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mercoledì 10 luglio 2019

MANGIATI VIVI!

377_MANGIATI VIVI! Italia, 1980Regia di Umberto Lenzi.

Per i cannibal-movie, il 1980 aveva segnato un passaggio epocale; era chiaro a tutti che dopo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, confrontarsi con il genere sarebbe stato arduo per chiunque. Il film di Deodato è un’opera di grandissimo spessore, discutibile fin che si vuole, ma di struttura elaborata e ben sviluppata, sul piano tecnico davvero ineccepibile. E l’aspetto etico, se poteva benissimo essere contestato, oltretutto, almeno in apparenza, non lasciava molto spazio a chi volesse cimentarsi ancora con un cannibal: cosa si poteva mostrare, dopo le traumatizzanti immagini di Deodato, che mettevano sotto accusa, direttamente o indirettamente fate voi, il cinema cannibal stesso? Da un punto di vista visivo, già sarebbe stato difficile far di meglio (o peggio, a seconda delle opinioni), ma si poteva anche solo provare ad essere ‘credibili’ dopo che Deodato aveva mostrato il suo tragico dietro le quinte? Il cannibal nasceva come filone estremo in un genere, l’horror, già estremo; la continua escalation di violenza, sangue, atrocità, era nel DNA di quel tipo di pellicole. Ma Deodato sembrava essere davvero andato oltre ogni limite. Gli enormi problemi con la censura stavano lì a dimostrarlo. Intendiamoci: qualche guaio con la censura non solo era messo in preventivo dai produttori, ma era probabilmente ricercato, voluto. Un film senza divieti non era certo appetibile dai fruitori del genere cannibal: l’idea dei produttori era arrivare alla discussione con gli organi di censura con un film dove fosse possibile, con qualche taglio preventivato, ottenere un Vietato ai minori di 14 anni

Poi si poteva giocare sull’intuibilità delle atrocità censurate, mantenendo comunque qualche scena forte sullo schermo tale da garantirsi così una vasta platea (compresa quella dei dodici/tredicenni che potevano cimentarsi con l’impresa di aggirare il divieto). Ma il punto era che Cannibal Holocaust, potenzialmente un crack al botteghino (secondo incasso di sempre a Tokyo, dietro al solo a E.T. di Steven Spielberg), in Italia era franato miseramente dopo le beghe giudiziarie che lo avevano coinvolto. Per una situazione tanto delicata, dal punto di vista produttivo, occorreva un regista capace di gestire quello che poteva essere un filone ancora buono, a meno che davvero non fosse stato del tutto bruciato dalle conseguenze del film di Deodato. 

Per sbrogliare questa matassa viene chiamato Umberto Lenzi: regista di valore, grande esperienza in diversi generi del cinema d’intrattenimento, ideatore, tra l’altro, dei cannibal-movie stessi (Il paese del sesso selvaggio, 1972). E bisognoso, in quel frangente, di lavorare. Tutte queste premesse sembrano non essere proprio attinenti a Mangiati vivi!, che Lenzi andrà a girare e, in effetti, non si è ancora affrontato ciò che è impresso sulla pellicola del film in questione. Ma, al netto della curiosità  intrinseca ai vari elementi citati, essi più che altro costituiscono, molto probabilmente, il retroterra su cui poggia l’operazione nel suo complesso: Mangiati vivi! è un buon cannibal, ma si avverte una generale artificiosità, come se fosse un compito da dover assolvere ma nel quale non c’è totale fiducia da parte dell’autore. Si disse che Lenzi lavorò su commissione, ma il regista toscano doveva essere anche abituato, tutto sommato, a simili dinamiche; eppure sembra svolgere il compitino e, se c’è qualcosa di più interessante delle ripetizione dei cliché del genere unita ad una non più che onesta verve della trama, è la indiretta e probabilmente scherzosa polemica artistica con Deodato sugli stilemi narrativi dei cannibal. In sede di analisi, va sempre data però la precedenza alla doverosa quanto ripetitiva denuncia per la odiosa pratica di mostrare violenze gratuite sugli animali veri tipica dei film sui cannibali dell’epoca: anche Mangiati vivi! non fa purtroppo eccezione, e le scene condannabili in questo senso si sprecano. 


Come al solito siamo di fronte ad un dilemma: è opportuno guardare e prendere in considerazione questi film, che si macchiarono di un’abitudine tanto becera? La scelta di ignorarli è forse sempre da tenere in considerazione ma, va riconosciuto che, oltre a connotarsi di questi elementi negativi, il genere portò a galla alcune tendenze che normalmente rimanevano sommerse, magari facendo pericolosamente capolino di quando in quando. E quindi potrebbe anche essere salutare affrontare la questione. Insomma, forse può valere la pena cercare di comprendere un po’ il fenomeno nel suo complesso: ad esempio, quali erano le ragioni dell’enorme successo, come si svilupparono i meccanismi narrativi in un filone completamente nuovo, o come l’industria cinematografica gestì una situazione remunerativa ma certamente spinosa. E poi, onestamente, crudeltà ed efferatezze gratuite a parte, il tema antropofago è affascinante proprio per la sua natura estremamente inquietante e arcaica. Si è detto, in Mangiati vivi! non mancano i passaggi obbligati del genere: violenza realistica sugli animali, combattimenti tra gli stessi con scene tipiche da documentario, sequenze di stupri e di cannibalismo in abbondanza. La storia è imbastita con mestiere da Lenzi ma, come già accennato, se non proprio fiacca, certamente non è troppo trainante. Sotto questo aspetto Lenzi introduce nel genere una novità: Mangiati vivi! è il primo cannibal che si ispira liberamente ad un fatto storico: il suicidio di massa nella Guyana dei seguaci di Jim Jones, a cui è ispirata la figura di Melvyn Jonas (Ivan Rassimov), uno dei personaggi del film. 

La presenza dell’attore di origine serba ci introduce a quella sorta di ipotetica polemica dialettale tra Lenzi e Deodato a proposito del cast: Rassimov, attore di punta dei cannibal, è richiamato in un ruolo importane e significativo (è  appunto il sacerdote di una inquietante setta pseudo-ecologista) dopo che Deodato non l’aveva scritturato per Cannibal Holocaust, il cannibal-movie per eccellenza (non solo come risultato sullo schermo ma anche già concettualmente). Sempre in merito di attori, Lenzi riconosce, in un certo senso, l’importanza del discusso film del collega: protagonista maschile di Mangiati vivi! è proprio quel Robert Kerman che, nel ruolo del professor Monroe, era stato sia il personaggio principale in Cannibal Holocaust, nonché il portavoce sullo schermo dell’accusa al sistema mossa da Deodato con la sua messa in scena. Non manca però, il sagace regista toscano, di metterci una piccola punta di veleno: se nel film di Deodato, Kerman interpretava il ruolo del professore che si batteva per veder cestinati i filmati osceni realizzati da quattro reporter senza scrupoli, nel film di Lenzi l’attore americano interpreta Mark, un avventuriero che passa tutto quanto il lungometraggio a ripetere che lui è mosso unicamente da motivazioni economiche. 
Il che non è del tutto vero, è evidente che il cinismo di Mark sia un po’ di facciata, e inoltre, la compagna di avventura Sheila costituisce una distrazione dall’aspetto remunerativo difficilmente trascurabile. Nel film, la giovane e facoltosa americana è interpretata da Janet Agren, che sfodera una presenza scenica, anche per le frequenti scene di nudo, davvero memorabile. Ma tutto il comparto femminile del cast è un altro fronte sul quale Lenzi si contrappone al modello proposto da Deodato: se questi aveva snobbato questo aspetto, Lenzi rincara la dose in modo sostanziale. 

Al centro della scena un’attrice di grandissimo fascino, che riporta alla mente i fasti delle protagoniste dei thriller all’italiana dei primi anni settanta; genere da cui, proprio Lenzi, in un certo senso, a suo tempo era partito per tracciare le coordinate del capostipite dei cannibal-movie. Accanto alla Agren, figura di spicco in senso assoluto in Mangiati vivi!, addirittura altre due attrici di rango: Paola Senatore (è Diana, sorella di Sheila) che se la cava egregiamente, e Me Me Lay (nei panni, si fa per dire, di Mownara). Quest’ultima era stata la protagonista degli esordi cannibalici sia di Lenzi che di Deodato, sebbene poi quest’ultimo, con Cannibal Holocaust, come detto, aveva limitato la presenza femminile. 


Lenzi, al contrario, su questo aspetto arriva ad abbondare, sia per la presenza di tre importanti personaggi appartenenti all’altra metà del cielo, sia per le scene di sesso o anche solo di nudo. Memorabile quella della Agren con il corpo colorato d’oro, un passaggio che, ovviamente, richiama (almeno) il film Agente 007 – Missione Goldfinger (Di Guy Hamilton, 1964), dove una delle Bond-girl veniva appunto coperta interamente di vernice color oro. Il regista toscano sembra quindi cercare di indirizzare il genere cannibal sui binari dell’avventura di puro intrattenimento, un po’ come avviene per i film di James Bond, alleggerendo i toni che Deodato aveva differentemente incupito. 

In un certo senso si può anche leggere l’intenzione di Lenzi di riallacciarsi a La montagna del dio cannibale di Sergio Martino, film precedente a Cannibal Holocaust, quasi a riprendere il discorso scantonando l’ultimo problematico capitolo del genere cannibalico. I film di Lenzi e di Martino hanno una trama avventurosa molto simile, (una donna alla ricerca di un parente nella giungla), sono interpretati da attrici di primissimo piano (Janet Agren e Ursula Andress), e hanno espliciti rimandi a James Bond (di Mangiati vivi! si è detto, mentre la Andress è stata addirittura una Bond-girl) per svincolarsi un po’ dalla deriva impegnata

La folta presenza femminile nel film di Lenzi è quindi forse un ulteriore elemento in tal senso, visto che nei film dell’agente segreto più famoso al mondo, presi in quest’ottica come riferimento, sono uno degli elementi ricorrenti. Questa presunta (e tutta da dimostrare, ovviamente) polemica sui cliché del genere cinematografico, non è però del tutto campata in aria: i topoi narrativi, nel cinema di genere, e in particolar modo in quello italiano, sono essenziali, fondamentali. La serializzazione di queste produzioni, che avevano nel ritorno economico un obiettivo ancor più imprescindibile del consueto standard, lasciava poche variabili a disposizione degli autori. 

I quali, per poter almeno esprimere in qualche modo la propria cifra autoriale, potevano quindi giocare nell’uso dei cliché, mettendo in campo variazioni o combinazioni di essi che risultassero un minimo originali. In quest’ottica è quasi eccessivo il modo in cui Lenzi ripropone il whisky J&B in Mangiati vivi!: lo scotch dall’etichetta gialla è forse il simbolo per antonomasia dei gialli, i thriller all’italiana dei primi anni settanta. Il regista toscano lo aveva messo ben in evidenza nel capostipite dei cannibal-movie, Il paese del sesso selvaggio, in modo da ascrivere subito il genere cannibalico come discendente del thriller del belpaese. 

Deodato, dal canto suo, lo aveva dapprima sminuito nel suo esordio Ultimo mondo cannibale, per poi eliminarlo quasi del tutto nel film di riferimento del filone, Cannibal Holocaust (se ne intravvede unicamente un camion con la pubblicità). Era anche un modo per chiarire che il linguaggio di quest’ultimo suo discusso film, fosse di un’altra caratura e andasse interpretato in modo più profondo rispetto agli abituali prodotti del cinema italiano di puro intrattenimento. Lenzi, chiamato a mettere una pezza allo sconquasso provocato dal film di Deodato, cerca subito di riportare il genere alle abituali coordinate del cinema di cassetta: quindi non solo il J&B ritorna al centro della scena, ma lo fa in pompa magna, con Robert Kerman (proprio lui, lo stesso protagonista di Cannibal Holocaust) che qui, da mezzo ubriacone qual è, se lo porta sempre con sé nella classica bottiglia che conosciamo bene. Insomma, Lenzi ci prova e, con la qualifica di apripista originale dei cannibal, attraverso il mestiere cerca di rilanciare il genere. E in fondo se la cava: siamo quasi ai titoli di coda, ma il macabro banchetto non è ancora alla frutta. 


Paola Senatore


Me Me Lay




Janet Agren






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