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venerdì 12 luglio 2019

CANNIBAL FEROX

378_CANNIBAL FEROXItalia, 1981Regia di Umberto Lenzi.

Se con Mangiati vivi! Umberto Lenzi aveva provato a tenere in piedi il genere cannibal dopo il trambusto creato dal famigerato Cannibal Holocaust (di Ruggero Deodato, 1980), il regista toscano sembra, soltanto un anno dopo, avere una sorta di ‘crisi di coscienza’. E quindi eccolo mettere la parola fine ad un genere, quello dei cannibal-movie, che aveva incendiato gli anni settanta, assicurandosi una vera schiera di appassionati ma anche un fronte decisamente ostile sul versante istituzionale e del pubblico più tradizionale. Essendo un filmmaker, la ‘fine’ del genere Lenzi la sancisce mediante quello che è il suo lavoro, ovvero ci fa un film. Nello specifico quello che potremmo dire che sia, o almeno programmaticamente sembra, l’ultimo cannibal all’italiana: Cannibal Ferox. E, tanto per non smentire la fama del genere, il film si becca un Vietato ai minori di 14 anni in Italia, mentre all’estero viene proibito in oltre 30 paesi. Del resto l’opera di Lenzi non smentisce, anzi spesso ribadisce in modo plateale, le caratteristiche peculiari del genere, le più note e anche quelle più critiche. Violenza ostentata con compiacimento e crudeltà verso gli animali vivi sono, come è noto, i passaggi più dolenti dei cannibal-movie e non mancano in Cannibal Ferox che anzi, in qualche passaggio, stabilisce dei veri e propri primati. Ma inutile perderci nella descrizione di dettagli di dubbio gusto; se il genere ha dei motivi di interesse, non sono certo questi, che possono semmai essere considerati effetti collaterali che ne sviliscono il valore (vero o presunto che sia). 
Insomma, Lenzi continua il suo rapporto metalinguistico con questo genere, che aveva sostanzialmente lui stesso inaugurato con Il paese del sesso selvaggio (1972) e, dopo le traversie della più controversa corrente del cinema all’italiana, provato a tenere in vita con il citato Mangiati vivi! (1980). Ora, forse colto da un ripensamento, sembra sancirne la fine con Cannibal Ferox. L’impressione che l’autore voglia congedare il genere è forte: la storia raccontata riprende alcuni spunti dei precedenti cannibal, ma il trattamento è superficiale, abbozzato, tirato via. Lenzi lascia subito intendere che qualcosa è cambiato: un segnale scherzoso, in tal senso, potrebbe essere il whisky che i protagonisti bevono e che non è il solito J&B. 

Che storia è mai questa? Lo scotch nella storia non manca, anzi, ma è della marca sbagliata, non è il blended con l’etichetta gialla, quello classico del cinema all’italiana! A meno che forse, il concetto sia che è Cannibal Ferox a non essere un tipico esponente del cinema di genere dello stivale. Dalla storia qualche dubbio in tal merito può venire: troppo approssimativa, in effetti. Tre dei protagonisti, Gloria (Lorraine De Selle), Pat (Zora Kerowa) e Rudy (Danilo Mattei) organizzano una spedizione nella giungla amazzonica per svelare il mistero dei cannibali. Gloria è una studiosa che sostiene che il cannibalismo non sia mai esistito, e con questa missione intende dimostrarlo. 
A precedere questa spedizione, nella giungla troviamo già due poco di buono: Mike (John Morghen) e Joe (Walter Luchini); mentre alla fine, sarà la volta di Myrna (Fiamma Maglione), mettersi alla ricerca dei dispersi. Cannibal Ferox si presenta quindi come una sorta di riassunto delle trame di alcuni precedenti cannibal-movie: ci sono quelli in avanscoperta, la spedizione che ne ripercorre le tracce (anche se involontariamente), e le successive ricerche ai dispersi. Anche la composizione del cast ha il suo peso: sebbene siano quasi tutti attori già attivi nel nostrano cinema di cassetta, potrebbe essere non casuale che il più noto, Robert Kerman, protagonista sia di Cannibal Holocaust che Mangiati vivi!, rimanga fuori dal filone principale della vicenda. 

Tornando al canovaccio, come in tutti i racconti che hanno caratteristiche riassuntive, al film di Lenzi manca il tempo per approfondire meglio i risvolti della trama: i tre giovani arrivano in Amazzonia, Pat si concede un’improbabile scappatella con un imbolsito militare in cambio di una doccia, e poi via, nella giungla. Al primo corso d’acqua un minimo insidioso, il fuoristrada si impantana e viene lasciato sul percorso dai tre ragazzi con eccessiva nonchalance. Poi, dopo un breve cammino, i nostri incontrano un indigeno che sta pranzando a base di larve: a parte il particolare raccapricciante, l’idea è quella di una scampagnata nel parco cittadino, più che nella foresta amazzonica. 
Anche la location non aiuta: è certamente realistica ma, la giungla, al cinema, già anche prima dei cannibal-movie, è sempre stata ripresa conferendogli una certa atmosfera, affascinante e inquietante, quando non direttamente terrorizzante. In Cannibal Ferox no: ci sono grandi spazi aperti, anche perché si è quasi sempre in prossimità di un fiume: il che è sicuramente uno scenario plausibile in Amazzonia e forse anche più realistico di altri, ma l’idea che comunica è di luogo privo di pericolo, di fascino, di intesse. La storia a questo punto ha un’impennata drammatica, con l’incontro tra i tre giovani e i due criminali, e il contemporaneo sopraggiungere dei cannibali. Di fatto la trama non ha uno sviluppo: si apprende sostanzialmente quello che è successo in precedenza, ovvero Mike e Joe hanno torturato e ucciso alcuni membri della tribù di indios che, comprensibilmente, intendono vendicarsi. Qui il riferimento è a Cannibal Holocaust, anche se depotenziato dai rimandi ai media che era proprio del film di Ruggero Deodato: i due criminali da strapazzo del film di Lenzi sono due balordi e non stimati reporter, e la violenza è da loro sparsa, prevalentemente da Mike, senza alcuna motivazione. 


Comunque ora è il turno degli indios: Gloria, che nei suoi studi aveva maturato la convinzione che il cannibalismo non fosse mai esistito, deve convincersi del contrario. Prova però a darsi una spiegazione sulla ferocia degli indios: la loro è una reazione al brutale impatto con i colonizzatori, gente violenta come Mike che semina crudeltà e terrore presso i nativi senza curarsi delle conseguenze. Sembra, in effetti, un punto di vista grosso modo condivisibile e condiviso anche dal regista che, per altro, si premura di sottolineare quanto una certa brutalità sia comunque presente nella cultura primitiva degli indios come un fatto naturale. Ma si tratta di argomentazioni appena accennate, essendo Cannibal Ferox un testo che, se offre qualche spunto di approfondimento, lo fa solo sul versante metalinguistico. In effetti Lenzi rispolvera la prospettiva in parte illuminista che aveva vagamente pervaso il capostipite del genere, il suo Il paese del sesso selvaggio: ma è una falsa pista, non sarà, infatti, il buon selvaggio a salvare Gloria, almeno non del tutto. E’ certamente l’animo buono e generoso di uno degli indios che, prima di morire, permette alla giovane di intraprendere la sua fuga ma la sponda decisiva alla ragazza viene offerta da alcuni bracconieri in caccia di animali selvatici. Il che è un tocco di cinismo tipico di Lenzi e che, nell’ambito dei cannibal-movie, acquista ancora più forza. 
La salvezza della protagonista è dovuta quindi alla sensibilità di questi cacciatori di frodo che, pur deportando fauna selvatica per mero interesse, quando sentono le grida della donna accostano l’imbarcazione mettendo a rischio la loro stessa vita. Per altro Lenzi non evita certo di affrontare il problema della violenza a danno degli animali così comune nei cannibal-movie, anzi. Le crudeltà ci sono e c’è almeno una scena emblematica in questo senso: quella del coati, il procionide che una indigena dona a Gloria a mo' di talismano per preservale la vita. Il piccolo animaletto svolge appieno la funzione narrativa conferitagli da Lenzi, visto che Gloria sarà l’unica a salvarsi, ma il regista opta per una scelta piuttosto discutibile nei suoi riguardi.

Il poverino è tenuto legato, mentre i tre protagonisti dormono nella giungla: arriva un anaconda che si trova giusto il pasto servito di tutto punto. E’ evidente l’intenzione di Lenzi di riprendere un tipico atto violento di madre natura, un classico dei cannibal-movie, ma l’idea di tenere legato il coati è drammaticamente devastante. Da un lato, enfatizza la tragicità della situazione, perché mette il debole in condizione di ulteriore debolezza al cospetto del forte, con la piena consapevolezza di non avere alcuno scampo già al momento dell’arrivo del serpente. 
Le grida disperate del piccolo animale sono forse l’apice eticamente negativo dei cannibal-movie, uno dei poco illustri primati di cui si accennava. Pur giustificandolo a livello narrativo, l’animale è legato dai giovani per non farlo scappare, con questa traumatizzante scena Lenzi confeziona un paragone che mette spalle al muro la società occidentale, di cui il cinema è uno degli aspetti collettivi più importanti. Assistiamo infatti ad una sorta di rito sacrificale messo in piedi per garantirsi il consenso dei fan dei cannibal, neanche troppo diverso da quello dei popoli primitivi. E’ una prospettiva difficile da accettare, la critica ad un sistema facendo uso degli stessi metodi che si criticano nel sistema stesso, ma Lenzi, rispetto a Deodato, che di questa pratica con Cannibal Holocaust ci aveva fatto un manifesto, si spoglia di ogni ipocrisia. Il coati è legato e messo dalla troupe alla mercé dell’anaconda. Non valgono, quindi, in nessun modo, nemmeno le parole di Sergio Martino, che raccontava di come la scimmietta fosse stata mangiata viva (e opportunamente ripresa dalla mdp) dal pitone ‘per errore’ , per eccesso di foga del predatore, (La montagna del dio cannibale, 1977). 
No, Lenzi lega il coati e aspetta l’anaconda e così ci mostra esattamente cosa accade in un cannibal-movie: gli animali sono sacrificati al dio del cinema cannibale. Senza alcuno scrupolo morale (o almeno senza che questi scrupoli, se mai ci fossero, abbiano avuto un riscontro reale). Metacinema, anche più di Cannibal Holocaust. Nel finale, Gloria, presenta il suo studio, che significativamente si intitola Cannibalismo, fine di un mito: non rivelerà, infatti, alla comunità scientifica che in Amazzonia ha trovato i cannibali. Preferisce tacere questo aspetto, anche perché le cose peggiori a cui ha assistito le hanno commesse i bianchi. Scelta condivisibile, ma in realtà più che questo passaggio, c’è un'altra cosa che salta subito all’occhio. Il suo testo ha un titolo che si presta benissimo ad essere esteso, per assonanza e per destino, al genere in questione: Cannibal-movie, fine di un mito.


Lorraine De Selle





Zora Kerowa






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