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lunedì 6 febbraio 2023

1997: FUGA DA NEW YORK

1217_1997: FUGA DA NEW YORK (Escape from New York)Stati Uniti, 1981; Regia di John Carpenter.

Tra il 1978 e il 1980 John Carpenter dirige Halloween – La notte delle streghe (1978) e Fog (1980) per il cinema e Pericolo in agguato (1978) e Elvis il re del rock (1979) per la televisione: ha la mano caldissima. Visto il positivo riscontro di pubblico, la Avco Embassy, lo studio che aveva prodotto Fog, chiede a Carpenter un altro film e il regista americano decide di mettere mano ad un vecchio soggetto a suo tempo pensato per Clint Eastwood: 1997 Fuga da New York. Come detto Carpenter a quel tempo è in formissima oltre ad avere guadagnato la stima e la considerazione dell’ambiente. Per capirci: per Halloween – La notte delle streghe Carpenter ebbe a disposizione un budget di 325.000 dollari, per 1997 Fuga da New York 6 milioni. Il film, questo va messo a referto prima di ogni altra cosa, è un assoluto capolavoro frutto di abilità singole, collettive e congiunzioni astrali. A concorrere alla riuscita dell’opera e alla sua capacità di ergersi a icona simbolo di un genere e di un periodo in modo quasi sfacciato, va quindi considerata la capacità di Carpenter di fare tesoro delle proprie esperienze. Il successo planetario e clamoroso arrivò inaspettato per Halloween – La notte delle streghe dopo che il valido esordio Dark Star (1974) era stato ignorato e la stessa sorte era capitata inspiegabilmente al successivo Distretto 13 – Le Brigate della Morte (1976). Dopo la fortunata svolta con protagonista Michael Myers, come detto Carpenter aveva lavorato ad un paio di lungometraggi televisivi, Pericolo in agguato e Elvis il re del rock, nei quali, dovendo farne a meno, si era reso conto di quanto fosse importante la propria abituale squadra di lavoro. 

Fog, il seguente ritorno al grande schermo, segnerà un clamoroso successo ma è interessante notare che “sul banco del montaggio, Fog subisce un radicale cambiamento voluto da John Carpenter” [Il Cinema di John Carpenter, G. Salza e C. Scarrone, Fanucci Editore, 1985, pagina 103, e per stessa ammissione del regista, come si può leggere a pag. 33 del libro-intervista John Carpenter di G. D’Agnolo Vallan e R.Turigliatto, Lindau]. Il regista americano, in quel preciso momento, sa cosa rende un film un successo; molto probabilmente non in modo del tutto consapevole, ma la sua sensibilità artistica sa esattamente cosa fare. Questo ipotetico aspetto della non completa coscienza della propria poetica è interessante perché permette di intuire parte della grandezza di 1997: Fuga da New York. Sempre nell’intervista contenuta nel volume Lindau possiamo apprendere che il regista non si capacitava degli aspetti che gli spettatori trovavano in Halloween – La notte delle streghe. A pagina 31 Carpenter dice: “La gente mi trattava come se sapessi qualcosa che in realtà non sapevo […] Il film aveva assunto una vita tutta sua, indipendente da me.” Sempre usando questa intervista a mo’ di strumento per comprendere meglio alcune dinamiche che stanno intorno a 1997: Fuga da New York non può non sorprendere che il film in questione venga saltato: le domande sono poste un po’ a ruota libera su base cronologica, per cui potrebbe essere un caso, è vero. 

Ma 1997: Fuga da New York è forse il film più celebre di Carpenter, al massimo il secondo dietro Halloween – La notte delle streghe, impossibile non farne parola quando si stanno rievocando i primi anni Ottanta del regista. In ogni caso, pagine e pagine dopo (pag.55), quando si arriva a Fuga da Los Angeles, gli intervistatori si rendono conto che non hanno ancora parlato del primo capitolo della saga, quello appunto ambientato a New York. Carpenter è abbastanza sbrigativo a questo proposito virando presto su Fuga da Los Angeles, per il quale spende parole migliori. Al netto dei gusti, qualunque criterio di valutazione oggettivo (incassi, recensioni) predilige, e di molto, il capostipite al remake/sequel del 1996. Forse, proprio con il fenomeno descritto dallo stesso regista per Halloween – La notte delle streghe, il primo film con Jena Plissken ha assunto una sua propria autonomia, un significato non del tutto conosciuto, almeno a livello consapevole, dallo stesso Carpenter. E per quanto a posteriori se ne possa dire freddo e indifferente 1997 Fuga da New York è la perfetta sintesi della sua poetica. Frutto di una serie di circostanze fortunate, forse, o di un’alchimia di cui l’autore non è del tutto cosciente – chissà – comunque è chiaro che per comprendere il film in questione il suo realizzarsi è forse più utile che non il risultato, perfino troppo disarmante nella sua semplice efficacia. Radunato il proprio staff di collaboratori, a partire da Debra Hill come produttrice, vengono inoltre ingaggiati i migliori tecnici in circolazione: l’art directors a cui dobbiamo l’aspetto visivo del film è Joe Alves, mentre per girare costantemente in condizioni di buio Dean Cundey utilizza lenti Ultra Speed Panatar. Roy Arogast è un altro nome eccellente per gli effetti meccanici mentre pare che negli effetti visivi fosse coinvolto anche James Cameron. Non si tratta di fare un elenco di nomi ma di rendere merito ad uno stuolo di persone la cui collaborazione, abilmente orchestrata da Carpenter, ha permesso all’opera di girare come il meccanismo di un orologio. 

E i nomi sarebbero tanti e, si possono ricordare ancora almeno Nick Castle, all’opera insieme a Carpenter a soggetto e sceneggiatura, e Larry J. Franco in produzione e regista della seconda unità. Un discorso a parte merita la musica, scritta dallo stesso Carpenter e di cui il regista conosceva l’estrema importanza per il successo di un film; ad assisterlo, chiama Alan Howarth per un risultato semplice, quasi ossessivo e quanto mai efficace. Anche il cast è composto da attori in molti casi già diretti dall’autore americano, tra questi: Kurt Russell è Jena Plissken (Snake, nell’originale americano), Donald Pleasence è il Presidente degli Stati Uniti, Adrienne Barbeau è Maggie, Frank Doubleday è Romero, Tom Atkins è Rehme. Lee Van Cleef (è Hauk), Ernest Borgnine (è il Tassista) e Harry Dean Stanton (è Mente) sono invece palesi legami con il cinema a cui Carpenter fa riferimento in 1997 Fuga da New York. Sia Van Cleef che Borgnine erano stati in grado di interpretare sontuosamente sia i western classici che le derive successive più decadenti pur non limitandosi certo solo a quel genere.  

Stanton era anch’egli un caratterista eccezionale e guardando la sua filmografia si rimane esterrefatti sebbene raramente gli sia stato riconosciuto il giusto merito. Preparato gli eccezionali ingredienti, Carpenter non si avventura in qualcosa di troppo originale, semplicemente cristallizza in un’opera una serie di spunti che già aleggiano nell’aria. Ad esempio, il debito di 1997 Fuga da New York verso I guerrieri della notte (1979) è evidente ma Carpenter enfatizza la situazione di degrado descritta da Walter Hill ambientando il suo film in un futuro prossimo in modo da avere mano libera. Un po’ come aveva fatto George Miller per Mad Max – Interceptor (1979), tanto per capirci. Da parte sua il regista ribalta il concetto a cui era particolarmente legato del Male che assedia dall’esterno per raccontare di una società nella quale il Male è talmente ben radicato da poter essere efficacemente rappresentato dalla Manhattan trasformata in carcere di sicurezza che vediamo nel film. L’idea del tempo che incalza ma può anche essere dilatato dalla regia, nella scena della resa dei conti finale, è uno stratagemma narrativo che non da alcuno scampo allo spettatore, costretto come Plissken a non mollare mai la presa. Il carisma di Russel e le celeberrime battute del suo personaggio finiscono l’opera: 1997: Fuga da New York è un vero e assoluto capolavoro, un film al tempo stesso semplice ed epocale, e non poteva essere altrimenti. Ad essere del tutto onesti, oggi, oltre trent’anni dopo, guardandolo, si può forse scorgere qualcosa appena dopo il limite che il film raggiunge e sancisce, il limite del sublime. Quel limite oltre il quale si sfiora il ridicolo. Ma perché mai dovremmo farlo?   


Adrienne Barbeau 





Season Hubley 


Galleria di manifesti 







sabato 4 febbraio 2023

GIUNGLA D'ASFALTO

1216_GIUNGLA D'ASFALTO (The Asphalt Jungle)Stati Uniti, 1950; Regia di John Huston.

Riconosciuto universalmente come capolavoro, Giungla d’asfalto di John Huston è un film effettivamente eccellente. In prima istanza c’è probabilmente lo sguardo sul mondo criminale che al tempo era di una modernità illuminante: “il delitto non è che uno degli aspetti della lotta per la vita”, sono parole dell’avvocato Emmerich (Louis Calhern), uno dei personaggi del film. E non uno qualunque: l’avvocato è l’elemento di congiunzione, o almeno il più illustre, tra la società civile e quella criminale. E’ una funzione simbolica: W.R. Burnett, autore del romanzo preso a soggetto, e Huston vogliono un personaggio emblematico che rappresenti quanto è corrotta la società nel suo insieme. Del resto c’è almeno un'altra figura che mette in connessione le due presunte anime della città, quella legale e quella criminale, ed è il tenente Ditrich (Barry Kelley). Ditrich è il primo poliziotto che vediamo all’opera e nella successiva scena, quando è chiamato a rapporto dal commissario Hardy (un grande John McIntire), lo sguardo di Huston sembra solidarizzare nettamente con lui. Da questo incipit, sembrerebbe proprio lui il riferimento legale del film; in realtà è un poliziotto corrotto, in combutta con l’allibratore disonesto Cobby (Marc Lawrence). Quel ruolo di tutore della legalità è invece destinato al commissario, personaggio che non sprizza certo simpatia e che, nel finale, ci rifila un pistolotto morale con cui Huston cerca di evitarsi rogne da parte della censura dell’allora agguerritissimo senatore McCarthy e della sua caccia alle streghe comuniste. Ma i veri protagonisti del film sono loro, i criminali che Burnett e Huston descrivono con attenzione: persone vere, vive, umane, anche; sebbene di un’umanità dura che non si concede troppo facilmente a sentimenti teneri. 

Certo, c’è l’amicizia tra il barista gobbo Giulio e il gangster da quattro soldi Dick, interpretati da James Whitmore e Sterling Hayden, una coppia di attori che sfoderano un’interpretazione superlativa che è uno dei punti di forza del film. Ma notevole anche Sam Jaffe nei panni del Dottor Riedenschneider, ex detenuto che, durante il soggiorno al fresco, ha preparato il piano per la rapina del secolo e, una volta uscito, non vede l’ora di metterlo in atto. La rapina – ad una gioielleria, in questo caso – è il tema portante dell’opera e lo è in un modo che farà scuola tanto da divenire il riferimento costante per un sacco di film, basti citare Rapina a mano armata (1956, regia di Stanley Kubrick) dove ritroviamo Hayden e i suoi amati cavalli come evidente tributo a Giungla d’asfalto. La rapina è vista sì come un gesto criminale, e ad esso si collega il fato avverso che aleggia sin dal principio sull’operazione, ma è trattata dal film come una normale attività professionale. 

La forza nel racconto si fonda sui personaggi che si costituiscono squadra, le loro simpatie reciproche – l’amicizia tra Giulio e Dick, oppure la stima istintiva del dottore per lo stesso Dick – e i rapporti di sopportazione per necessità – l’opinione che ha Ciavelli (Anthony Caruso) di Dick o quella non dissimile che Dick ha nei confronti di Cobby. Come si può intuire Dick tiene un po’ il centro della scena, essendo Hayden l’unico da avere il physique du role adatto nel cast, e anche il rapporto che ha con la sua donna sottolinea la mancanza di affetto – amore è una parola totalmente fuori luogo in Giungla d’asfalto – che permea la storia. La povera Olga (una brava Jean Hagen) è bistrattata quasi inavvertitamente da Dick che è effettivamente un buzzurro ma lo è in modo genuino, senza malizia. E anche l’innocenza della ragazza, che fa capolino goffamente tra le ciglia finte che si staccano o le sigarette sgualcite che prova a fumare, è un originale ed efficace mix – per niente armonico ma onesto e sincero proprio per quello – tra prostituta da night club e premurosa casalinga. Quando poi scatta l’azione, il film quasi sospende il fiato, e in questa capacità di modulare il ritmo narrativo risiede la magia che fa di Huston un vero maestro di cinema. Ma questa è Storia del Cinema, risaputa e riconosciuta a cominciare dalla corrente dei caper movie – i film che raccontano di colpi criminali – che mette Giungla d’asfalto sempre in cima alla lista dei riferimenti. Altresì lo sguardo cinico, tipico di Huston, che pervade l’opera e descrive la tipica città americana ormai disumanizzata, corrotta ad ogni livello e assimilabile ad una giungla urbana, è evidente e noto. Un aspetto che resiste ancora con forza è l’assenza del quadro morale – al netto del sermone finale del commissario Hardy – certificato dalla simpatia per i criminali e in particolare per Dick, nonché dalla fine tutto sommato poetica che la storia gli riserva. Ma forse l’elemento più interessante è di natura metalinguistica e riguarda appunto il cinema, anche se, in America più che altrove, questo potrebbe significare molto anche nella società reale. In Giungla d’asfalto abbiamo una serie di personaggi tipici del noir americano: semplici uomini, al massimo bravi professionisti e niente più. 

C’è però una figura, quella del dottor Riedenschneider, che, con la sua mente superiore e la sua origine tedesca, sembra quasi provenire dai capolavori dell’espressionismo tedesco (per dire, potrebbe essere un emulo del Dottor Mabuse di Fritz Lang) o forse dai crime movie americani degli anni 30. Quelli con James Cagney o Edward G. Robinson, per intenderci: Doc Riedenschneider è certamente più mite anche di questi ma ha lo stesso carisma e la stessa leadership, cosa sconosciuta ai proletari che compongono la sua banda in Giungla d’asfalto. La rovina del dottor Riedenschneider sarà la passione per le donne, nel passaggio in questione condita dalla musica rock’n’roll: è il fato, d’accordo, ma i due sbirri lo prendono perché si ferma giusto un giro di Juke Box di troppo a guardare la ragazza ballare. Sono gli anni Cinquanta, appena iniziati, e Huston non sembra poi così avaro di morale, adesso. Ma si è detto, il suo sguardo è del tutto asciutto in tal senso. Anche perché, sebbene possa sembrare strano, il vero mentore di Giungla d’asfalto, quello che ne incarna pienamente lo spirito, è il personaggio le cui parole abbiamo citato in apertura. E’ l’avvocato Emmerich la voce della verità. Quella stessa voce che dà il giudizio finale sulla prorompente figura che, in questo specifico film rimane un po’ defilata ma, di lì a poco, sbaraglierà tutti quanti. E poi, anche qui, Marilyn Monroe ha un ruolo marginale ma decisivo: è per soddisfare i capricci di Angela, il suo personaggio, che Emmerich si rovina. E sarà proprio la condizione economica precaria ad indurre l’avvocato a rischiare il tutto per tutto assumendosi, virtualmente, i costi per preparate la rapina convincendo Cobby ad anticipare il grano necessario. E’ quindi Angela il vero motore che fa partire il meccanismo che manda all’aria tutto quanto. Compreso il suo viaggetto a Cuba, è vero. Ma, come dice appunto ancora Emmerich, di viaggi, Marylin, ne farà ancora tanti. Gli anni Cinquanta sono appena iniziati e l’era atomica – nei due sensi in cui è interpretabile il termine – è appena agli inizi. Che sia morale o meno, lo sguardo di Huston sembra dirci che il destino è comunque segnato: è nata una stella, fatevene una ragione.







 Marilyn Monroe 












Jean Hagen 


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giovedì 2 febbraio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: IL SOGNO DELL'ALTRO

1215_I GIOCHI DEL DIAVOLO: IL SOGNO DELL'ALTRO Italia, 1981; Regia di Giovanna Gagliardo.

Si chiude mestamente il ciclo I Giochi del Diavolo – Storie fantastiche dell’Ottocento, una serie di sceneggiati Rai, confermando la crisi resa manifesta dai precedenti capitoli. Alla televisione di stato, evidentemente, stavano cercando nuove soluzioni per aggiornare le classiche produzioni televisive che tanto bene avevano fatto nei due decenni precedenti. Il bilancio riferito a questa miniserie non può che essere almeno sufficiente per i primi tre film, quelli che avevano a disposizione mezzi cinematografici, mentre completamente negativo per gli ultimi tre. Probabilmente questo Il sogno dell’altro, tratto da un racconto di H.G. Wells (The Story of the Late Mr. Elvesham) è meno peggio di La mano indemoniata di Marcello Aliprandi e Il Diavolo nella bottiglia di Tomaso Sherman, ma la sostanza cambia poco. Così, a prima vista, il lavoro di Giovanna Gagliardo sembra davvero migliore, non fosse per qualche scelta figurativa che stimola la curiosità: l’incipit sembra un dipinto espressionista, un primo Claude Monet e la cosa può essere interessante visto che la serie si prende il compito di riproporre storie dell'Ottocento e la corrente pittorica in questione ne fu uno degli aspetti più significativi. Belli ma, se questa fosse l’ottica, un po’ fini a sé stessi i successivi rimandi di matrice pittorica con la tromba delle scale che rievoca il labirinto di Maurits Cornelis Escher e il cielo con le nuvole che è un palese tributo all’arte di René Magritte. Escher e Magritte sono due capisaldi dell’arte del 1900 e quindi non precisamente utili per creare le suggestioni del secolo precedente. Ma forse è un tentativo di mischiare le carte, peraltro dal sapore un po’ estemporaneo. In ogni caso, una deprimente delusione è la banalissima scelta della Gagliardo di ricorrere incessantemente alla voce narrante per risolvere tutti gli snodi narrativi. Il soporifero risultato sembra il tentativo di rivestire con patina sofisticata e snob una concreta incapacità di tradurre il racconto in immagini. Buonanotte.   



mercoledì 1 febbraio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: IL DIAVOLO NELLA BOTTIGLIA

1214_I GIOCHI DEL DIAVOLO: IL DIAVOLO NELLA BOTTIGLIA Italia, 1981; Regia di Tomaso Sherman.

Suo malgrado, il ciclo Rai I Giochi del Diavolo, Storie fantastiche dell’Ottocento sarebbe passato alla Storia della televisione come una prima resa qualitativa della rete nazionale nell’ambito dei film per il piccolo schermo. Con una certa dose di consapevolezza: per i primi tre episodi della miniserie, la rete aveva messo a disposizione mezzi cinematografici e chiamato in cabina di regia autori come Mario e Lamberto Bava, Giulio Questi e Pietro Nelli. Va riconosciuto, ai produttori, il fatto che il tipico sceneggiato Rai che aveva furoreggiato per vent’anni a quei tempi era difficile da proporre. La presenza di molto più cinema in televisione, il linguaggio del piccolo schermo che cambiava rapidamente: occorreva trovare nuove soluzioni. Difficile stabilire cosa determinò questa doppia strategia nella serie in questione, fatto sta che dopo i tre film realizzati con mezzi cinematografici, dall’esito non esaltante ma comunque sempre dignitoso, per i successivi tre si optò per una sorta di teatro televisivo. Se La mano indemoniata di Marcello Aliprandi aveva destato perplessità sotto ogni aspetto ed era stato ulteriormente affossato dalla sciagurata interpretazione degli attori, il Il Diavolo nella bottiglia riesce anche a fare peggio. Noioso, pretestuoso, presuntuoso, sciatto, mal diretto e ancor peggio recitato, il film televisivo di Tomaso Sherman riesce a rendere insopportabile perfino un testo d’autore come un racconto di un gigante della letteratura del calibro di Robert Luis Stevenson. A suo modo, un record.    

martedì 31 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA MANO INDEMONIATA

1213_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA MANO INDEMONIATA Italia, 1981; Regia di Marcello Aliprandi. 

17 giugno 1981. A volte si usa prendere una data precisa per sancire la fine di un’epoca, anche solo a modo simbolico. Si pensi a Odoacre che depose l’ultimo imperatore, Romolo Augusto, per sancire la caduta dell’Impero Romano d’Occidente oppure alla scoperta dell’America che chiuse il Medioevo. Come detto si tratta di riferimenti presi simbolicamente: allo stesso modo possiamo prendere la data di messa in onda di La mano indemoniata come fine dell’era gloriosa degli sceneggiati Rai. Il film televisivo di Marcello Aliprandi faceva parte del ciclo I giochi del Diavolo, ovvero Storie fantastiche dell’Ottocento come chiarito dal sottotitolo. In quegli anni, a cavallo dei Settanta e Ottanta, la Rai aveva messo in cantiere numerosi cicli di film con argomenti fantastici, in genere con risultati sempre lusinghieri. A dare un punto d’appoggio privilegiato erano già i soggetti letterari scelti per le trasposizioni e, per non perdere questo vantaggio, per I giochi del Diavolo viene ingaggiato Italo Calvino come consulente alla selezione dei soggetti. Nello specifico La mano indemoniata è tratta da un racconto di Gérard de Nerval, scrittore francese poco noto appartenente alla corrente del romanticismo ottocentesco. E fin qui, tutto bene, perché una nota di merito dell’emittente nazionale in queste sue produzioni era anche quella di far conoscere autori meno noti affiancandoli alle trasposizioni dei più grandi della letteratura. A mandare all’aria tutto quanto, e a rendere manifesta la fine di quel lungo e fecondo periodo della televisione italiana, sono gli interpreti chiamati per i ruoli principali di questo sceneggiato. Cochi Ponzoni (è Eustachio), Veronica Lario (sua moglie Javotte) e Massimo Boldi (l’archibugiere Giuseppe) sono letteralmente disastrosi. In genere, negli sceneggiati gli attori di stampo teatrale ingaggiati dalla Rai, smorzavano la loro verve interpretativa, pur lasciandola ben presente. Serviva un equilibrio: non si era a teatro, qui il mezzo televisivo comunque aiutava, però bisognava pur compensare la mancanza dei set e delle location cinematografiche a cui il pubblico si era ormai abituato. Gli eccezionali interpreti trovarono presto la giusta misura contribuendo in modo consistente alla funzionalità dei lavori prodotti. Ponzoni, Lario e Boldi quell’equilibrio non lo troveranno mai: alzando il tono di voce, come si può fare nei teatri per farsi sentire fino all’ultima fila della platea, provano a mascherare le carenze interpretative. Sorprende, in questo senso Ponzoni, che non riesce ad uscire dal suo cliché cabarettistico; stupisce anche Boldi, che fa peggio di quanto prevedibile, chiamato ad una prova più impegnativa rispetto a cinema e Tv. Delude in modo totale anche Veronica Lario che non riesce neppure ad essere un utile abbellimento di scena. Insomma, in queste condizioni, difficile salvare qualcosa.


  Veronica Lario 

lunedì 30 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA PRESENZA PERFETTA

1212_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA PRESENZA PERFETTA Italia, 1981; Regia di Piero Nelli.

Nientemeno che Henry James è l’autore che la serie di film televisivi I giochi del Diavolo prende ora a soggetto, mettendo il suo racconto Il fantasma di Edmund Orme nelle mani di Pietro Nelli. Il versatile ma poco prolifico autore toscano si prende una bella gatta da pelare, perché la poetica di James e la natura della sua profonda inquietudine sono tra le cose più difficili da rendere su uno schermo. E La presenza perfetta, il risultato di questa riduzione televisiva, non è entusiasmante, questo va detto. Che vi sia una narrazione fondamentalmente statica è anche prevedibile, il problema è far correre sotto di essa le inquietudini e i turbamenti che James era capace di suggerire, indurre, lentamente ma inesorabilmente. Nelli ci prova con giudizio, con un’impostazione tutto sommato fedele alla prosa dello scrittore; ma uno sceneggiato televisivo non è un romanzo e i tempi di fruizione sono diversi. Nella versione Rai, il soggetto di James fatica eccessivamente. Eppure l’impianto scenico e narrativo è notevole, la storia e i personaggi hanno un respiro degno del romanticismo ottocentesco. William Berger è un eccellente Henry Vawdrey e, nelle eleganti ambientazioni d’epoca, riesce con la sola maschera facciale a creare la giusta atmosfera. Rada Rassimov nel ruolo di Annie Marden è un’attrice invece forse troppo legata agli anni Settanta, per essere davvero convincente. Più delicata e sfumata, ma forse più credibile nel contesto proprio per questo, Emanuela Barattolo nel ruolo della figlia di Annie, Charlotte. Nella storia d’amore che si sviluppa tra Henry, noto scrittore, misantropo e scapolo impenitente, e la giovane Charlotte, si inserisce il fantasma di Edmund Orme, nella lugubre figura interpretata con rara efficacia da Franco Ressel. Le sue angosciose apparizioni sono accompagnate dai rintocchi della suggestiva di musica di Piero Piccioni e quando il finale a sorpresa sembra dissolverle per sempre, un nuovo dubbio ci attanaglia. Lo spettro di Edmund Orme era un morto non del tutto morto, Henry, nonostante l’amore di Charlotte, si sente un vivo non del tutto vivo. Ma allora, forse, seppur non del tutto trascinante, questo La presenza perfetta, è comunque evocativo della poetica di James. Niente male, quindi.    



Rada Rassimov 



Emanuela Barattolo