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lunedì 19 agosto 2024

BUIO NELLA VALLE

1532_BUIO NELLA VALLE . Italia 1984; Regia di Giuseppe Fina.

I misteri di Alleghe, cosiddetti dal titolo del libro di Sergio Saviane che aveva portato in luce la tragica vicenda ambientata nel paesino dolomitico, erano stati, nel 1965, oggetto di un trattamento cinematografico. La donna del lago, di Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, era ufficialmente ispirato all’omonimo libro di Giovanni Commisso, e, in ogni caso, si discostava abbastanza dai fatti reali, perlomeno dalla versione degli stessi abitualmente riconosciuta. Una ventina d’anni dopo, la vicenda approda in televisione, per opera di Giuseppe Fima, nella forma di sceneggiato in due puntate, per una lunghezza complessiva di circa tre ore. Buio nella valle sembra, almeno a grandi linee, più attinente agli eventi storici; ma senza esagerare. Fina, il regista, al tempo, per spiegare lo strano rapporto che lo sceneggiato ha con la realtà, intervistato dal settimanale Radiocorriere TV, dichiarò: “mi chiedevo come fosse possibile che, in un paesino dove si conoscono tutti, si possano far passare per suicidi una serie di omicidi, quando uno dei morti ha la testa quasi troncata da una rasoiata, l’altro, che è stato dichiarato annegato, non ha acqua nei polmoni… insomma, Alleghe per me è diventato un simbolo, il microcosmo che rappresenta il mondo. Non ho voluto fare un «giallo», ho voluto piuttosto raccontare come si articola il meccanismo del sopruso, come si saldino le connivenze tra il potere economico e il potere politico, come c’entrino il sesso e la morale, come favore chiami favore, come infine la giustizia finisca per trionfare lasciandosi però alle spalle anonimi eroi, vittime innocenti. A me non interessa tanto la catena di delitti quanto i meccanismi che riescono ad alterare la verità”. [Teresa Buongiorno, Un nido di vipere, Radiocorriere Tv n. 38/1984, pagina 12, settembre 1984].


Il risultato di queste intenzioni è un racconto filmico strepitoso nella prima parte, una sorta di L’albero degli zoccoli [1978, di Ermanno Olmi] da incubo, adeguatamente introdotto dalle immagini inquietanti dei titoli di testa, accompagnati dalla musica terrorizzante di Romolo Grano. Pur raccontando di delitti, ed essendo destinati al Secondo Canale RAI, da sempre più permissivo in questo senso del “Primo”, Buio nella valle non eccede nella rappresentazione fisica della violenta. Quella che è letteralmente spaventosa è quella morale che i protagonisti esprimono senza alcun ritegno, personaggi di una cattiveria assolutamente inaudita. Fintanto che Luigi Cosic (un monumentale Alain Cuny) è ancora abbastanza giovane da sfoderare tutta la sua maligna prepotenza, lo sceneggiato è letteralmente sostenuto dalla sua crudele verve, che costringe tutti i suoi compari, perlopiù famigliari, a darsi da fare, negli ora famosi atti criminali. Nella seconda parte del racconto filmico, Luigi appare invecchiato e, giocoforza, costretto a essere più guardingo; guarda caso anche Buio nella valle, come opera, ne risente, si affievolisce. Qui si fanno strada le indagini del carabiniere Sanna (Luca Barbareschi) che porteranno a dipanare l’intrigo; tuttavia, diversamente che in un «giallo» di stampo anglosassone, questa parte è la meno avvincente, per quanto ugualmente interessante.
Nella realizzazione del film, la prima cosa che fecero lo stesso Fina, Marcello Coscia e Luigi de Santis, in sceneggiatura, fu spostare cronologicamente gli eventi, forse per dare una maggior unità di tempo al racconto, ma ebbero l’accortezza di mantenere tutta quanta la prima parte della vicenda ambientata in epoca fascista. Il rapporto dei fatti col Fascismo, che sembra evocato dalle stesse parole di Fina nella citata intervista, è puntellato da una serie di dettagli portanti dello sceneggiato. Il patriarca di casa Cosic, Luigi, è definito un “Marcia su Roma”, una sorta di onorificenza verbale per aver partecipato alla nota manifestazione Fascista del 1922. 

Un altro dei personaggi cardine della storia, del tutto inventato in sede di stesura del soggetto, è il gerarca De Cesa (Carlo Alighiero, bravissimo), elemento che, con la sua influenza, è decisivo nell’insabbiamento dei vari delitti. Il rapporto tra De Cesa è la famiglia Cosic è esemplare della situazione che Fina, con Buio nella valle, vuol denunciare: ufficialmente è una figura di potere, ma è subalterno a Luigi, per gli illustri trascorsi fascisti di quest’ultimo nonché per la sua disponibilità economica, necessaria al gerarca per combinare i suoi affari. Sul posto di lavoro, De Cesa è il diretto superiore di Alvaro (Orso Maria Guerrini, fortissimo anche lui), figlio di Luigi; ma ne è da questi controllato. Anche tramite Lidia (Maria Schneider, vera star dell’opera), moglie di Alvaro ed amante di De Cesa, figura simbolica, con la sua spietata ambiguità che lascia credere, a brevissimi sprazzi, di avere un filo di umanità. Rimane il dubbio –formale, beninteso– che, sia nei confronti di De Cesa che, nel finale, con il reduce Egidio (Maurizio Donadoni), possa ancorare la sua recita ad un barlume, un ricordo, di umanità; un’attitudine del tutto sconosciuta tanto a Luigi che ad Alvaro, due predatori senza l’ombra di coscienza. Quella che, al contrario, potrebbe avere Antonio (Renato Scarpa), secondo genito di casa Cosic ed anello debole della famiglia. Proprio la sua incapacità di sopportare il rimorso per i delitti commessi dai suoi congiunti, lo spinge a confessarsi con la sposina, Isa Mascia Musy) proprio durante il viaggio di nozze. Pessima idea: la ragazza, già debole di nervi, crolla di fronte all’atroce verità, e quando Luigi, Alvaro e Lidia se ne accorgono, la sua sorte è segnata. In mancanza di un lago –la Produzione aveva tagliato brutalmente i costi costringendo Fina e i suoi collaboratori a dimenticarsi un’eventuale trasferta sulle alpi orientali– la giovane, una volta uccisa, viene gettata in un torrente. 

Dettagli marginali, d’altronde anche la sigla iniziale, in ogni caso molto efficace, è girata in Valle d’Aosta e il paese in cui è ambientata la vicenda è quello fittizio di Pradegà, in luogo dell’originale Alleghe. Ma, come detto dallo stesso autore nella citata intervista, il suo intento non era una ricostruzione storica della vicenda, semmai un’analisi sociale che potesse essere ancora valida. Buono l’intento; tuttavia, l’impostazione ideologica degli autori mostra, già ad una prima analisi, la propria inadeguatezza: il Fascismo non era un elemento poi così significativo, o almeno non era la profonda causa scatenante. Il Fascismo diventa un problema, anche nell’ottica di Fina che racconta dei fatti di Alleghe per descrivere l’Italia degli anni Ottanta –un proposito che può clamorosamente essere funzionale ancor oggi– se consideriamo la sua capacità di propaganda, forse la vera chiave del successo del movimento di Mussolini, allora come adesso. Ma è unicamente una sorta di “vestito della festa” –tra mille virgolette– per una mentalità arcaica assai ben più radicata nella nostra cultura. Buio nella valle è, in ogni caso, una valida rappresentazione della situazione: De Cesa, come detto gerarca fascista della zona, dopo la guerra si ricicla e continua a fare le stesse identiche cose. Certo, la “camicia nera” era un abito comodo, per fare i propri porci interessi, ma la sostanza cambia assai poco. I personaggi più significativi sono però Luigi, Alvaro e Lidia: il primo, come detto, è stato fascista, è addirittura un “Marcia su Roma” ma, in pratica, se ne frega del Fascio e pensa esclusivamente al suo interesse, per ottenere il quale non ha alcuno scrupolo. 

Alvaro ne è la versione leggermente aggiornata: privo di qualsivoglia riferimento politico, sociale o sentimentale, è il braccio armato di Luigi. Il suo essere l’esecutore materiale degli ordini criminali del padre, lo relega ad un livello inferiore, in chiave umana, anche rispetto allo spregevole genitore. La figura di Lidia porta con sé alcune differenze, in quanto donna e, quindi, sfavorita nella società patriarcale ma dotata di qualche opportuna arma tipica del gentil sesso. Su questa questione il regista Giuseppe Fina si scontrò con l’interprete Maria Schneider: l’attrice, al tempo, pativa ancora per la sua fama, legata indissolubilmente all’essere stata la Jeanne –“quella della scena col burro”– nel controverso Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, seppure fossero passati ormai dodici anni. [Lina Agostini, Quel maledetto ultimo tango, Radiocorriere Tv n. 39/1984, pagina 20, settembre 1984]. La Schneider avrebbe voluto dare a Lidia, il suo personaggio, una caratterizzazione unicamente feroce; Fina si impose, a sentire l’attrice, e pretese che la protagonista dello sceneggiato avesse una certa propensione sensuale. Che non si vede poi molto, in realtà. Perché quel poco che Lidia lascia intendere, quei rari momenti di intimità, non sono altro che una strategia differente rispetto ai degni compari, che, per seguire i propri scopi, perseguono invece prepotenza brutale, Luigi, o appena velata di ironia sarcastica, Alvaro. Ma sono tre facce di un unico mostro, quello dell’avidità, dell’egoismo, del disprezzo, dell’arroganza: un mostro assai più antico, e radicato, e che il Fascismo semplicemente cavalcò e provò a codificare, a strutturare ideologicamente. Ma che, in buona sostanza, non riuscì mai davvero a domare. 





Maria Schneider


Mascia Musy 



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