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martedì 13 agosto 2024

RUSH

1529_RUSH . Stati Uniti 2013; Regia di Ron Howard.

In qualche spunto, Ron Howard è un regista di primissimo rango; nel complesso, poi, sembra sempre mancargli quel pizzico per essere annoverato tra i veri maestri di Hollywood. Chissà, forse in futuro la sua arte si farà maggiormente strada, nell’analisi ai suoi film; per ora rimane un po’ imbrigliata nella sua diligente attenzione formale. Eppure, l’idea di dare concretezza cinematografica alla rivalità tra Niki Lauda e James Hunt, piloti di Formula 1 degli anni Settanta, è, a dir poco, geniale. Forse, i problemi –se vogliamo chiamare così i limiti che poi l’opera denota– nascono già dalla scelta di prendere come base di partenza la sceneggiatura di Peter Morgan: lo script dell’autore britannico si inserisce nella consuetudine dei suoi precedenti lavori, enfatizzando i fatti storici e raccontando scontri tra personalità opposte. A prima vista, uno stile come quello di Howard sembra particolarmente congeniale a questo tipo di soggetti: Rush, risultato in questo caso di tale connubio, è infatti un’ardente rilettura di alcuni eventi dell’età dell’oro della Formula 1. Un film che si consuma rapidamente sullo schermo nonostante le oltre due ore di durata, ma, di contro, lascia tutto sommato poco nello spettatore. È un po’ il limite di Howard –e forse anche di Morgan– che fatica a cogliere davvero nel segno, a lasciare una traccia indelebile, nonostante i suoi film siano in genere formalmente ottimi. Come Rush, appunto.
Il cinema, dopo i suoi approcci negli anni Sessanta, aveva lasciato perdere il mondo delle corse automobilistiche, affrontato quindi molto raramente e con prospettive laterali, si veda Un attimo, una vita di Sidney Pollack [
Bobby Deerfield, 1977] a titolo d’esempio. Il film di riferimento, per le gare in automobile, era ancora Grand Prix di John Frankeheimer, risalente al 1966; in seguito, solo Le 24 ore di Le Mans, [Le Mans, 1971] regia di Lee H. Katzin –che aveva diligentemente osservato le disposizioni di Steve McQueen– era riuscito ad avvicinarcisi. Il problema, già emerso con l’archetipo I diavoli del Grand Prix [The young racers, 1963] di Roger Corman, era la gestione del doppio binario narrativo: da una parte la componente agonistica che andava bilanciata da quella sentimentale dei personaggi.

Corman aveva privilegiato la resa scenica delle gare, lasciando le beghe umane in secondo piano; una scelta che Frankenheimer aveva ulteriormente enfatizzato. Tutto sommato i risultati avevano pagato, ma forse non come ci si aspettava. Per il citato film del 1971 ambientato a Le Mans, John Sturges, regista designato in origine, pensava di mettere in risalto la storia romantica; McQueen era di avviso opposto e impose la sua scelta. Risultato: Le 24 ore di Le Mans è un ottimo film, ma fu un fiasco al botteghino e, in ogni caso, non solo non riuscì a far compiere definitivamente il salto di qualità al genere sportivo di stampo motoristico, ma perse terreno anche nei confronti del film di Frankenheimer. A quel punto, l’impresa dovette sembrare proibitiva, e le corse automobilistiche rimasero un elemento di contorno, quando furono chiamate in causa dal cinema, ma raramente al centro della scena. Fino al 2013 quando Morgan e Howard approfittarono della stimolante rivalità tra Hunt e Lauda per riportare la Formula 1 sul grande schermo. Howard, che ha un ottimo fiuto per il casting, scelse gli interpreti adeguati: Chris Hemsworth, tipico fusto hollywoodiano e al tempo in rampa di lancio, è Hunt; Daniel Br
ühl, attore dal solido curriculum, è Lauda; Oliva Wilde è la bellezza mozzafiato ideale tanto per dare corpo alla modella Suzi Miller, che a mettere il giusto pepe rosa al film. Hunt e Lauda sono due piloti agli antipodi: il primo è uno sciupafemmine dotato di talento geniale anche in pista; il secondo unisce alle innate capacità tecniche, una volontà e un’abnegazione al lavoro da vero stakanovista. 

La rivalità comincia dalle formule minori e si amplifica quando i due piloti arrivano, con modalità differenti, in Formula 1. Entrambi sono di rango benestante, ma non hanno l’appoggio delle rispettive famiglie; Lauda, grazie ad un prestito bancario, si paga un sedile nella scuderia britannica BRM per la stagione 1973. Nel frattempo, l’istrionico titolare della scuderia di Hunt, Lord Hesketh (Christian McKay), decide di regalare al suo pupillo la possibilità di gareggiare nella massima formula. Il che sembra una sparata tipica del personaggio, un uomo d’altri tempi che si diletta a fare l’aristocratico, ma la Hesketh 731, derivata da una March, nelle mani di Hunt comincia a raggranellare punti nel campionato mondiale. Assai più di quanti ne faccia Lauda con la BRM che deve quindi assistere, impotente, il suo rivale festeggiare addirittura sul podio, sfiorando la vittoria. Il colpo di scena che ribalta la situazione è dovuto all’intercessione del compagno di scuderia di Niki, Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino): nonostante l’austriaco non sia certo un tipo amichevole, lo svizzero ne riconosce la grandissima capacità di messa a punto della vettura, e convince la Ferrari, suo prossimo team, ad ingaggiare anche Lauda. Per Hunt, che è rimasto alla Hesketh, scuderia di secondo piano, assistere all’ascesa del rivale che, in un top-team come la Ferrari, può cogliere le prime vittorie, è davvero frustrante. E se, l’anno successivo, anche Hunt riesce a vincere il suo primo Gran Premio, Lauda si erge a dominatore indiscusso del campionato, surclassando perfino Regazzoni che l’aveva voluto al suo fianco nella scuderia di Maranello. La situazione per l’inglese, già critica, peggiora, allorché lo svampito Lord Hesketh si rende conto che l’avventura in Formula 1 gli ha praticamente prosciugato il pur cospicuo conto corrente: è la bancarotta per il team e Hunt si ritrova a piedi. James è disperato, quand’ecco che gli capita un colpo di fortuna: Emerson Fittipaldi abbandona le corse, lasciando vacante il sedile sulla sua McLaren, una scuderia di punta con la quale aveva vinto il titolo iridato nel 1974. Il 1976 si presenta come la stagione della sfida decisiva: ora tutte e due i piloti hanno vetture competitive. Nonostante Hunt sia velocissimo, Lauda sembra imbattibile e accumula punti di vantaggio. Fino a questo momento, tutto sommato, le vicende raccontate hanno avuto una discreta attinenza storica; ora che si entra nel vivo del racconto, il lavoro di Morgan in sede di sceneggiatura si fa più rilevante. 

In occasione del quarto appuntamento, in Spagna, Hunt vince ma viene squalificato, stando a Rush, per un reclamo pretestuoso da parte della Ferrari; in seguito, a ribadire le ragioni del team inglese, la squalifica verrà revocata. Difficile, in ogni caso, stabilire chi avesse ragione, perché nel mondo delle corse, spesso, il potere politico pesa più delle attinenze meramente tecniche. Quel che è certo è che, in questo passaggio si può cogliere la volontà, da parte degli autori, di riservare alla Ferrari il ruolo di «cattiva», come da tradizione, almeno per quel che concerne la narrazione sul grande schermo. Del resto, seppure il film verta sulla rivalità tra i due piloti, se c’è una prospettiva privilegiata, nel racconto di Morgan e Howard, è quella di Hunt; per averne conferma, basta guardare i manifesti. James è il bello e dannato; Niki il primo della classe antipatico e spocchioso. E non solo: quando Hunt non vince, la colpa è della Hesketh poco competitiva, della crisi con la moglie Suzi, che se la intende con Richard Burton o delle modifiche che la McLaren è stata costretta a fare a causa dei cavillosi reclami della Ferrari. Una serie di problemi assai concreti che rendono umano il campione inglese. Lauda, al contrario, è il perfetto villain: quando può, vince, al punto da sembrare imbattibile ed imperturbabile. Ad esempio, la sua storia d’amore con Marlene (Alexandra Maria Lara), a differenza del rapporto tra James e Suzi, non intralcia la sua inarrestabile avanzata. Eppure sarà proprio Lauda a compiere l’evoluzione più significativa, sul letto d’ospedale. Ma andiamo con ordine: siamo al Gran Premio di Germania, al famigerato e pericolosissimo
Nürburgring e Lauda ha un’infinità di punti di vantaggio in classifica. Ha piovuto, in Germania, ma forse la pista si sta asciugando e il circuito, già insidioso anche per via della lunghezza di oltre 20 km che rende difficoltosi gli eventuali soccorsi, in queste condizioni è una vera trappola. In prima fila Lauda e Hunt, marcandosi vicenda, optano per le gomme da bagnato; Mass, compagno di Hunt alla McLaren, è tra i pochi ad osare le slick, i pneumatici da asciutto, una scelta che si rivela subito vincente. 

Nella bagarre che segue al primo giro, con i box intasati dal traffico per un inusuale cambio gomme immediato, Lauda rimane attardato e riparte come una furia. Nel briefing prima della gara, aveva chiesto l’annullamento della corsa, per via delle condizioni meteo. Qualcuno, nella sala gremita di piloti, aveva ironizzato sul fatto che avesse paura; nonostante il vantaggio in classifica, perdere malamente avrebbe dato credito a quelle voci. Al Bergwerk, il punto più lontano dai box, e quindi dai soccorsi, la sua Ferrari 312 T2 tocca il cordolo, sbanda paurosamente, si schianta contro il guardrail e ripiomba in pista in fiamme. Sopraggiungono altre vetture che, non riuscendo ad evitarla, la colpiscono violentemente; Lauda è nell’abitacolo e sta bruciando vivo, nonostante la tuta ignifuga. Viene comunque tratto in salvo, rimanendo ustionato pesantemente in volto, per tutta la vita. Mentre è all’ospedale, in condizioni disperate, grazie al supporto della moglie Marlene, comincia lentamente a rimettersi ma la sua ripresa subisce una brusca accelerata quando vede Hunt vincere i Gran Premi restanti nella stagione, insediando il suo primato in classifica. Non è, però, questa l’evoluzione di Lauda di cui si accennava: questo semmai è l’apice del suo agonismo, del suo esasperato desiderio di competizione che da sempre lo caratterizzava. Dopo soli 42 giorni dall’incidente, per difendere il suo primo posto nella graduatoria mondiale, contro ogni aspettativa, logica e buon senso, Niki Lauda si presenta al via del Gran Premio di Monza: dopo le iniziali difficoltà, riesce a piazzarsi quarto mentre Hunt è costretto al ritiro. Le cose sembrano rimettersi al meglio per l’austriaco della Ferrari. In Rush, dopo questa svolta positiva per Lauda si passa subito all’ultima gara, in Giappone; nella realtà, prima dell’appuntamento al circuito del Monte Fuji, c’erano state due corse, dove Hunt aveva fatto bottino pieno e Lauda faticato. In ogni caso, tanto negli almanacchi che nel film di Howard al via del Gran Premio del Giappone l’inglese è a soli tre punti dal primo posto dell’austriaco. Piove, sul circuito del Monte Fuji, e, da perfetto eroe hollywoodiano, Hunt, vorrebbe lasciar perdere corsa e campionato. Nel briefing al Nürburgring era stato proprio lui a condizionare gli altri piloti, e ad indurli a votare per correre, contro il parere di Lauda. Naturalmente, la gara si disputerà, e la colpa, in questo caso, è del Sistema: nello specifico del fatto che l’evento è stato venduto a troppe televisioni sparse in tutto il mondo; impensabile rimborsarle tutte. Al via, Hunt balza al comando, tallonato da Lauda, immerso nella scia d’acqua dell’inglese; alla fine del primo giro, l’austriaco si ritira, ritenendo le condizioni della pista eccessivamente rischiose. Stando alle storiche dichiarazioni, e alle cronache, ci furono molti fattori, da tenere in considerazione; di tutto quanto ciò, Howard e Morgan tengono in sostanza solamente l’onestà di Lauda che rifiuta l’offerta del responsabile tecnico della Ferrari, Mauro Forghieri (Vincent Riotta) di attribuire ad un guasto elettrico il motivo del ritiro. 

L’immagine di Marianne, che si palesa davanti al casco di Lauda, sommerso dalla pioggia durante l’unico giro disputato dall’austriaco, è, naturalmente, farina del sacco degli autori, e serve a giustificare narrativamente la coraggiosa scelta del pilota Ferrari, sebbene non sia necessariamente del tutto campata in aria. Hunt, dopo qualche incertezza sull’ordine d’arrivo, fatto curiosamente storico, si ritrova terzo, risultato che gli permette di vincere il titolo. L’italiana Ferrari è sconfitta, si veda anche il sorpasso decisivo di Hunt a Regazzoni, compagno di squadra di Lauda, nel finale; gli inglesi, pilota e vettura, hanno vinto, e, per un film americano, missione è quindi compiuta. Il pistolotto finale, non è che la conferma di questa impostazione: Hunt è il cavaliere, che sfida la morte e la irride, solo per battere il rivale. Lauda, l’austriaco –comunque l’area è germanica– è il freddo professionista che calcola le percentuali di rischio e si rode nell’invidia guardando l’avversario vincere.
Pur essendoci moltissimi rimandi alla realtà, Rush è penalizzato da quest’uso smodato dei luoghi comuni angloamericani, si veda la stereotipata descrizione dell’Italia, che è lo specchietto tornasole della caratura artistica degli autori. La vicenda umana è forte, perché gli eventi reali lo erano, ma è trattata in modo superficiale e solo la stilizzazione visiva dell’opera attenua il fastidio derivante. Proprio la scelta formale, nella messa in scena delle corse, è l’aspetto più convincente del film: le scene non ricercano il realismo alla Grand Prix, piuttosto oscillano tra l’iperrealismo e una rappresentazione fortemente stilizzata della realtà. L’insistenza sui dettagli, le vibrazioni, il rumore, e soprattutto, le gare decisive sotto l’acqua, al Nürburgring o al Monte Fuji, con i cieli plumbei, le nubi scure ed incombenti, la pioggia a confondere ogni cosa: le corse, in Rush, sono un inferno dantesco.
Nel complesso, come i film sulle gare automobilistiche che l’hanno preceduto, nemmeno quello di Howard e Morgan è un vero capolavoro. Ma con il suo iperrealismo stilizzato, potrebbe fungere da utile indizio, per riuscire finalmente a trovar l’alchimia giusta per rappresentare in modo adeguato il fantastico mondo della Formula 1 al cinema. 





Olivia Wilde 





Alexandra Maria Lara 



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