Translate

martedì 2 luglio 2019

IL PAESE DEL SESSO SELVAGGIO

373_IL PAESE DEL SESSO SELVAGGIO . Italia, 1972Regia di Umberto Lenzi.

Col suo cinema, Umberti Lenzi aveva già frequentato l’estremo oriente, nelle sue trasposizioni salgariane, ma l’approccio non era stato niente di particolarmente originale e forse, negli anni settanta, dovette sembragli poco adeguato per essere riproposto. Il cinema di genere italiano aveva subito in quegli anni una robusta sterzata, in sostanza dagli spaghetti western di Sergio Leone in poi, che si era poi diffusa anche nelle correnti d’ambientazione più contemporanea, come i gialli e i polizieschi. Questi due generi sfruttarono infatti in modo egregio la violenza stilizzata introdotta dagli spaghetti-western, portando il thriller all’italiana e il poliziottesco a diventare fenomeni riconosciuti a livello mondiale. Contemporaneamente a questa evoluzione del cinema d’intrattenimento, nel belpaese gli anni sessanta videro l’imprevedibile successo dei mondo-movie che da Mondo cane (1962, di Jacopetti, Cravara e Prosperi) giocarono a carte scoperte sull’idea di sfruttare il compiacimento da parte degli spettatori di fronte alla violenza. Lenzi, sempre alla ricerca dell’idea giusta, mette insieme un po’ di questi elementi e ci ricava Il paese del sesso selvaggio, film in cui, va subito specificato, di sesso selvaggio se ne vedrà poco, ma che verrà in seguito riconosciuto come l’apripista del famigerato genere cannibal. Questa deriva antropofaga nel lungometraggio di Lenzi non è neanche centrale, per la verità; il cannibalismo riguarda sostanzialmente una scena soltanto, dove alcuni indigeni asiatici stanno mangiando una ragazza di una tribù rivale, dopo averne approfittato sessualmente. La scena dura qualche minuto su un totale di un’ora e mezzo, ma tanto bastò ad erigere Il paese del sesso selvaggio a capostipite del genere cannibal
Si tratta però di una nomina ottenuta in seguito, quando il genere venne in parte rivalutato, se non dal punto di vista strettamente cinematografico, perlomeno come fenomeno sociale o di costume. Perché quello di Lenzi non ebbe praticamente seguito in termini di emulazione, sebbene l’intenzione ci fosse; non furono però trovati gli accordi necessari. In ogni caso, il clamore sui film sull’antropofagia esploderà ben cinque anni dopo, con Ruggero Deodato e il suo Ultimo mondo cannibale a cui si successero molti altri titoli, questa volta a stretto giro temporale. E, sebbene il padre del cinema cannibalico sia spesso considerato appunto Deodato, la sua parte di paternità, Lenzi se la merita legittimamente. 

Perché, in effetti, in Il paese del sesso selvaggio ci sono tutti i cliché che diverranno propri del genere: della scena antropofaga si è detto, c’è lo stupro (come presunta usanza tribale, ai danni di una vedova del villaggio), ci sono le scene di violenza truculenta (lingue mozzate, torture varie, tutto opera degli effetti speciali), e, ahimè, c’è anche il tasto dolentissimo di tutti quanti i cannibal movie, ovvero la violenza gratuita, efferata e soprattutto reale, a danno degli animali. 

E’ difficile trovare una giustificazione per un simile fenomeno, che per altro contraddistinguerà a fuoco il genere quasi fosse un titolo di vanto da parte degli autori. Se la condanna non può essere che netta e limpida, si può provare a fare alcune considerazioni, doverosamente a margine dell’assoluta stigmatizzazione della becera pratica. C’era, al tempo, negli anni settanta, ancora diffusissima l’abitudine tra i ragazzini di torturare per divertimento gli animali: uccisioni di insetti, lucertole martoriate, addirittura gatti randagi o semplicemente malcapitati, a cui veniva mozzata la coda. Erano pratiche a cui le bande di giovani e giovanissimi spesso si concedevano senza provare alcun tipo di rimorso: questo humus umano, a cui forse la rivoluzione sessantottina e la successiva controrivoluzione reazionaria, avevano tolto un po’ il morso (parlare di briglia sarebbe troppo gentile), oltretutto immersi nella dilagante violenza sociale distribuita a tutti livelli, costituì il terreno fertile per la diffusione dei cannibal movie. E i motivi che rendevano questi film appetibili agli occhi di questi novelli barbari erano appunto le violenze, e il fatto che fossero ostentatamente realistiche, era davvero un valore aggiunto. 


Questo discorso non vuole in nessun modo alleviare le responsabilità di quegli autori, semmai serve per inquadrarle al meglio: Lenzi, Deodato e company in sostanza alimentarono la barbarie diffusa per un proprio mero tornaconto in termini di consensi al botteghino. In Il paese del sesso selvaggio Lenzi queste cose forse poteva solo immaginarle, essendo in sostanza il capostipite del genere, sebbene avesse ben presente gli esempi dei mondo-movie che sfruttavano proprio l’effetto verità (accertata o solo presunta) delle scene più violente. Anche se come trama ricorda Un uomo chiamato cavallo (di Elliot Silverstein, 1970), il film si inserisce tutto sommato in modo lineare nella tipica produzione italiana del cinema di cassetta: le scene che vedono il protagonista, Bradley (Ivan Rassimov) aggirarsi per Bangkok, in Thailandia, fotografando a destra e a manca, sono girate con sicuro mestiere da Lenzi. La capitale thailandese è diversa da quelle europee tipiche del nostro cinema, per riprendere un concetto espresso proprio da Bradley nel film, ed effettivamente offre scenari forse più pittoreschi o esotici, ma neanche troppo differenti come location cinematografiche. Semmai gli scorci panoramici porgono al regista toscano l’opportunità per distrarre lo spettatore, potendo così organizzare al meglio il fatto cruciale che modifica la storia del nostro protagonista. 


Bradley è accompagnato da una ragazza occidentale, bionda, che viene notata da un ceffo poco raccomandabile della fauna locale; questa questione sentimentale è però trascurata da Lenzi tanto che la giovane sparisce presto dalla scena. In compenso, poco dopo quello stesso uomo ritorna minaccioso brandendo un coltello all’indirizzo di Bradley; dalla colluttazione il thailandese finisce infilzato nella sua stessa lama, mentre il nostro protagonista ne esce col rischio di essere accusato di omicidio. L’escursione per alcune fotografie subacquee lungo il fiume è una buona scusa per levarsi di torno dalla metropoli asiatica. A questo punto il nostro verrà catturato da una tribù di indigeni, prima schiavizzato e poi via via sempre più inserito come membro a tutti gli effetti, anche grazie al rapporto che si istaura con Maraya (Me Me Lay). 
Come si vede niente di straordinario a livello di intreccio narrativo, ma comunque  un canovaccio sufficientemente in grado di reggere il film. Bene, o comunque nella norma, la fase introduttiva, come si è detto; il corpo del lungometraggio è invece un po’ troppo discontinuo. Passaggi efferati, crudeltà gratuite, momenti da fotoromanzo rosa (tra Bradley e Maraya) si alternano ma la storia non è che abbia questo gran ritmo o che appassioni più di tanto, nonostante il commovente finale triste. La malattia e la morte di Maraya lasciano infatti Bradley con l’eredità di un figlio e la volontà di non ritornare alla civiltà. Visto la matrice sotto sotto positiva di questa chiusura, possiamo forse interpretarla come una soluzione per il dilagante re-imbarbarimento dell’uomo moderno, esemplificato nel film dall’atteggiamento genericamente tenuto dal protagonista in principio. Incurante della sorte della compagna di viaggio, alcolizzato, amante della violenza gratuita (la sua eccitazione all’incontro di muay thai, la boxe thailandese): alla fine ritrova una nuova ragion d’essere ed un futuro (il bimbo) tornando alla natura più selvaggia,  nonostante questa sia dominata da regole brutali. Di mestiere ma certamente positiva la colonna sonora opera di Daniele Patucchi: forse finanche eccessiva nel ripetere il tema portante, ma perlomeno svolge la funzione di collante musicale per armonizzare un po’ il tutto. 


A titolo di curiosità, sono interessanti da cogliere i rimandi al cinema di genere nostrano: il protagonista è un fotografo, e veicola l’idea di attendibilità, con un meccanismo narrativo simile ai mondo-movie; la presenza di Rassimov richiama, in qualità di esponente, il thriller all’italiana, oltre ad interpretare lui stesso un personaggio tipico di quei film, immancabile bottiglia di J&B Scotch Whisky al seguito per questa esotica trasferta.
Insomma, per questo Il paese del sesso selvaggio, in onestà il bilancio generale risulta un poco deficitario. E poi, l’idealizzazione eccessivamente ingenua della vita selvaggia dove Bradley sceglie di continuare a vivere, sembra un po’ cercare di rimediare al cinismo con cui si sfrutta il voyeurismo dello spettatore per le ostentate crudeltà, frutto della finzione o realistiche che siano. Ma non è con un lieto fine dal sapore posticcio che si può cancellare la realissima violenza gratuita a danno degli animali.


Me Me Lay




Nessun commento:

Posta un commento