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venerdì 20 marzo 2020

MOTORPSYCHO!

539_MOTORPSYCHO! ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.

Il precedente lungometraggio di Russ Meyer, Mudhoney, nella sua seconda e definitiva edizione, aveva ottenuto un relativo successo ma aveva al contempo avuto problemi con la censura, per via delle scene di sesso, tanto che ci fu chi lo considerò alla stregua di un film pornografico. Probabilmente questi contrattempi influirono nelle scelte artistiche di Meyer anche se, in quel 1965, il regista dirigerà altri due film, Motorpsycho! e Faster, Pussycat! Kill! Kill! e quindi non deve aver avuto troppo tempo per ponderare a lungo le sue scelte. Chissà che l’evoluzione del suo stile non sia stata anche legata ad una ricerca che soddisfacesse il suo gusto artistico, sebbene è indiscutibile che l’indispensabile riscontro del pubblico, unito alla necessità di scansare le noie della censura, siano state due coordinate certamente privilegiate. In ogni caso, se l’elemento sessuale, in parte aggiunto in un secondo tempo, era stato probabilmente la chiave del parziale successo di Mudhoney, forse in seguito ai problemi che fece scaturire come conseguenza, nel successivo Motorpsycho! Meyer propende per dare meno spazio alle scene piccanti in favore di quelle violente. Memore del tenore eccessivamente opprimente che rischiavano di avere i suoi racconti, che per far funzionare aveva appunto alleviato con le scene spinte, e non volendo stavolta ricorrervi, invece di sollevare il piede dal pedale della violenza, decide di spingerlo ancora più a fondo. L’idea è quella di stilizzare l’uso della violenza con un’ottica tanto eccessiva da sembrare iperrealista. 




E non solo: se in precedenza il quadro morale era ancora ben delineato, in Mudhoney, ad esempio, già solo con l’ambientazione durante la Grande Depressione che con il suo carico di povertà e miseria legittimava, in un certo senso, il diffuso disagio di cui era intrisa la storia, in Motorpsycho! siamo di fronte ad una situazione ben diversa. I tre protagonisti, Brahim (Stephen Oliver), Dante (Joseph Cellini) e Slick (Thomas Scott) sono tre sfaccendati che scorazzano per il contemporaneo southwest americano a bordo di ciclomotori, in cerca di avventure e violenza. Già in questi pochi elementi ci sono alcuni spunti interessanti del film: innanzitutto Motorpycho! anticipa I selvaggi di Roger Corman e Easy Rider di Dennis Hopper, le opere principali nella cosiddetta bikexploitation, la corrente che narrava delle gesta dei centauri degli anni 60/70. 

In realtà Meyer appare quasi più maturo, se così si può dire, dei suoi epigoni, in quanto i suoi motociclisti, che viaggiano in sella a ciclomotori e non a impressionanti chopper, sembrano più caricature che figure mitologiche. In pratica è come se quella di Meyer fosse già la farsa, un’evoluzione che in genere avviene a posteriori, di una corrente cinematografica ancora in divenire. Tuttavia ci sono altri elementi in cui Meyer dimostra di avere una particolare lungimiranza: Brahim, il leader del gruppo oltre quello con i problemi psicologici più seri, è un ex combattente del Vietnam, e anche questo aspetto, il disagio dei veterani della cosiddetta guerra sporca, diverrà un tema diffuso ripreso in moltissime e ben più importanti opere. 

I suoi compagni hanno caratteristiche diverse, ma sempre con rimandi alla realtà: Dante è un edonista che sembra essere rimasto agli anni 50 mentre più contemporaneo all’epoca è Slick, una persona insulsa che sommerge tutto con la musica psichedelica della sua radiolina. Ci sono quindi anche in Motorpsycho! delle giustificazioni sociologiche al disagio alle spalle dei tre protagonisti, ma in apparenza solo il Vietnam per Brahim può essere inteso come una solida fonte di disturbo per l’individuo. In realtà la vacuità di Dante o la superficialità di Slick, che chiama la madre e la rassicura nel bel mezzo delle loro scorrerie, sono indici di problemi sociali più profondi proprio perché apparentemente non hanno motivazioni concrete alle spalle. 

E poi, i motociclisti di Easy Rider potevano vantare, anche solo a livello iconico, l’ambizione ad essere i paladini della libertà contro il conformismo del sistema, in sella alle loro poderose motociclette che ricordavano i cavalli dei cow boys del far west. I tre disagiati di Motorpsycho! sono piuttosto tre balordi che nell’uso del ciclomotore colgono i vantaggi di potersi rapidamente spostare alla ricerca di qualche vittima della loro insensata violenza. Devono andare a Las Vegas, luogo di perdizione per definizione, ma la semplice opportunità di un po’ di divertimento trovato a portata di mano li fa cambiare destinazione. Il caso c’entra, quindi, ma i nostri non vengono indotti in tentazione mentre, per esempio, si recano al lavoro, ma quando sono sulla via per Vegas, la città del vizio: insomma, non hanno alcuna giustificazione. Sulla loro strada i tre baldi giovanotti trovano dapprima una coppia sulle rive di un fiume: l’uomo cerca di difendere la ragazza, ma viene pestato duramente, poi Brahim approfitta della giovane. 



La scena non contiene particolari aspetti piccanti, se non alcune riprese della ragazza in costume due pezzi mentre prende il sole, mentre sul piano della violenza questa è certamente più esplicita sebbene non particolarmente fuori dall’ordinario. Se non per il fatto, comune e ripetuto nel cinema di Russ Meyer, che la violenza viene esercitata sugli uomini e sulle donne allo stesso modo, non c’è infatti alcuna cavalleria nelle scene violente e, anzi, si può scorgere un nesso tra violenza e sesso che quindi finisce per enfatizzare maggiormente gli scontri misti rispetto alle scazzottate virili. Il sadismo degli uomini è evidente mentre per le donne, più che di masochismo, si può notare una spiccata vena esibizionista atta a stimolare e stuzzicare l’altro sesso. Manca, in Motorpsycho!, il fascino per l’uomo violento, che era invece in parte presente in Mudhoney, mentre nel successivo Faster, Pussycat! Kill! Kill! Meyer ribalterà i ruoli sadomasochistici che, in effetti, hanno in genere una funzionalità, diciamo, bidirezionale. 

Questo a testimonianza che non c’è, nel suo intento, una subordinazione della donna all’uomo in senso politico sociale. E’ la semplice costatazione che la violenza è affascinante perché è connessa al sesso e, quindi, si può dire che i cosiddetti due temi del cinema di Russ Meyer del cosiddetto ciclo gotico (da Lorna a Faster, Pussycat! Kill! Kill! ) siano in effetti sovrapponibili. Tornando a Motorpsycho! dopo il citato stupro introduttivo, comune ai due precedenti film, entra in gioco il protagonista morale della storia, Cory Maddox (Alex Rocco) veterinario sposato con Gail (Holle K. Winters). Mentre si reca dall’avvenente Jessica Fannin (l’esuberante Sharon Lee) per visitare la sua giumenta, a casa sua irrompono i tre psicopatici motorizzati. 

Così, in montaggio alternato, assistiamo alla violenza sulla povera Gail, mentre la fedeltà coniugale di Cory è messa a dura prova dalla avances di Jessica; l’uomo, ceduto ad un unico bacio, riesce poi a resistere alla tentazione anche se per farlo deve allontanarsi rapidamente dalla focosa allevatrice di cavalli. La povera Gail non può invece sottrarsi al suo destino e finisce davvero malconcia, tanto che se in un primo momento sembra essere sopravvissuta, poi viene addirittura data per morta. Questa, che sembra essere a tutti gli effetti un’incongruenza della trama, in un certo senso certifica, col suo essere un evento raro in Meyer, la relativa bontà di queste strutture narrative del regista californiano, nel complesso abbastanza plausibili. A questo punto Cory si lancia alla ricerca dei tre balordi, mentre lo sceriffo, interpretato dallo stesso Meyer, appare meno intraprendente. 

Qui c’è forse una divertente dichiarazione programmatica del regista: il suo personaggio, mentre si sofferma a guardare sotto la coperta della povera Gail, (e viene anche sgridato per questo dal medico dell’ambulanza), non pare troppo propenso a mettersi in caccia dei malviventi. Come dire: come già dietro la macchina da presa, anche nelle vesti di attore Meyer è più propenso a contemplare le bellezze femminili piuttosto che imbastire azioni avventurose. Un’altra conferma di questa tendenza metalinguistica del regista in quest’opera l’abbiamo anche dalle parole di Ruby (la conturbante Haji) che, per giustificare la sua storia intrisa di sesso e violenza, rivolta a Cory commenta acida: “che ti aspettavi, la storia di Fanny Hill?”, facendo riferimento al tentativo, fallito, di Meyer di entrare nella Hollywood mainstream (La cugina Fanny, 1964). 

Tornando alla storia, vista l’indolenza dello sceriffo, Cory si mette ad investigare in proprio e sulla pista dei motorpshyco l’uomo incontra così la suddetta Ruby, vittima, insieme all’anziano marito, della furia tre: il vecchio c’è rimasto mentre lei, fortunosamente, l’ha scampata. Nel finale, in uno scontro tipicamente western che rende omaggio all’ambientazione, Cory sconfigge, a suon di dinamite, Brahim e convola a lieto fine con Ruby (con buona pace della moglie Gail che, per altro, a quel punto viene data per morta). Il film pur avendone molte occasioni, nelle scene degli stupri, non indugia particolarmente sulla sponda erotica e anzi, c’è un passaggio emblematico delle scelte del regista. Nel loro inseguimento ai tre folli delinquenti, Cory e Ruby si imbattono in un serpente che morde la gamba dell’uomo. Il momento è drammatico perché, se non viene estratto il veleno rapidamente, per Cory non ci sarà scampo; per questo motivo il morso viene inciso per tempo con il coltello, ma non basta. 

Occorre impedire al veleno di entrare in circolo e così l’uomo intima in modo più che energico alla spaventatissima Ruby di succhiarlo fuori: è una scena violenta nei modi e anche negli evidentissimi rimandi ad un rapporto orale di natura sessuale. Nonostante ciò che viene mostrato sia del tutto giustificato dalla trama, la concitazione dei drammatici momenti è legata alla paura che il veleno faccia effetto, è evidente il gioco che Meyer intesse con il pubblico per aggirare i problemi di censura. Si tratta di un’enfatizzazione di elementi tipici del cinema anche classico, che spesso aveva usato queste metafore visive (tipo un treno che entra in una galleria) per aggirare i problemi della censura. In Motorpsycho! ce n’è uno smaccato esempio quando, durante le scene della violenza su Gail, il montaggio alternato propone la pistola della pompa di benzina che si infila nel serbatoio del furgone di Cory. In questo caso è il classico semplice rimando, quella successiva al morso del serpente è invece un’intera sequenza costruita appositamente alla bisogna. Nella quale, la natura scherzosa di matrice metalinguistica, con regista e spettatori che se la intendono, smorza la violenza insita, che diventa quindi evidentemente doppiamente posticcia, visto che è una finzione nella finzione. E’ in fondo questo il vero passaggio chiave di Motorpsycho!, ovvero quando il regista apre finalmente una strada per comunicare col pubblico aggirando i limiti della censura, non soltanto con qualche sporadico spunto, ma con l’intera sua opera.
Russ Meyer ha finalmente trovato la formula del suo cinema. 


Haji




                     
 Sharon Lee



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