque l’esigenza narrativa di raccontare di un evento bellico, ma nemmeno per questo riuscendo a farsi realmente trasportare dall’enfasi della vittoria. 





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