Translate

lunedì 13 maggio 2024

ARARAT - IL MONTE DELL'ARCA

1481_ARARAT - IL MONTE DELL'ARCA (Ararat). Canada, Francia, 2002; Regia di Atom Egoyan.

Ararat - Il monte dell’Arca: se ne parlava come il primo film che trattasse della questione armena dando voce ai discendenti dei sopravvissuti di quei tragici episodi e, alla fine, è proprio il caso di dirlo, questo atteso lungometraggio è arrivato anche in Italia. Ma non nella data prevista, il 24 aprile, giorno della memoria del Genocidio Armeno. No, la censura italiana ha detto no. Poco male, del resto quale che sia la natura del giallo del visto censura, pare una mancata riunione della commissione addetta, l’Italia ufficialmente riconosce il Genocidio Armeno perpetrato nell’Impero Ottomano tra il 1915 e 1916. Non è quindi il caso di fare i complottisti. Però, poi, guardando il film, qualche dubbio viene. E se invece fosse proprio il caso? Anche ricordando che l’indice internazionale della libertà di stampa, giusto per farsi un’idea in merito alla trasparenza nella circolazione delle idee, piazza l’Italia costantemente oltre il quarantesimo posto. Ma questo dovremmo tenerlo presente sempre e non solo guardando Ararat – Il monte dell’Arca, film di Atom Egoyan. Opera che fa riaffiorare i nostri dubbi proprio per la sua natura: non è, infatti, un film sul Genocidio degli Armeni. E’ un film che affronta il tema di come ci si relaziona alla Storia e quindi alla verità, quale essa sia. Il regista Egoyan è di origine armena; Charles Aznavour, che interpreta Saroyan, il regista nella finzione, è anch’esso di origine armena; insomma diventa quasi naturale, quasi una conseguenza, che i fatti del 1915/16 siano il punto cruciale. E c’è un motivo per quel ‘quasi una conseguenza’: perché se ci si ostina a non affrontare la realtà, a non superarla, questa rimane sempre presente. Forse per questo ci sono quelle immagini sfocate, sorta di ombre, all’inizio del film: che siano i fantasmi degli armeni uccisi dai turchi che non hanno ancora trovato pace? Nel caso faticheranno ancora a lungo a trovarla, finché ci sarà chi disquisirà se si sia trattato di genocidio o semplici stragi; come se per chi fosse morto faccia grande differenza. 

E’ chiaro che la differenza c’è, diversamente non ci sarebbero due vocaboli diversi; ma la cosa clamorosa, per quel fatto specifico, è che non se ne sia mai parlato, si sia sempre evitato di parlarne. Del resto pare che al cinema questa sia una sorta di prima volta, pur in un sottotema specifico. Quasi cento anni dopo. Per questo la querelle genocidio:si vs genocidio:no non può essere d’attualità; perché a monte c’è un tentativo di insabbiare completamente l’evento. E anche oggi, se capita un film che riporti l’argomento alla ribalta, ecco che la censura italiana salta la seduta facendo perdere la ricorrenza che avrebbe dato eco all’evento. Il problema, sembra dirci Egoyan, non è tanto cosa ci sia stato ai confini tra l’Impero Ottomano e quello Russo durante la Prima Guerra Mondiale; il problema è che non se ne parla e se se ne parla, si cerca subito di minimizzare, prima ancora di approfondire. Invece occorre parlare di questi fatti; e farlo nei modi più disparati. Nel film, tutti, in modo diverso, cercano in quei drammatici eventi un significato diverso, forse anche per scopi personali. Il regista Saroyan vuole fare un film per ricordare il genocidio ma sin da subito non si pone l’obbligo di essere storicamente attendibile: il monte Ararat non dovrebbe essere visibile dal villaggio dove è ambientata la vicenda ma lui non se ne fa certo un problema. Il suo lavoro è dirigere film e cerca di farli nel modo più evocativo e coinvolgente possibile e per riuscirci, insieme al suo collaboratore Rouben (Eric Bogosian), decide di aggiungere il personaggio di Gorky, non presente nel racconto all’origine dell’opera. Ani, (Arsinée Khanjian), critica d’arte che sul pittore Arshile Gorky (Simon Abkarian) ha scritto un saggio, è scettica, temendo che i due cineasti vogliano solo speculare sulla figura del noto artista armeno per dare lustro al film. Ma, a sua volta, si può dire che, nel dare le sue interpretazioni al lavoro del pittore, cerchi risposte a domande rivolte a sé stessa, più che attenersi alle opere d’arte prese in esame. 

Le mani della madre di Gorky del dipinto che è uno dei punti dell’analisi del suo libro, Ani è convinta siano volutamente lasciate incompiute; ci tiene una conferenza su questo argomento. Ma, in quel frangente, sembra aver quindi ragione Celia (Maria-Josée Croze), sua figliastra e sua tenace persecutrice durante la mostra dedicata al libro su Gorky: dalle immagini in flashback che vediamo le mani della madre vengono cancellate dal quadro solamente in seguito. In effetti Celia sostiene che Ani interpreti a proprio piacimento l’arte del pittore, forse per vincere i propri fantasmi. E dal canto suo la stessa Celia è anche meno lucida della matrigna critica d’arte, sempre in preda alle proprie convinzioni e in sofferta lotta con il proprio passato di cui incolpa proprio Ani. In questo intricato gioco ad incastri di personaggi che è Ararat – Il monte dell’Arca, il protagonista è probabilmente Raffi (David Alpay), figlio di Ani e quindi fratellastro di Celia, nonché suo fidanzato (non avete capito male, è davvero così). Raffi vuole comprendere perché il suo defunto padre fosse un terrorista armeno, mentre si barcamena nell’aspra contesa tra Ani e Celia. Andrà nei luoghi dello sterminio per cercare di comprendere ragioni che gli sembrano oscure ma solo dopo aver avuto un piccolo impiego nella realizzazione del film di Sarayan, a cui alla fine Ani ha accettato di collaborare. Qui il ragazzo ha uno scambio di vedute con Ali (Elias Koteas), attore che interpreta Jevdet Bay, un ufficiale ottomano nel film di Sarayan, uno dei più crudeli. Ali è di origine turca e ritiene che, quello degli Armeni, non sia stato un genocidio ma il frutto di semplici azioni legate alla guerra. Deportazioni, qualche uccisione, sì, ma cose legate alla sicurezza dell’allora Impero Ottomano. Grosso modo quella di Ali è l’idea condivisa dai turchi moderati di oggi: un argomento comunque trattato malvolentieri. O comunque di cui cercare di giustificare le ragioni, come prova appunto a fare Ali con Sarayan; che invece non pretende alcuna scusa da lui e piuttosto lo ringrazia per la convincente prestazione d’attore. Il meccanismo narrativo imbastito da Egoyan è sempre più complicato e scopriamo che Ali ha una relazione omosessuale con il figlio di David (Christopher Plummer), rigido addetto alla dogana canadese. 

David è un tipo inflessibile: ad inizio film blocca Sarayan alla frontiera perché ha con sé un melograno e c’è il divieto di importare prodotti ortofrutticoli in Canada. Serafico, il regista se lo mangerà sul posto. Successivamente David si trova a controllare Raffi, di ritorno dal suo viaggio nei luoghi del genocidio. Il doganiere è una delle figure chiave: è una sorta di giudice, stabilisce chi può entrare in Canada, è un padre severo che fatica ad accettare l’omosessualità del figlio, è tranciante nelle sentenze, come quando definisce Ali senza Dio ed è soprattutto Christopher Plummer, ovvero un monumento del cinema e questo, in un’opera di chiara matrice metalinguistica (Ararat – Il monte dell’Arca è un film sulla realizzazione di un film), vorrà pure dir qualcosa. In effetti è lui che compie l’evoluzione migliore, più significativa, nel corso della storia. Quando, nel bel passaggio finale, si rende conto della buona fede di Raffi non lo arresterà nonostante nelle pizze, le scatole metalliche che avrebbero dovuto contenere le pellicole, ci sia della cocaina. Non è importante, insomma, il contenuto del film, ovvero quello che c’è nei contenitori preposti al trasporto delle pellicole; e nemmeno è importante se Raffi gli abbia raccontato un sacco di balle, insieme a qualche verità. 

La cosa che conta è la sincerità intima del ragazzo. Della cocaina evidentemente non sapeva, e lo si capisce quando crede che David non accenda la luce per non rovinare la pellicola. Quanto alle confuse vicende snocciolate durante l’interrogatorio, l’impressione è che Raffi volesse raccontare la storia del suo popolo, la sua tragedia, ad un grigio funzionario occidentale che ostentava la totale ignoranza nel merito. Che importanza poteva avere se poi le cose non fossero precisamente aderenti alla realtà, se il giovane ne era così trasportato, partecipe? Ecco, dunque, la funzione del cinema; e anche del cinema di una tragedia. Non raccontare l’esatta verità storica, per quello ci sono le fonti ufficiali, i documenti, ma mostrare qualcosa di vivo, di credibile, di appassionante. Un po’ come fecero i western del cinema americano: anche lì si può discutere se si trattò di genocidio, tanto gravi furono le conseguenze per i nativi, ma questo non ha impedito di raccontare le avventure più disparate partendo da semplici spunti o fatti storici dell’epoca. Ecco, quindi, perché giustamente Egoyan nel suo film sul Genocidio Armeno, insegue comunque i suoi sentieri e, in una storia in cui ci sono solo due coppie, una è vagamente incestuosa e l’altra è omosessuale; e tutto è tranne che un mero reportage sui fatti del 1915. Della questione armena è necessario parlarne, con serenità, partendo magari da uno spunto vedendo un film come Ararat – Il monte dell’Arca, evitando, se possibile, le giustificazioni che si premura di accampare Ali nel film e che sanno tanto di excusatio non petita, accusatio manifesta. Film interessante, quindi.
Poi, i credits finali ci riconducono brutalmente all’italica realtà.
Lo schermo nero mostra due didascalie, lasciate in inglese senza un apparente motivo. A “The historical events in this film have been substantiated by holocaust scholars, national archives, and eyewitness accounts, including that of Clarence Ussher” segue “To this day, Turkey continues to deny the Armenian Genocide of 1915”. E se uno non conoscesse l’inglese, viene da chiedersi? Con quello che sembra un calcolato ritardo una voce over recita la traduzione della prima didascalia. ‘Calcolato ritardo’ perché, per chi non conosce l’inglese, diventa difficile capire se la traduzione è riferita a solo una didascalia o a tutte e due. Se la traduzione fosse stata letta sulle parole a cui si riferiva, come da prassi, ci si poteva infatti accorgere che in Italia non si ha intenzione di dire che ad oggi, la Turchia continua a negare il Genocidio degli Armeni del 1915.
Oltre il quarantesimo posto e con l’intenzione di scalare la classifica al contrario, puntando direttamente al centesimo. 






Maria-Josée Croze



Arinée Khanjian 


Galleria 



Nessun commento:

Posta un commento