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martedì 13 ottobre 2020

IL SENTIERO DELLA VIOLENZA

649_IL SENTIERO DELLA VIOLENZA (Gunman's Walk). Stati Uniti, 1958. Regia di Phil Karlson.

Spesso vengono imputati limiti a categorie di film che sono però caratteristiche intrinseche di questi prodotti, più che lacune vere e proprie. Ad esempio, in opere come Il sentiero della violenza di Phil Karlson, si potrebbe ravvisare una mancanza di sviluppo delle psicologie dei personaggi. E’ una caratteristica comune a molti B-movie, opere dignitose che non hanno però le pretese di imbastire complesse dinamiche tra le figure dei protagonisti. Non è che si debba far diventare un merito quello che è, a tutti gli effetti, obiettivamente un limite delle storie raccontate in questi film; ma la funzione di questi prodotti di largo consumo, quali sono i film di serie-B in senso cinematografico, è di affrontare temi generali; semplici, forse, ma non meno necessari di altri più complessi, anzi. Ne Il sentiero della violenza sul tappeto vengono messi alcuni problemi che la brusca conquista dell’ovest ha lasciato in eredità alla nascente società americana: il razzismo, l’uso quotidiano della violenza e la mancanza di senso civico (fare cioè riferimento alle leggi vigenti per trarne modi di comportamento a cui attenersi). Sono temi cardinali e quindi una maggiore articolazione psicologica degli interpreti della vicenda raccontata potrebbe distrarre il pubblico a cui si rivolge il film. Essendo una produzione minore, di serie-B appunto, di genere, è facile che il pubblico interessato a Il sentiero della violenza lo sia per meri motivi di svago: divertirsi guardando un’ora e mezzo di scene western a suon di revolverate e cavalli al galoppo. 

Il cinema, anche il cinema di serie-B, quando fatto bene, approfitta degli spazi concessi dalla situazione contingente per svolgere la sua funzione artistica, che non è un mero trastullo per passare il tempo ma una forma, tra le più alte, di comunicazione, di condivisione, di partecipazione. Nel cinema di genere occorre ottimizzare i tempi, perché dalla produzione (che mira a recuperare gli investimenti) allo spettatore (che vuole coscientemente solo divertirsi) lo spazio concesso alle ambizioni artistiche è poco. Per questo, a volte, i B-movie sono capolavori di essenzialità: forse non è proprio il caso de Il sentiero della violenza, che capolavoro probabilmente non è; ma quello di Karlson è perlomeno un film valido. La storia è ambientata sul finire dei tempi del Far West, e già in questa scelta il regista si dimostra lungimirante. 

Nel 1958 si era ancora in piena epoca classica del cinema western ma confrontarsi con John Ford e autori simili voleva dire uscirne con le ossa rotte o quantomeno svilito. L’idea di raccontare delle ultime fasi dell’epopea anticipa quelle intuizioni che avranno in seguito il cinema western crepuscolare o anche gli spaghetti western. Al centro della scena c’è la famiglia Hackett: il padre-padrone Larry (Van Heflin) e i suoi figli Ed (Tab Hunter) e Davy (James Darren). Non ci sono donne, in famiglia, e non viene specificato il perché; anzi, in tutto il film c’è solo una presenza femminile, Clee (Kathryn Grant), ragazza giovane e carina che flirta con il figlio minore di casa Hackett. Il tema principale dell’opera è la violenza, l’unico sistema educativo conosciuto da Larry che lo ha trasmesso con successo ad Ed, mentre il più giovane Davy ne è rimasto meno influenzato. Nell’assenza di una figura femminile nella famiglia Hackett ci si può leggere una critica alla cultura violenta di stampo prettamente maschile che ha dominato la scena nel Far West. Di qui l’estensione dell’accusa agli interi Stati Uniti è un attimo, visto che, nel cinema western, la frontiera è presa a modello dell’intera America. 


A rappresentare le varie anime del paese ci sono i personaggi del film, tratteggiati in modo secco e non troppo approfondito da un punto di vista di sviluppo psicologico ma, si diceva, i film di serie-B hanno in genere questa stilizzazione di fondo. Se Larry è comunque un personaggio tagliato con l’accetta, Van Heflin è molto bravo a sfumare certe situazioni con una sorta di ironia paternalistica molto credibile. Da parte sua Tab Hunter interpreta bene il figlio cattivo, laddove Ed è una figura negativa per ignoranza, stupidità e ottusità più che per malvagità vera e propria. E queste caratteristiche così negative che spiccano nella sua personalità sono il frutto della mancanza di amore e comprensione (vedi l’assenza della madre) e il risultato della competitività perpetua a cui lo sottopone il padre. In questo senso vi è quindi un’altra critica al sistema americano: la lotta per emergere è infatti uno dei dogmi della cultura yankee, perfettamente incarnato nella figura di Larry, vero è proprio self-made man. Non a caso l’uomo si fa chiamare dai figli per nome e non papà; ai due ragazzi, nell’idea di farsi considerare alla loro stregua, vuole lanciare la sfida per poterli poi battere sempre e comunque, ribadendo la propria superiorità in ogni occasione. 

La criticità che Karlson rileva è che non si può educare nessuno in quest’ottica, perché manca il principio di condivisione, di collaborazione, di aiuto, e il risultato ideale di questo processo è proprio Ed. La figura dell’altro figlio appare meno incisiva, anche perché James Darren è un attore di impatto inferiore rispetto a Tab Hunter (e ovviamente anche di Van Heflin). Il suo Davy è un personaggio discreto, ma lo è comprensibilmente: del resto l’uomo di buon senso non è certo l’ideale protagonista di un western. Ad esempio, se gli si chiede di girare disarmato per la città, egli lascia le armi, eliminando i possibili tipici sviluppi di questo genere di storie. Interessante però è la sua storia con Clee, che è una ragazza meticcia, in parte bianca e in parte indiana. 

Nel film ci sono anche due nativi americani, che hanno un ruolo un po’ marginale: sono disprezzati o mal tollerati dalla comunità, ma mai quanto i meticci. Verso i quali c’è una pesante insofferenza, almeno da parte di alcuni dei personaggi: quando viene ucciso (da Ed) il fratello di Clee, si fa effettivamente il processo, ma appare chiaro che, se i due indiani chiamati a testimoniare contano meno di un falso testimone bianco, il fatto di essere meticcio ponga l’uomo assassinato ad un livello ancora minore. Il regista è però consapevole del ruolo educativo, sebbene in modo indiretto, del cinema di serie-B e non è certo un caso se l’unica ragazza della storia, per giunta carina, è una mezzosangue. Il concetto è che si potrà raggiungere la felicità, l’happy ending, soltanto accettando il diverso, meglio ancora, mescolandosi (il sangue misto di Clee) con esso. E la scena finale, dove persino Larry accetta la ragazza come possibile nuora, è uno sguardo di speranza che è anche uno sprone. Se ci è riuscito un osso tosto come il vecchio, allora cambiare è davvero possibile.

Kathryn Grant







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