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domenica 3 dicembre 2023

IL COVO DEI CONTRABBANDIERI

1401_IL COVO DEI CONTRABBANDIERI (Moonfleet). Stati Uniti 1955; Regia di Fritz Lang.

Raggiunto l’apice della sua capacità espressiva nei noir, con una clamorosa escalation che culmina con Il grande caldo (1953) e La bestia umana (1954), Fritz Lang si prende una sorta di pausa. Il suo periodo noir americano, probabilmente il momento cinematografico di un autore migliore di sempre, avrà ancora un paio di spunti eccellenti, Quando la città dorme e L’alibi era perfetto (entrambi del 1956), ma nel 1955 il geniale autore deve prendersi una rivincita. Quasi vent’anni prima, ai tempi del suo primo film hollywoodiano, Furia (1936), la MGM, lo studio di produzione che praticamente l’aveva accolto in America, l’aveva pesantemente maltrattato e Lang aveva dovuto cambiare rapidamente aria. Di tempo ne era passato, il regista nato a Vienna aveva lavorato per la United Artist, la Paramount, la 20th Century Fox, la RKO, la Warner, la Columbia, oltre a fondare uno studio in proprio, la Diana Productions Inc., ma con la MGM rimaneva ancora un conto in sospeso. Il contratto offertogli per Il covo dei contrabbandieri permette a Lang di ottenere, in un certo senso, “soddisfazione”: lo studio del leone ruggente lo richiamava a lavorare per loro, ammettendo che, ai tempi di Furia –film, tra l’altro, splendido– era stato accusato ingiustamente e liquidato sbrigativamente. In tutto ciò, il soggetto del film da girare passava un po’ in secondo piano; questo, almeno, stando alla risposta che il regista dà a Peter Bogdanovich ne Il cinema secondo Fritz Lang (Pratiche Editore, pag. 89). In ogni caso, Lang fa appello alla sua professionalità e prende molto sul serio la storia avventurosa “alla Dickens”, ambientata nel 1700, raccontata ne Il covo dei contrabbandieri

Il risultato è assolutamente ragguardevole e sembrerebbe testimoniare che il regista abbia nelle corde anche questo tipo di vicende. In realtà, Lang ha un tale rigore e una serietà di approccio, che si può permettere di affrontare qualunque genere di film: Il covo dei contrabbandieri è un’avventura dall’aspetto visivo tipicamente hollywoodiano del tempo, con i colori caldi e saturi, le ambientazioni quasi interamente ricostruite in studio, gli attori perfetti per i ruoli. In questo genere di film la confezione formale è talmente “pulita” che, a vederla oggi, si avverte distintamente che si tratta di un’opera di finzione, seppure al tempo, probabilmente, dovevano sembrare credili rappresentazioni del vero. Lang, invece, è consapevole di questo scarto con la realtà, tanto che è proprio a proposito di Il covo dei contrabbandieri che spiega, nel citato libro-intervista, qual è il rapporto tra questa e il cinema, citando la scena di M, Il mostro di Dusseldorf (1931), dove un cieco, sentendo un organetto stonare, si tappa le orecchie e la musica cessa di colpo, anche per gli spettatori. La scena non è realistica, in una ipotetica realtà non basta mettersi le mani alle orecchie per zittire un rumore, ovviamente, ma il cinema è esattamente questo. Il covo dei contrabbandieri non è, quindi, un film storico ambientato nel 1700, ma un racconto avventuroso e una ricostruzione d’interni fatta ad Hollywood negli anni 50 è l’ideale per avere il risultato migliore, sebbene l’autore si lamenti del Cinemascope. È sempre a proposito di questo film, che il regista ribadisce e approfondisce la sua battuta tratta da Il disprezzo (regia di Jean-Luc Godard, 1963, nel quale Lang interpreta sé stesso), secondo cui “il Cinemascope va bene soltanto per i funerali e i serpenti”. 

Divertente ma, come al suo solito, un po’ troppo severo il buon Fritz, che ne Il covo dei contrabbandieri fa, nel complesso, buon uso dello schermo panoramico. Tornando ai temi del film, è ancora lo stesso Lang che tira in ballo Dickens come riferimento del suo lungometraggio, nel quale, in effetti, troviamo protagonista John Mohune (Jon Whiteley), un ragazzino orfano che la madre fa in modo di affidare al suo vecchio amante, Geremia Fox. Questi –che ha l’aspetto migliore che si può pretendere, per questo tipo di storie “in costume”, vale a dire quello dell’eleganza fatta persona, Stewart Granger– sembra un distinto gentiluomo ma è il capo dei contrabbandieri citati nel titolo italiano. E, impegnato com’è con i loschi traffici e le belle signorine, non ha certo tempo di badare ad un moccioso come John; e nemmeno l’attitudine, se vogliamo dirla tutta. Ma se Lang ci assicura che Il covo dei contrabbandieri è un racconto dickensiano, c’è da credergli e, in effetti, il film avrà uno sviluppo e soprattutto un finale edificante, come si conviene ad un testo per ragazzi. In realtà, sul finale ci sarebbe da obiettare, o almeno lo fa lo stesso autore, palesemente insoddisfatto del risultato rimasto sullo schermo, frutto di un tiro mancino del produttore. Sempre dal colloquio con Bogdanovic apprendiamo, infatti, che il regista aveva girato un finale in cui Fox, ferito a morte, una volta congedatosi con il piccolo John, spirava mentre si allontanava con la barca. Questa era la fine del film secondo Fritz Lang: a John doveva rimanere in eredità il ricordo di un uomo, certo non un santo, che però, nel momento decisivo, si era rivelato molto migliore di quanto credesse lui stesso. Era un finale ottimista, in tutto e per tutto, perché dimostrava che l’animo umano aveva risorse positive anche dove sembrava fosse impossibile trovarle. Ma Lang era un autore troppo onesto per raccontare storielle sdolcinate e, quindi, presentava comunque il conto da pagare a Fox, che, per salvarsi sul piano etico, doveva sacrificare la sua vita. 

Allo stesso tempo, il regista, immergeva in una luce tragica e triste la chiusura del racconto, che, in questo modo, avrebbe acquistato in spessore drammatico. Un finale triste che lascia un messaggio positivo e di speranza era davvero un colpo degno di Fritz Lang. Purtroppo, l’anonimo produttore opterà per inserire il finale di riserva, dopo aver per altro promesso al regista di non interferire in sala taglio. Nella versione definitiva, il piccolo John si dice fiducioso sulla possibilità del ritorno di Fox e questo stempera, almeno un po’, la tristezza prevista dall’autore; tuttavia parte dell’effetto previsto dal regista rimane anche in questa versione, che non è, in definitiva, da disprezzare. Il riferimento all’amicizia, motivo per cui secondo John, Fox, prima o poi, tornerà, riassume efficacemente il senso del film: anche l’insolita amicizia tra un uomo e un ragazzo, nata contro ogni pronostico, si veda l’iniziale scetticismo di Fox, può superare qualunque ostacolo. O almeno provarci. Il covo dei contrabbandieri è quindi un bel film, coerente con gli intenti e piacevole. Come detto, si tratta di un racconto per ragazzi, eppure Lang, appena può, lo incendia da par suo. Le scene dell’oceano durante i titoli di testa, l’incipit con l’arrivo di John al cimitero e la statua dell’angelo con gli occhi da demone, e poi il risveglio nel covo dei contrabbandieri, altri occhi di altri demoni puntati su di lui… passaggi da horror per ragazzi, è vero, ma emozionanti e di grande fascino. C’è però un altro aspetto che, in fin dei conti, desta maggior interesse. La presenza di un ragazzino al centro del racconto, lascia intendere che la traccia sentimentale non avrà tutto questo spazio e, in effetti, Il covo dei contrabbandieri non ha una storia d’amore che lo sostiene. Il che, negli anni 50, per un film comunque intriso di atmosfera romantica, è un fatto insolito. 

Ma qui sembra di poter leggere la sottile vendetta di Lang nei confronti della più “americana” tra le case cinematografiche di Hollywood, la MGM. Ai tempi del suo esordio hollywoodiano, l’America era per il regista l’ancora di salvezza; la bocciatura subita per Furia, da parte dello studio, era stata una cocente umiliazione. Rivivendone il ricordo, Lang sembra quasi soffrirne ancora, nel 1965, quando rilasciò la citata intervista a Peter Bogdanovich. Ma, forse, nel 1955, il risentimento dello scorno era ancora vivo e, cominciando a comprendere i limiti del sistema americano, che si possono leggere distintamente nei suoi noir, in particolare nei successivi Quando la città dorme e L’alibi era perfetto, il regista è stimolato a togliersi, quasi distrattamente, qualche sassolino dalla scarpa. Tra le cose da tenere a mente, va ricordato che, nel 1955, il terribile codice Hays, la censura americana, era ancora in vigore, e proprio di questa natura erano stati i problemi avuti da Lang ai tempi di Furia. Riassumendo: la MGM, il più sfarzoso degli studios americani, dopo vent’anni, propone a Lang di dirigere un film, un modo per chiudere la vecchia contesa, anche perché Furia, nel frattempo, si era attestato come opera di assoluto livello. Lang accetta, è comunque una piccola rivincita; piccola, certo, perché la MGM gli sottopone un film minore, 83 minuti di spicciola avventura tra banditi e contrabbandieri, e un giovinetto ad intralciare eventuali pretese ardite dell’autore. Il regista svolge il compito con professionalità, ottenendo certamente un risultato dignitoso. 

E sfrutta, a suo vantaggio, l’impossibilità del soggetto di sorreggere una storia d’amore che dia corpo al film, destinato, anche per questa sua lacuna, a rimanere un’opera di puro intrattenimento e niente più. E dire che nel copione ci sono tre donne piuttosto avvenenti, ma nessuna destinata ad assurgere al rango di partner di Stewart Granger. Liliane Montevecchi è la zingara, che, con il ballo sui tavoli della taverna, infiamma le fasi iniziali, ma viene tolta di mezzo velocemente dalla trama. Viveca Lindfors avrebbe sia l’aspetto fisico che il ruolo, Mrs. Minton è una sorta di fidanzata ufficiale di Fox, per imprimere un’impronta sentimentale al racconto, ma questa opportunità le è costantemente mortificata. All’appello manca da citare Joan Greenwood, bellissima donna ma certo non uno schianto, nel senso hollywoodiano del termine; comunque una figura affascinante e sensuale. L’attrice inglese interpreta Lady Ashwood e, con il marito, Lord Ashwood, va a comporre una coppia sordida e, volendo ben vedere, assai meno raccomandabile dei brutti ceffi che compongono la banda di contrabbandieri al soldo di Geremia Fox. Nei panni del citato aristocratico troviamo George Sanders, insuperabile quando c’è da portare sullo schermo qualche untuoso e viscido individuo. L’attore britannico non delude le attese nemmeno stavolta, e il suo Lord Ashwood è davvero un bieco personaggio; chi approfitta quasi di soppiatto della situazione, il rapporto d’interessi e sfiducia reciproca tra Ashwood e Fox, è Joan Greenwood che, a sua volta, tratteggia una nobildonna inglese spudorata e disinibita. 

Il suo corteggiare e sedurre sfacciatamente un bellimbusto come Fox, anche alla presenza del consorte, lascia intendere ben più di quanto poi Lang sia disposto a mostrare. Il regista, infatti, memore delle noie avute vent’anni prima con la censura, è abile ad assecondare il gioco della seduzione di Lady Ashwood, senza di fatto mostrare niente, eccezion fatta per la scena della carrozza, comunque formalmente pienamente nei ranghi del bon-ton cinematografico del tempo. Lang, in sostanza, con la scusa di sottostare al regime censorio, spoglia il film di una seria traccia sentimentale, e lascia spazio a qualche capriccio di Mrs. Minton, alla scena stuzzicante della danzatrice e alle malsane, immorali e soprattutto impunite allusioni di Lady Ashwood. Il triangolo Fox-Lady Ashwood-Lord Ashwood non ha lo spessore necessario a sfociare nel melodramma ma il fatto che il nobiluomo accetti, quasi di buon grado, la situazione che lo vede essere tradito in modo palese dalla moglie con il futuro socio, diviene un elemento quasi disturbante. Un ulteriore fattore che inquieta è lo sguardo benevolo che la regia di Lang concede alla dama, quando, soprattutto in un film d’avventura dagli intenti edificanti, ci si aspetterebbe ben altro. Al contrario, Lady Ashwood, donna ricca, viziata e viziosa, si diverte in modo immorale e, se è vero che non le riesce il colpo gobbo, è l’unica del trio criminale a salvare la pelle.   
Alla faccia del codice Hays e della MGM.
 





 Joan Greenwood 




Viveca Lindfors



 Liliane Montevecchi 



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