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domenica 24 dicembre 2023

TARAS BULBA (1936)

1411_TARAS BULBA (Tarass Boulba). Francia, Regno Unito 1936; Regia di Alexis Granowsky.

Pierre Benoit ai testi, Alexis Granowsky in regia e Harry Baur a guidare il cast, avevano già fatto grandi cose in Le notti moscovite (Les nuits moscovites), film francese del 1934, e si ritrovano due anni dopo per un nuovo lungometraggio di ambientazione russa. In effetti Granowsky conosceva bene il tema, essendo nato a Mosca nel 1890: in gioventù aveva però lavorato anche all’estero, con Max Reinhardt, il famoso regista austriaco, in quel di Monaco di Baviera. Tornato in patria, nonostante il potere sovietico, insediatosi dopo la Guerra Civile, gli tributò riconoscimenti per la sua capacità di regista teatrale, Granowsky, abituato alla condizione artistica europea, cominciò a mal sopportare le troppe limitazioni imposte dal regime. Si spostò quindi di nuovo in Germania, in quella che, all’epoca, era nota come Repubblica di Weimar, e dopo qualche anno in Francia, mentre acuiva maggiormente il suo interesse verso il cinema. Con il citato Notti moscovite, Granoswky aveva già raccontato della sua terra natia ma, per il successivo lungometraggio, sceglieva di prendere come spunto addirittura uno dei capisaldi della letteratura russa. Pierre Benoit, l’importante autore del soggetto di Notti moscovite, in questa circostanza venne chiamato, infatti, solo in veste di sceneggiatore, per adattare il classico di Nikolaj Gogol, Taras Bul’ba. Da un punto di vista della funzionalità dell’opera, fu certamente una scelta felice, seppure potrebbe far storcere il naso ai puristi, fautori delle trasposizioni fedeli “alla lettera” delle opere scritte. Benoit si prese più di una libertà, nell’adattamento del romanzo di Gogol’, tanto che il Taras Bulba di Granowsky può essere considerato più un film francese degli anni 30 – come in effetti è – piuttosto che un’opera che rispetti la sua matrice originaria slava. Ma non si tratta di un limite: la vicenda raccontata da Gogol’ ha una tale forza primordiale da fungere da spunto epico valido ovunque, e non solo in patria, un po’ come accade per tutte le avventure di quel tenore, si prenda il cinema western a titolo di esempio. I cosacchi, con tutte le loro peculiari e affascinanti caratteristiche, sono personaggi ideali per questo scopo, e certo lo scrittore ucraino li aveva scelti proprio per questo, per agevolare la valenza epica del suo racconto. Il protagonista del film di Granowsky è il possente Harry Baur, probabilmente, a tutt’oggi, il miglior Taras Bul’ba mai apparso sullo schermo. 

Baur era un attore strepitoso, in assoluto uno dei più illustri della Storia del cinema francese: la sua performance aveva fatto la differenza in Notti moscovite tanto che, al tempo, l’attore transalpino era stato chiamato a recitarla anche nella versione inglese, Moscow Nights (1935, regia di Anthony Asquith) dove era stato, ancora una volta, il mattatore. Il suo Taras Bul’ba, per quanto enfatizzato, è un personaggio assolutamente credibile, istrionico, potente, vigoroso, caratteristiche tipiche dei cosacchi ma anche primordiali e, quindi, comuni, in misura minore o maggiore, a tutta l’umanità. E a questa radice ancestrale si appella Baur per dare linfa alla sua esuberante interpretazione, cogliendo, anche stavolta, nel segno. Ma in Europa, e specificatamente in Francia, a destare maggior attenzione era più che altro un aspetto della trama del libro di Gogol’, ovvero la storia d’amore tra il secondogenito di Taras, per questa occasione ribattezzato André in luogo di Andriy, e Marina –principessa che trovava finalmente un nome– in quanto polacca, nemica dei cosacchi. Se l’interprete nel ruolo di André, Jean-Pierre Aumont –al tempo discretamente noto– rende già in parte l’idea dell’importanza di questa traccia, l’attrice scelta per la controparte femminile toglie ogni eventuale dubbio nel merito. Una diciannovenne Danielle Darrieux, nel ruolo della principessa polacca, quando appare sullo schermo, è la degna antagonista di Taras/Baur, a cui ribatte, con sublime grazia e bellezza, la brutale vitalità. La Darrieux in Taras Bulba è una vera bambola di porcellana e, se le manca, forse, quello charme che la renderà indimenticabile nei film di Max Ophüls, lo compensa con la fresca ingenuità civettuola tipica della giovinezza. 

La raffinata bellezza di Marina, nel film, rappresenta quindi il fascino dell’occidente, a cui molti slavi, ucraini o russi che siano, sono soggetti, esattamente come André, che arriva a tradire la causa cosacca. Di contro, i valori dei popoli della steppa sono ben interpretati da Taras: coraggio, lealtà, audacia, caratteristiche che non mancano nemmeno al più giovane dei figli del protagonista, ma che sono più salde nel primogenito Ostap (Roger Duchesne). Questi segue infatti maggiormente le orme paterne ma si può osservare come i francesi, probabilmente, fatichino a comprendere l’ideale di vita cosacco di Taras, visto che, accanto a Ostap, troviamo costantemente Galka, che la vivace bellezza di Janine Crispin mette sempre in risalto rispetto al compagno. Il tema femminile, in senso apertamente denigratorio, è utilizzato già dal racconto di Gogol’, con i due figli che, quando tornano dalla scuola di Kiev, vengono presi in giro dal padre per le vesti che somigliano a sottane. L’autore sottolinea come il cuore della vita cosacca sia la Sič di Zaporižžja, luogo precluso alle donne, e non la casa o il paese, dove madri, mogli e figlie rimangono ad attendere i mariti nel caso non abbiano trovato l’ambita morte sul campo di battaglia. Nel romanzo, la principessa è lasciata senza nome da Gogol’, probabilmente per sancirne la misera importanza. Tra l’altro, ad un certo punto, verso la fine del racconto, sembra quasi che l’autore si sia scordato del suo personaggio, abbandonato senza che la sua vicenda, comunque cruciale per lo sviluppo della storia, abbia una minima “chiusa”. La scena del fratello della principessa che, alla penultima pagina, si sfracella sugli scogli del fiume Dnestr inseguendo i cosacchi in fuga, sembra quasi messa lì per scongiurare questo dubbio. Ma senza nemmeno tirarla direttamente in ballo, confermando quindi che la posizione “intellettuale” dell’autore in merito è più allineata a quella di Taras piuttosto che a quella di Andriy. Tornando al film di Granowsky, Marina, con la sua bellezza muliebre, rappresenta lo specchio dell’influenza occidentale che, non a caso, colpisce maggiormente il secondogenito di casa Bulba, ovvero quello che si applicava maggiormente negli studi. 

Nell’interpretazione francese –nonostante il film sia diretto da un regista russo la produzione è comunque transalpina– anche Ostap è soggetto all’influenza di una donna, ma Galka, per quanto bella e graziosa, si comporta sostanzialmente come un vero cosacco. Oltre a garantire un certo schematismo nella struttura narrativa, questa scelta permette di avere sempre –o quasi– una ragazza attraente sullo schermo, condizione che i produttori francesi sapevano bene essere cruciale nell’economia del successo di un film. In ogni caso, se la moglie di Taras è assente, per i suoi due figli, la compagnia femminile è l’elemento determinante: se è Marina a “corrompere” André, al contrario, Galka consolida l’attitudine cosacca di Ostap. Per quanto concerne la trama, il Taras Bulba di Granowsky rispetta almeno a grandi linee il canovaccio del racconto di Gogol’. Il passaggio cruciale, il brutale assassinio di André da parte di Taras, lascia sempre sbalorditi e atterriti, in questo caso anche lo stesso vecchio cosacco, a cui Harry Baur, in effetti, regala un bel passaggio emozionante sul piano intimo, sintomo di una levatura morale forse perfino sconosciuta al personaggio del romanzo. Ma il pezzo forte, da consumato attore, Baur lo sfodera nel finale, prima del quale ci sono, ad onor di cronaca, un buon paio di momenti d’azione dove le libertà della trama si fanno più evidenti, rispetto al soggetto di Gogol’. La battaglia che segue l’assedio al castello di Dubno, è il primo passaggio adrenalinico, mentre più originale è l’incursione per liberare Ostap, un attimo prima della sua esecuzione. Nella concitazione successiva, Taras viene ferito a morte; e il massiccio cosacco sembra doversi spegnere lentamente, tra la commozione generale, dei presenti e anche degli spettatori che, complice la regia di Granowsky, devono essersi già dimenticati di come quest’uomo abbia spietatamente freddato André. Il momento sembra lirico, l’addio al vecchio eroe che ha salvato il figlio, quello bravo, quello che è un vero cosacco e che ora gli è vicino, mentre il padre trova finalmente un po’ di quiete. Gli occhi del vecchio cosacco sono lucidi, le boccate di fumo, che aspira dalla pipa, si fanno via via più rade, perfino la musica (di Paul Dessau e Joe Hajos) che ha sorretto fin lì la narrazione con grande trasporto emotivo, sembra chetarsi.  Ma ecco che Baur tira fuori un suo tipico colpo di teatro e ha un ultimo, letterale, ruggito: il leone può anche morire, ma mai domo.



 Danielle Darrieux 





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