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sabato 31 agosto 2024

CHIAMATA PER IL MORTO

1538_CHIAMATA PER IL MORTO (The deadly affair). Regno Unito 1967; Regia di Sidney Lumet.

Chiamata per il morto è tratto da un libro di John Le Carré, ed esce sulla scia di La spia che venne dal freddo, che dello scrittore inglese è stata la prima trasposizione cinematografica. Alla regia è chiamato il validissimo Sidney Lumet, autore di maggior pedigree rispetto al quel Martin Ritt che aveva curato il citato precedente film tratto da Le Carré, e che pure aveva fatto un ottimo lavoro. La base fornita dai libri è infatti sicuramente ineccepibile come narrato, e ci mancherebbe: lo scrittore è un maestro della letteratura spionistica, in un versante realistico contrapposto a quello del più celebre agente segreto del mondo, ovvero lo sfavillante James Bond. La difficoltà maggiore, per questo tipo di operazioni, è che il soggetto è molto ingombrante, perché un libro può permettersi il tempo necessario ad ogni lettore, che può essere diverso per ognuno di loro. Il cinema no, ovviamente, ma deve uniformare il tutto ad un tempo di fruizione che, in rapporto alla letteratura, finisce molto spesso per essere troppo breve. Con le Carrè, almeno nel precedente film, il risultato è stato un po’ l’opposto, nel senso che il film è risultato, seppur molto bello, addirittura più lento e rarefatto del libro. In Chiamata per il morto i passaggi obbligati che il soggetto impone non sono pochi e, essendo una trama gialla, non possono essere tralasciati in sede di trasposizione perché l’intreccio verrebbe mutilato. Lumet gestisce questa situazione con mestiere, utilizza una regia piuttosto forte, con zoomate sui volti, con primi piani su espressione degli attori quasi da cinema espressionista, e poi inseguimenti, base musicale (che strizza l’occhio a qualche film di 007), insomma non si limita a riprendere in modo asettico le scene previste dalla sceneggiatura, ma le enfatizza a dovere nel renderle cinematografiche. Questo aspetto è rimarcato dalla scena del teatro, dove un attore si lamenta che senza effetti speciali (il fumo sotto un pentolone durante un rito di stregoneria) non si può recitare: un po’ come se il regista reclamasse la sua parte, ribadendo che la messa in scena cinematografica deve essere realistica ma coinvolgente e non una mera trasposizione del soggetto. Gli attori scelti sono funzionali a questa strategia: James Mason è assai credibile nel suo tormento interiore, mentre a Simone Signoret basta uno sguardo per trasmettere l’amarezza del tempo che passa, per lei più che per altri. Perfette, tanto l’ambiguo di Maximilian Schell che la simpatia di Harry Andrews nel ruolo del poliziotto in pensione. Quindi bene il soggetto, il regista, gli attori, l’ambientazione inglese: insomma, un signor film.



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giovedì 29 agosto 2024

SUPERPOWER

1537_SUPERPOWER . Stati Uniti 2023; Regia di Sean Penn e Aaron Kaufman. 

«La fortuna aiuta gli audaci», recita un famoso detto la cui origine antica ne garantisce l’attendibilità. In effetti è proprio grazie ad una certa temerarietà dei suoi autori, se il documentario Superpower di Sean Penn e Aaron Kaufman non fallisce completamente nei suoi intenti. Intendiamoci: Superpower non è certo un brutto film e, oltretutto, tratta di un argomento quanto mai attuale, la guerra tra Russia e Ucraina. La confezione formale è, come prevedibile, di tutto rispetto, essendo Sean Penn uno dei personaggi più in vista di Hollywood oltre che uno degli attori contemporanei più importanti. Normale, quindi, che abbia una Produzione adeguata, sia per l’aspetto visivo del film, sia per la gestione logistica che ha previsto più di un viaggio in località non precisamente comode, vuoi per la distanza, vuoi per il drammatico momento contingente. Al di là del non irrilevante aspetto economico, c’era ovviamente un problema di altra natura da affrontare, per cui, recarsi in Ucraina tra il 2021 e il 2022 era non solo più che difficoltoso ma pericoloso oltre che precluso a prescindere, almeno alla maggior parte delle persone. In questo senso può essere una giustificazione il fatto che il faccione rugoso e i capelli scombinati di Penn stazionino perennemente sullo schermo: lo ammette lo stesso attore, è grazie alla sua notorietà se ha potuto aver accesso in certi luoghi anche in frangenti tanto delicati. Ricevere a colloquio una star di Hollywood come Sean Penn, significava, perfino per il presidente Volodymyr Zelenskyy, avere un supporto a livello di opinione pubblica alle sue continue richieste di armamenti presso l’Amministrazione americana e, di conseguenza, la Nato. Tuttavia l’operazione di Penn e Kaufman esagera, in questo, e Superpower finisce per sembrare lo specchiarsi di un attore che gioca –o meglio recita, e in inglese avrebbe la stessa parola, «play»– a fare il personaggio anticonvenzionale –si veda l’intervista allo stesso Penn alla televisione– e si compiace nel vedere cosa potrebbe fare il suo riflesso –Zelenskyy, che era un attore pure lui– se si fosse impegnato politicamente. E il fastidio per questa sensazione è forse superiore perfino all’agiografia che l’opera finisce per essere, descrivendo il presidente ucraino come una sorta di supereroe. 

Certo, c’è poi quel passaggio in cui si definisce in modo specifico a cosa si riferisca il titolo, ovvero all’amore di Zelenskyy per il figlioletto, ma sembra chiaro che si tratti di un tentativo non esattamente riuscito. Nel 1985, all’apice della Guerra Fredda, il cantante britannico Sting compose Russians e, in una strofa, si augurava “che anche i russi amino i loro figli” [“the Russians love their children too”, da Russians, Sting, 1985]; le intenzioni dell’ex cantante dei Police erano evidentemente lodevoli, eppure ci fu chi lo criticò per qualunquismo e, in effetti, non è che il testo del brano avesse questa profondità inaudita. Era musica leggera e tanto aspirava ad essere, e rifletteva lo stato d’animo di una persona comune di fronte a problemi geopolitici la cui soluzione era certamente più indicata per gente più preparata nello specifico, ma il cui eventuale conto da pagare spettava poi principalmente al popolo. A posteriori, quasi quarant’anni dopo, si può cogliere la validità del pensiero di Sting: per evitare il peggio, il cantante si augurava che anche il nemico –i russi– amasse i suoi figli; al contrario, o quasi, Penn sottolinea, sin dal titolo, che un presidente come Zelenskyy, il presidente del popolo ucraino –e quindi il popolo ucraino stesso– abbia il potere per battere i nemici –il Superpower– in quell’amore per la prole che, a questo punto è legittimamente deduttivo, si suppone il nemico non abbia.

Insomma, in qualunque modo si cerchi di approcciare Superpower, il documentario finisce per mostrare qualche magagna; è un peccato, perché certamente l’intento complessivo era lodevole e la buona fede degli autori sembra genuina. Tuttavia una nota che permette al documentario di divenire un testo da salvare c’è ed è la sua puntualità nell’essere al posto giusto al momento giusto: Penn era a Kyïv per incontrare Zelenskyy proprio il 23 febbraio 2022 e lo incontrò anche il giorno dopo, la sera del 24, ad invasione già cominciata. Questa contingenza con la Storia rende le scene riprese da Penn e dai suoi collaboratori, in quei frangenti, un documento di una certa importanza, un’istantanea di quello che accadde in uno dei momenti cruciali del nostro tempo. L’insistenza con cui l’attore hollywoodiano andrà poi a vedere le cose di persona, arrivando fino alla prima linea del fronte, alimenta la validità di Superpower e, a quel punto, i difetti citati in precedenza, divengono sorta di ingenua filigrana che certifica la veridicità delle scene. Insomma, non un documentario d’alta scuola, ma certamente un testo puntuale e «sul pezzo», quello sì.




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martedì 27 agosto 2024

107 MOTHERS

1536_107 MADRI(Cenzorka) . Slovacchia, Cechia, Ucraina 2021; Regia di Péter Kerekes.

Ancora una volta arriva dall’Ucraina uno dei film più interessanti di questi ultimi tempi. Stavolta la guerra non c’entra, visto che 107 madri –questa la traduzione del titolo internazionale del film di Peter Kerekes– è ambientato in un carcere femminile con detenute che hanno figli piccoli o sono in stato di gravidanza. O forse la guerra c’entra lo stesso, perché a Odessa, nel 2021, la guerra è impossibile da lasciar fuori da qualsiasi ambito. Tra l’altro, la situazione che vediamo sullo schermo –un ambiente popolato da detenute perlopiù vedove, alle prese con i problemi per gestire i figli piccoli– ricorda quella delle tante donne che hanno i mariti impegnati al fronte o, peggio, che sono caduti in battaglia. In ogni caso, quello che rende speciale l’Ucraina oggi, è certamente legato al conflitto in corso, ma non in modo così diretto. Non sono le bombe o i missili a rendere il paese dell’est Europa quello che è ora, un vero e proprio «ombelico del mondo», ma la consapevolezza dei suoi abitanti, e non solo, che è lì che si stia facendo la Storia, che si stia giocando il destino di buona parte dell’Umanità. Per quale motivo, un regista slovacco, Peter Kerekes, si reca proprio in Ucraina, per dirigere il suo film? 107 madri è un’opera atipica, è recitato ma, a parte la protagonista Lesya, interpretata da Maryna Klimova, e di un altro personaggio a cui presta le vesti Raisa Roman, il cast è formato, perlopiù, da vere detenute. Curioso il caso di Lyubov Vasylina, che nel film interpreta Nadia; la ragazza era stata rilasciata quando erano appena cominciato le riprese –che si sono protratte per alcuni anni– ed è tornata in seguito in carcere nelle vesti di attrice. Persino Iryna, la guardia carceraria coprotagonista, è impersonata da Iryna Kyriazeva, che, anche nella realtà è “l’ufficiale operativo del carcere di Odessa” [dall’intervista a Peter Kerekes: Alissa Simon, Il regista di 107 mothers Kerekes riflette sul suo film a Venezia, Variety, dal sito http://variety.com/2021/film/spotlight/107-mothers-director-kerekes-reflects-on-venice-film-1235055746/ visitato l’ultima volta il 22 agosto 2024]. 

Anzi, è stata proprio lei ad avere un ruolo decisivo nelle scelte di Kerekes a proposito di come realizzare il film. L’intenzione originale del regista slovacco era affrontare il tema della censura; in effetti, il titolo originale, Cenzorka, a quello fa riferimento. Trattandosi di una sorta di via di mezzo tra il documentario e la fiction, il regista si è messo alla ricerca di un posto dove poter filmare una qualche forma di censura che fosse ancora attiva e funzionante. E qui si risponde alla domanda lasciata in sospeso: dove, se non in Ucraina, nella terra della nuova frontiera, si può trovare un luogo simile?  Una volta incontrata Iryna Kiryazeva, che tra le sue funzioni aveva quelle di aprire, leggere e, eventualmente, censurare, la corrispondenza delle detenute, è divenuto infatti chiaro che il posto ideale per girare il film fosse il carcere di Odessa numero 74. Del resto, per citare ancora le parole di Kerekes, “tutto era possibile ad Odessa” [ibidem] compreso filmare un parto dal vivo per poi inserirlo nella trama del film. A vederlo con gli occhi di un occidentale –che volenti o nolenti devono essere pure quelli di Kerekes, visto che la Slovacchia è nell’Unione Europea– il compito di Iryna è inaccettabile e sgradevole: ascolta all’interfono i colloqui durante le visite e, soprattutto, legge e «corregge» le missive che queste ricevono, e guarda caso, pone particolare attenzione a quelle con qualche spunto erotico sentimentale. Tra le ragazze del carcere numero 74 ce n’è qualcuna ancora piacente, in ogni caso Iryna, come le altre guardie, al confronto, appare grossa e sgraziata. 

A confermare che una forma di invidia mista a frustrazione, sia un possibile corroborante all’azione censoria della donna, c’è la figura di sua madre (Raisa Roman, una delle attrici storiche dell’Odessa State Yiddish Theatre) che le rimprovera la vita sentimentale praticamente assente. La prospettiva non è, quindi, per niente favorevole a Iryna, nonostante nei colloqui con Lesya e le altre detenute si dimostri anche comprensiva. A proposito delle ragazze ospiti del carcere, va detto che nessuna di loro sembra affrontare in modo adeguato il tema del pentimento. Quelle che raccontano il motivo per cui sono rinchiuse, parlano per lo più di un delitto inerente alla vita sentimentale: o è il marito fedifrago a finire accoltellato o l’amante. Ma la cosa non sembra aver lasciato particolari strascichi nell’animo delle donne o, almeno, non nel modo in cui siamo abituati a vederli rappresentati al cinema. Nonostante la difficoltà di queste ragazze a confrontarsi con le proprie colpe, la loro condizione disagiata, la difficoltà di vivere appieno un momento importante della vita come la maternità, suscita nello spettatore un sentimento di solidarietà. Iryna, e il suo curiosare nelle lettere d’amore –spesso molto piccanti ma sempre in modo divertente– di empatia ne suscita invece ben poca. Sembra che la nostra guardia subisca una sorta di pena del contrappasso quando scopre che sua madre le apra la posta privata per controllare se abbia finalmente trovato qualche spasimante. E quando Iryna si lamenta dell’indelicatezza della genitrice, questa le rinfaccia prontamente che lei lo fa abitualmente a danno delle donne imprigionate nel carcere. I conti, in un certo senso, sembrano tornare: le ragazze, come Lesya o Nadia, hanno sbagliato e pagano; anche Iryna sconta il suo essere indiscreta con una vita sentimentale insoddisfacente o, meglio, inesistente. Un equilibrio che, ad un occhio di uno spettatore occidentale, inevitabilmente condizionato dal famigerato politicamente corretto, non sembra tuttavia molto soddisfacente. 


Le ragazze dovrebbero, nell’ottica di “elaborare la propria colpa”, dimostrare maggiore pentimento, affinché il carcere riveli il suo essere un percorso rieducativo. Nel finale, quando a Lesya viene negata la libertà condizionata, e si appresta a vedere suo figlio destinato ad un orfanotrofio, il suo rivolgersi a madre, sorella e persino suocera (Irina Tokarchuk) –madre dell’uomo da lei ucciso– chiedendo di prendersi in carico il bambino, appare impietosamente nel suo sfacciato opportunismo. La madre rifiuta, adducendo la misera motivazione di non aver spazio, la sorella, che ha tre figli piccoli, replica con la stessa scusa; la suocera, al contrario, accetterebbe anche, ma unicamente per vendicarsi, negando poi a Lesya la possibilità di riavere il figlio una volta scontata la pena. Insomma, non se ne esce: la desolazione morale non è propria solo delle recluse ma sembra collettiva, dell’intera società. Sembra quasi ironico, il regista Kerekes, quando mostra che l’unico barlume di umanità ce l’abbia Iryna, la guardia, che prende in simpatia il povero piccolo destinato all’orfanotrofio, e si fa aiutare da lui nell’azione censoria delle lettere. Ma probabilmente è solo il nostro sguardo condizionato, che non riesce più ad accettare le sfumature della realtà: forse, anche un atto in linea teorica aberrante come la censura, non è poi così grave se fatto con coscienza, con responsabilità individuale. Che Iryna, come persona, comincia a mostrare, aiutando il povero bambino prima che questi venga trasferito, ma non è che un piccolo anticipo. 

Perché, poi, del tutto inaspettatamente, e con un colpo di scena degno di un giallo, una soluzione che, in qualche modo, salva la baracca, salta fuori. Iryna, la massiccia e poco femminile guardia, parte per un viaggio in treno: con il vestito corto, le gambe distese sul sedile a fianco, in un atteggiamento poco consono ad un “ufficiale operativo del carcere di Odessa”, sembra anzi una bella donna. Si reca all’orfanotrofio, a trovare il figlio di Lesya con un atto di solidarietà umana, o forse è l’istino materno, che da solo riscatta l’intero desolante quadro sociale mostrato dal film. Un film che, in quel momento, diviene bellissimo, quando figurativamente lo è stato per molti dei suoi fotogrammi: immagini dalla valenza pittorica– e si prenda il bel manifesto per farsene un’idea. Non un vezzo autoriale, sia chiaro, ma il modo cinematografico per raffigurare lo stato di sospensione, di attesa, delle detenute in attesa che la propria reclusione finisca. E pazienza per coloro i quali si sono eventualmente annoiati nelle fasi precedenti, effettivamente un po’ statiche. 107 madri è un’opera che non segue i rigidi schemi del cinema conformato ma si affida alla vitalità dei suoi personaggi che, seppur costretti, chi più chi meno, da mille sbarre e ostacoli, hanno sprazzi di libertà di coscienza che, nel codificato e omologato mondo occidentale, possono apparire spiazzanti. 





Maryna Klimova 


Iryna Kiryazeva


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domenica 25 agosto 2024

BUTCH CASSIDY

1535_BUTCH CASSIDY (Butch Cassidy and the Sundance Kid) . Stati Uniti 1969; Regia di George Roy Hill.

Sui titoli di testa scorrono immagini color seppia, quando una didascalia ci avverte che “i fatti narrati in questo film sono quasi tutti veri”. «Quasi». Il racconto filmico comincia e siamo ancora in una sorta di bianco e nero: e quello che vediamo di credibile ha ben poco. Va bene che Sundance Kid (Robert Redford) sarà stato anche rapido con la pistola, però quello che combina al giocatore che gli chiede se era davvero veloce nel tirare, beh, va subito ad alimentare il dubbio che quel «quasi» della didascalia sia stato una dichiarazione strategica. Finita la scena della partita a carte, i due protagonisti – insieme a Sundance Kid c’è naturalmente Butch Cassidy (Paul Newman) – lasciano il saloon e il film, poco a poco, vira sul «colore». Una scelta stilistica assai singolare, ma forse si tratta del modo in cui il regista vuole comunicare l’intenzione di smarcarsi dalla ricostruzione storica conosciuta – già abbastanza romanzata di per sé – per raccontarci una sua versione. Per farlo si affida ad una coppia di attori di prim’ordine – Paul Newman e Robert Redford, ça va sans dire tra l’altro in particolare stato di grazia, che ben presto ci lasciano capire che il film è tutto tranne che una ricostruzione, anche solo «quasi» realistica. Pur se il genere della pellicola è certamente il western, il tono è quello di una ballata – nel senso di un’opera più scanzonata – sorretta dalla simpatia dei due protagonisti, banditi da operetta che non vogliono rassegnarsi alla fine dell’epopea del far west. Il film uscì nel 1969 e gli echi rivoluzionari del tempo permeano la storia, che però si mantiene leggera, tutt’al più malinconica ma certamente non militante. La confezione è di gran lusso: alcune scene, quella della bicicletta o l’ossessivo inseguimento della posse, sono notevoli; il finale, poi, è di grande impatto e il fermo immagine finale è un capolavoro. In sostanza il film vive di alcuni momenti topici, mentre i frizzanti dialoghi e la simpatia dei protagonisti amalgamano il tutto. 

Anche il commento sonoro rafforza questa idea: la canzone Raindrops Keep Fallin' on My Head è formidabile, sebbene suoni un po’ estranea al resto della pellicola. L’uso della bicicletta, Butch che indossa una bombetta, il tipo di bellezza di Etta (Katharine Ross), la musica, insomma tutta quanta la messa in scena, sembra anni luce da un qualsiasi western, anche il più revisionista o crepuscolare. Ed è proprio questo essere fuori luogo, proprio anche del film nel suo complesso, ad essere in sintonia con le figure dei protagonisti, eroi ormai superati che non si vogliono arrendere alla fine della propria epoca: in definitiva è questo lo spirito della pellicola. In questo senso l’operazione di George Roy Hill potrebbe sembrare curiosa: il film a prima vista può sembrare permeato del disagio giovanile sessantottino, ma i due protagonisti sono inadeguati in quanto legati a vecchi sistemi di vita, per cui è un disagio di natura non solo diversa, ma addirittura opposta a quello militante. Non è quindi politico il rifiuto verso la società, da parte di Butch e Kid, ma semplice voglia di libertà, rifiuto di ogni tipo di vincolo o responsabilità, come ben evidenziato dalla proposta dei due allo sceriffo: condono di ogni pena in cambio dell’arruolamento in guerra contro la Spagna. La bellezza del film consiste anche nella sua consapevolezza: l’insofferenza, l’incapacità dei protagonisti è mostrata sempre senza speranza, senza vie di salvezza. Simbolicamente, Kid e Etta non vanno mai verso la composizione di un nucleo famigliare – che al cinema, vedi il tipico «lieto fine» romantico, indica una luce prospettica ottimista – perché Butch rimane sempre nei paraggi come forza potenzialmente in grado di scombinare il rapporto. Nel finale, la ragazza abbandona il duo per tornarsene a casa, non prima di aver preannunciato la tragica fine dei suoi amici. La composizione all’apparenza poco armonica dell’opera – con le foto seppiate che ritornano durante il viaggio in Bolivia, ad esempio, rendendo l’aspetto formale del film poco omogeneo – è quindi funzionale ad una storia che mostra il disagio dei due protagonisti, personaggi fuori tempo e fuori luogo che non sanno dove andare e non seguono una direzione precisa. 
Un film leggero, poco impegnato, dunque? Anche. Ma, forse, in piena rivoluzione sessantottina, il Butch Cassidy di George Roy Hill fu la dimostrazione che si poteva uscire dagli schemi del conformismo borghese, senza necessariamente finire inglobati in quelli della contestazione.  





Katharine Ross 




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venerdì 23 agosto 2024

LA COLLINA DEGLI STIVALI

1534_LA COLLINA DEGLI STIVALI . Italia 1969; Regia di Giuseppe Colizzi.

Terzo e conclusivo episodio della trilogia western di Giuseppe Colizzi con Terence Hill e Bud Spencer, La collina degli stivali non si discosta poi molto dagli esiti dei precedenti Dio perdona…io no! e I quattro dell’Ave Maria. Colizzi imposta bene il lavoro, ha gli elementi necessari, ma continua a sfuggirgli la formula per far funzionare al meglio la coppia Hill & Spencer. Infatti il suo Cat, il personaggio interpretato da Hill, volendo potrebbe essere autosufficiente, visto che è il classico eroe degli spaghetti-western, veloce di mano e di pistola. Al che Bud Spencer, nel ruolo di Hutch, scivola troppo spesso nel ruolo ingrato di semplice spalla, facendo un po’ la figura del bestione brontolone non particolarmente carismatico. Forse, capendo le potenzialità del duo, che non riesce comunque a carburare la meglio, Colizzi si dà un gran daffare aggiungendo altri interpreti di ottima levatura, qui addirittura Woody Strode nei panni di Thomas che, con George Eastman in quelli di Baby Doll, andrà a formare un quartetto di pards sul modello dei protagonisti dei fumetti di Tex Willer. Notevoli anche i comprimari, Lionel Stander è Mamy, il proprietario di un circo, e interessante anche Honey Fisher, il villain di turno, un viscido Victor Buono. Si nota anche lo sforzo narrativo, nel quale Colizzi, autore di soggetto e sceneggiatura oltre che regista, orchestra una trama complessa e un po’ farraginosa. Forse per questo cerca di alleggerire il peso della storia con le musiche, le scazzottate e la folta presenza femminile del circo di Mamy; ma quest’ultimo è in realtà un altro elemento che denota la scarsa incisività del lavoro di Colizzi, perché le ragazze, pur se molto carine, rimangono sullo sfondo senza che nessuna abbia la possibilità di lasciare un minimo ricordo. In un certo senso, La collina degli stivali porta all’estremo i problemi irrisolti di Colizzi nella sua interpretazione degli spaghetti-western, che si erano intuiti già dal primo pur apprezzabile Dio perdona…io no!
La collina degli stivali non solo non li risolve, ma ne vede aggiungersene degli altri. Peccato.     
  




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mercoledì 21 agosto 2024

I LUNGHI GIORNI DELLA VENDETTA

1533_I LUNGHI GIORNI DELLA VENDETTA . Italia 1967; Regia di Florestano Vancini.

Florestano Vancini è un regista forse poco noto ma ben considerato per la sua vocazione documentaristica o comunque legata agli episodi storici e politici. Il suo apporto al western, naturalmente alla corrente italiana del genere, si distingue per le motivazioni che muovono il protagonista. Non sarà certo la prima volta –anche in uno spaghetti western– che vediamo il prim’attore alla ricerca di giustizia, ma fa comunque piacere notare l’attenzione posta prevalentemente ad una questione non strettamente economica. Infatti, qui abbiamo Faccia d’angelo, (nome con cui è anche conosciuto il film), appellativo dato a quel Ted Barnett interpretato da un pimpante Giuliano Gemma, che scappa dal penitenziario per tornare a Kartown a fare chiarezza sulle accuse che lo hanno portato alla condanna e, soprattutto, capire chi ci sia dietro alla morte del padre. E adesso occorre chiarire un equivoco lasciato prima in sospeso: si è parlato di ricerca di giustizia, mentre nel titolo del film si fa riferimento al concetto di vendetta. Il punto è che, in un ambiente dove la legge era tanto approssimativa quanto spietata, (nel film lo stesso Barnett rischia di finire impiccato per errore), i due concetti potevano anche sovrapporsi e, spesso, nel rivendicare giustizia in via e a titolo personale, si sconfinava in modo quasi naturale in una vera e propria vendetta. Del resto lo chiamavano Wild West, selvaggio ovest, mica per niente. Inoltre, e qui veniamo allo specifico del film, è proprio una caratteristica del western all’italiana quella di presentare una tendenza ad arrangiarsi nelle dispute più che a far riferimento alle istituzioni preposte: la sete di violenza, se così si può definire, durante gli anni ‘60 era ancora in fase embrionale, nella società italiana, eppure la nostrana corrente western la colse con grande lungimiranza, anticipando l’esplosione che nel decennio successivo infiammerà la penisola (i famigerati anni di piombo) con riflessi altrettanto esplosivi sugli schermi, grazie soprattutto al genere poliziottesco


In ossequio ai capisaldi del filone il protagonista di questa storia si inserisce come terzo incomodo tra due fazioni, anche se in questo caso non si tratta di due schieramenti contrapposti ma alleati. A Kartown detta infatti legge il signor Cobb (Conrado San Martìn), che tra i suoi uomini annovera anche lo sceriffo Douglas (Francisco Rabal); l’attività più redditizia di questo gruppo di criminali è vendere armi alla banda di messicani psedorivoluzionari del generale Porfirio: Ted Barnett metterà i bastoni tra le ruote a questo commercio e, non potendo agire come il cowboy senza nome di leoniana memoria che si alleava ora ad una ora all’altra fazione, si affida più che altro alla faccia tosta di un sontuoso Giuliano Gemma per muoversi tra le due linee nemiche. Gemma porta in dote quella leggerezza, eredità del suo personaggio più celebre in ambito spaghetti western, ovvero Ringo, ma il tono del lungometraggio nel complesso non è tra i più allegri. 

Se l’ironia è solo abbozzata, rispetto ai cliché del filone, Vancini compensa con una maggiore attenzione all’elemento femminile. Due le donne del film: Dulcie (Gabriella Giorgelli) ha la funzione di flirtale scherzosamente con Faccia d’angelo, sfruttando a dovere il physique du role di Gemma, mentre è più interessante il ruolo destinato a Dolly (Nieves Navarro). Dolly era legata a Barnett, ma quando questi viene incarcerato si sposa con lo sceriffo Douglas: il ritorno sulla scena di Faccia d’angelo la pone in difficoltà, e non si capisce bene se assecondi il gioco di questi in modo sincero o per convenienza. Nel finale, quando Barnett sta per essere impiccato, rompe gli indugi e si schiera apertamente con lui, rimettendo la vita in un finale classicamente tragico e decisamente insolito per uno spaghetti western. Insomma, pur nella tradizione piuttosto semplicistica a livello narrativo del western all’italiana (molti i passaggi poco realistici o comunque più consoni ai cosiddetti fumetti popolari), I lunghi giorni della vendetta presenta alcuni aspetti interessanti ed originali. Certamente il riscatto mediante sacrificio di Dolly su tutti.  Oltre ad una confezione complessiva certamente positiva.   

Gabriella Giorgelli 



Nieves Navarro 



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