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sabato 6 luglio 2019

LA MONTAGNA DEL DIO CANNIBALE

375_LA MONTAGNA DEL DIO CANNIBALE Italia, 1978Regia di Sergio Martino.

Sulla scia del nuovo genere consacrato da Ultimo mondo cannibale di Ruggero Deodato ma, almeno stando alle parole dello stesso regista, ispirandosi prevalentemente a Le nevi del Chilimangiaro (film del 1952 di Henry King), Sergio Martino fa il suo esordio nei cannibal-movie con La montagna del dio cannibale. Deodato, aveva già provato a perfezionare la nostrana corrente cinematografica dedicata ai cannibali intervenendo sulle coordinate dettate da un altro dei maestri del cinema d’intrattenimento del belpaese, quell’Umberto Lenzi che, con Il paese del sesso selvaggio, aveva dato il via al tutto. Il valente Martino offre il suo importante contributo: innanzitutto perché dal punto di vista del ritmo La montagna del dio cannibale, al netto delle abituali criticità del genere, è un buon film, avvincente ed appassionante. I punti dolenti, che sono i soliti dei cannibal-movie degli anni settanta, sono arcinoti: crudeltà gratuita a danno di animali veri e combattimenti tra gli stessi animali provocati appositamente per avere qualche minuto di violenza naturale da inserire a scopo fintamente documentaristico. Le scene efferate che riguardano gli umani sono invece (e meno male) pura finzione e, quindi, possono essere giudicate anche di cattivo gusto, ma appartengono comunque ad un altro piano del discorso: in qualità di rappresentazione artificiosa della realtà sono a tutti gli effetti cinema d’evasione. Va detto che Martino affronta in modo curioso queste peculiarità del genere: per un’ora gira un film di pura avventura, con qualche eccesso ma niente di trascendentale. Poi, nel finale, che tra l’altro narrativamente è ben costruito e si attende con impazienza, oltre a risolvere la trama scatena anche la violenza più sfrenata, sparge un po’ di crudeltà efferata e si lascia andare anche a scene di sesso che, francamente, lasciano in qualche caso un po’ perplessi (in particolar modo quella tra l’uomo e il suino). 

E’ evidente la volontà del regista di lasciare un’impronta originale: se nel finale Martino ci prova con questi tocchi non proprio d’alta scuola, più interessante il lavoro che il regista nato a Roma fornisce nella corposa prima parte del lungometraggio. In primo luogo va detto che il tenore della pellicola è prevalentemente avventuroso, la matrice horror dei cannibal è in pratica legata solo alle scene coi cannibali, mentre il rapporto con la giungla prevede sì degli spaventi, come le scene del ragno o del serpente, ma latita un po’ l’atmosfera terrorizzante e opprimente della foresta. La giungla presenta difficoltà, (il sentiero impervio, le cascate del fiume, le pareti di roccia da scalare) nasconde pericoli (gli animali, gli indigeni), ma non fa eccessivamente paura in sé stessa, almeno non come in altri film del genere. 

Forse, proprio per evidenziare la natura avventurosa del suo lavoro, Martino chiama una Bond-girl come Ursula Andress: una scelta che marchia a fuoco il lungometraggio, visto la presenza scenica dell’attrice elvetica. La cosa merita una nota perché la presenza femminile di grande fascino non è affatto un elemento scontato nel cinema di genere italiano: ad esempio, nei thriller all’italiana è costante e sempre di alto livello, nei poliziotteschi è invece quasi del tutto assente. 

Per i cannibal-movie la questione non è ancora così chiara: sia Lenzi che Deodato, optando per una scelta esotica, fino ad allora si erano appoggiati alle delicate grazie di Me Me Lay, attrice birmana, brava oltre che bella, ma la Andress è ovviamente di un’altra caratura a livello cinematografico. L’aspetto completamente innovativo, all’interno della specifica corrente, di La montagna del dio cannibale è legato all’uso della colonna sonora: forse in ossequio ai grandi classici dell’avventura di Hollywood, che hanno in genere un tema musicale importante, per il suo film Martino si rivolge ai fratelli De Angelis. Il passaggio musicale principale di La montagna del dio cannibale è eccellente, anche se viene utilizzato in verità con eccessiva parsimonia. 

Lo si sente a corredo dei momenti evocativi del viaggio, per sottolinearne quella che, in un certo senso, può essere intesa come l’epicità dei cannibal-movie: il viaggio di ritorno dell’uomo moderno alle proprie origini. E in La montagna del dio cannibale c’è una sorta di cortocircuito temporale, con la barbarie dell’uomo civilizzato che viene a contatto con quella delle popolazioni primitive, per scoprirsi poi non così differente. 

E va detto che non si tratta di un etichetta di comodo appiccicata in qualche modo per poter giustificare le efferatezze mostrate: quello ecologico è un cardine importante della trama, la presenza dell’uranio porta in dote la questione nucleare e comunque viene esplicitamente fatto notare che uno sfruttamento del giacimento significherebbe la fine delle tribù indigene dell’isola. Oltre all’accusa formulata da padre Moises (Franco Fantasia) all’indirizzo degli esploratori occidentali di aver portato il peccato (l’adulterio, la bramosia) nella piccola comunità indigena. Ma questa consapevolezza da parte degli autori dei cannibal-movie, è anche un’arma a doppio taglio: come si concilia, questa visione ecologica e rispettosa delle culture primitive e della natura, con la preparazione della scena della scimmietta che viene messa vicino ad un pitone e che finisce filmata mentre viene mangiata viva da quest’ultimo? Non è una domanda retorica, ma quella che possiamo leggere nello sguardo disperato del povero primate.




Ursula Andress










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