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martedì 30 luglio 2019

ARDENNE '44, UN INFERNO

387_ARDENNE '44, UN INFERNO (Castle keep). Stati Uniti 1969Regia di Sydney Pollack.

Prima dei titoli di testa, in Ardenne ’44, un inferno, ci sono alcuni fotogrammi, accostati senza un’apparente logica, ma che poi acquisteranno un maggior senso una volta compreso che alcuni di essi appartengono alla proseguo della pellicola. Dapprima c’è un dipinto che raffigura un’antica scena di battaglia, proposto con un montaggio frenetico in alternanza ad alcune immagini del film, che si svolge nella Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di scene di bombardamenti, di grande impatto, esplosioni violente, accompagnate da un sonoro con una musica degna di un film horror; del resto le immagini mostrate sono un vero incubo. Il contrasto è quindi tra l’incubo della guerra moderna, la realistica violenza estrema e distruttiva dei bombardamenti, e la rappresentazione simbolica e un po’ astratta della guerra nell’arte, con il grottesco finale, un gargoyle, a chiudere la sequenza introduttiva. Il regista Sidney Pollack aveva già, con Joe Bass, l’implacabile, provato a rinnovare un genere, in quel caso il western, senza stravolgerlo completamente: il suo film aveva un tono ironico e divertito non propriamente tipico dei classici, ma la pellicola, nel suo insieme, si manteneva comunque nel solco della tradizione se paragonata ai più estremi esempi di western crepuscolari o, peggio (in senso lato) degli spaghetti-western. Un’operazione simile, Pollack prova ad imbastirla per il cinema bellico: il suo è un film surreale, bizzarro, ironico quando non quasi comico, eppure mantiene, per via di alcune caratteristiche, l’aurea di opera in qualche modo ancorata ad una forma classica. 
Sarà la presenza di Burt Lancaster, nei panni del rocciosissimo maggiore Falconer, che funziona alla stesso modo di quel Joe Bass del precedente film di Pollack: è un eroe classico che si comporta ostinatamente come si comportano gli eroi classici. Il regista gioca con la sua ottusità cavalleresca ma, di fatto, costruisce comunque il suo film intorno al più classico degli eroi americani. Un altro topos dei film di guerra è la eterogenea truppa, con i vari personaggi dalle personalità sempre piuttosto marcate: qui c’è Peter Falck nei panni del sergente Rossi che si rimette a fare il fornaio (la sua occupazione da civile) proprio nel mezzo della guerra; Al Freeman Jr. è il soldato Benjamin, che vuole scrivere un libro, la cui funzione è anche di voce narrante del film che, oltre a supportare lo sviluppo della trama, rinfranca il collegamento tra arte e guerra; Patrick O’Neil è il capitano Beckman, grande estimatore d’arte ed in apprensione per le opere e i capolavori artistici del castello dove i soldati americani si attestano; Michael Conrad è DeVaca, il classico sergente americano e così via per il resto della truppa. Il tema artistico, sottolineando il valore dell’arte, si sovrappone a quello bellico, ma più che altro per rendere ancora più devastante, da un punto di vista morale, il bombardamento che va, nel finale del film, a distruggere il castello medioevale e tutti i suoi tesori. 

La distruzione di un simile patrimonio artistico è certamente mostrata in chiara e evidente luce negativa, sia per il suo valore in sé, sia per il simbolico significato dell’arte, che è l’essenza della vita, e quindi distruggere l’arte significa distruggere la vita; e il senso della guerra è sostanzialmente quello. Però, c’è un aspetto da approfondire: nel presentarci i proprietari del castello, Pollack ci propone il conte di Maldorais (Jean-Pierre Aumont) e la favolosa Therese, la contessa (una, a dir poco splendida, Astrid Heeren). L’uomo è un raffinato aristocratico, impotente, che desidera avere un erede; la giovanissima ragazza ne è la nipote e al contempo al moglie. 

E il conte accetta, magari non di buon grado, di vedere la contessa a letto col maggiore Falconer pur di sperare che rimanga in cinta, in modo da vedere sopravvivere la dinastia dei Maldorais. I custodi dell’arte, di quella alta, quella europea rappresentata dal castello, quella legata alla Storia antica della nostra civiltà, nel film sono dei degenerati, a cui serve l’innesto della brutale ma vitale linfa di quella nuova società che arriva dal nuovo mondo. Il cui prodotto artistico, il libro del soldato Benjamin, non è certo paragonabile ai tesori artistici del castello, ma è più attinente all’attualità e, soprattutto, è in grado di sopravvivere alla guerra.

E considerando che la guerra è come un cancro che si sviluppa proprio in quell’Europa tesoro di grande arte e cultura, viene da chiedersi se l’intervento americano, nel film rinforzato da quello del maggiore Falconer nel letto della contessa, non sia da ritenere indispensabile, a fronte di una società corrotta e decadente. A dir la verità, l’imperante vena surreale che scorre lungo la pellicola disperde le eventuali tracce di questo tema in una miriade di avvenimenti, almeno apparentemente, slegati tra loro, lasciando una sensazione di spaesamento nello spettatore. Che forse era anche uno degli stati d’animo che lasciava in eredità la violenza della guerra.

Sia come sia, il film è godibile sebbene la forte vena surreale spiazzi costantemente lo spettatore in modo forse eccessivo. 
Poco male, chi non amasse le storie surreali potrà consolarsi con Astrid Hereen: lei è di una bellezza classica e moderna al tempo stesso; folgorante. 






Astrid Hereen








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