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venerdì 22 dicembre 2023

FEBBRE DI VIVERE

1410_FEBBRE DI VIVERE (A Bill of divorcement). Stati Uniti, 1932; Regia di George Cukor.

Già nel 1970, durante le conversazioni che prenderanno corpo nel prezioso tomo On Cukor (1972, di Gavin Lambert), il regista di origine ungherese non aveva molto da obiettare sul fatto che Febbre di vivere risultasse datato. In effetti, è ben credibile che l’ambientazione nell’alta borghesia anglosassone, dai modi tanto garbati e dalle dichiarazioni struggenti tra innamorati, sia rapidamente passata di moda, al punto da sembrare un po’ stucchevole già mezzo secolo fa. Tuttavia il soggetto di evidente ambizione teatrale di Clemence Dane, A Bill of Divorcement, ha una tale struttura che, a suo modo, lo mantiene interessante ancora oggi. Non siamo di fronte ad un film d’azione e, di conseguenza, la trama è ovviamente ridotta al minimo, ciononostante la sceneggiatura prevede almeno un significativo episodio che cambia l’intera prospettiva del racconto, costringendo i personaggi ad adeguare i propri sentimenti, intimamente o nelle dichiarazioni di facciata. E chi meglio di George Cukor, dietro alla macchina da presa, poteva trasformare un simile valzer delle emozioni in un film, nel complesso, tutt’ora appassionante? Forse nessuno, dal momento che Cukor venne definito ‘il regista delle donne’ e qui, al centro della scena, sono i sentimenti di Margareth (una deliziosa Billie Burke) e di sua figlia Sydney (Katharine Hepburn, al suo debutto sullo schermo). La madre ha appena divorziato da Hilary (John Barrymore) tornato dalla Prima Guerra Mondiale fuori di senno in seguito ad uno scoppio di una granata e rinchiuso in un manicomio. Margareth vuole risposarsi con Gray (Paul Cavanagh), con il quale ha scoperto l’amore: ai tempi, il suo matrimonio con Hilary era stato un azzardo. 

Dopo tutti questi anni di lontananza, lei a casa a crescere Sydney, lui prima in guerra poi nella struttura ospedaliera, si era scoperta a non amarlo più. Anzi, il paragone con la passione che provava per Gray, l’aveva convinta che, in effetti, non aveva mai amato suo marito. Già qui è evidente come il personaggio interpretato da Billie Burke sia abbastanza tormentato e l’attrice è molto brava a darle una tridimensionalità passiva e un po’ indolente, quasi che la donna subisse queste emozioni più che provarle. Ma i punti di forza del film sono ancora da scoprire: innanzitutto nel colpo di scena della trama, con il ritorno a casa di Hilary del tutto rinsavito e ignaro del divorzio a cui è stato sottoposto. L’uomo ha una vena artistica, è compositore di musica, e John Barrymore se la cava egregiamente nella parte di un tipo un po’ naif che non vuole mollare la sua sposa che ha sognato di riabbracciare per anni. Il suo ingenuo attaccamento ai ricordi, a sentimenti ormai sbiaditi, coglie in contropiede Margareth, che sarebbe stata maggiormente scossa dal suo tipico aplomb, se l’uomo avesse dato in escandescenze. Ovviamente in qualche frangente il rischio c’è, ma Hilary sa che sul suo capo pende la concreta ipotesi di venire rinchiuso nuovamente, se dovesse risultare pericoloso. Da parte sua, la Burke è ancora bravissima a rendere i tumulti interiori, i sensi di colpa e la mancanza di coraggio di Margareth mentre Gray, impaziente, la esorta a tagliare la corda con lui. 

Ma il vero piatto forte del film è la prestazione di Katharine Hepburn. Kate, esordiente sullo schermo ma già avvezza a calcare i palcoscenici teatrali, si trova alle prese con alcuni passaggi non semplici. Ad esempio, deve condensare in una singola scena, l’emozione di trovarsi di fronte un padre che non ha mai conosciuto e che le si para d’innanzi all’improvviso. Tra le cose che deve centrifugare la sua capacità interpretativa ci sono: la scarsa stima che il suo personaggio ha dell’uomo; al quale, per altro, la madre le imputa di somigliare; il fatto che il padre non sia al corrente del divorzio appena ottenuto da sua moglie e, quindi, il suo ritorno a casa risulti, per assurdo, inopportuno; finanche la scoperta che la pazzia del genitore non è legata allo scoppio di una bomba ma è una tara genetica, della quale lei stessa può essere soggetta. In aggiunta a ciò, Sydney si era appena promessa sposa a Kit (David Manners), con il quale aveva poi pianificato una vita domestica piena di marmocchi; la consapevolezza di avere in dote una tara ereditaria poneva la povera ragazza di fronte ad un altro problema mica da ridere. In effetti, il soggetto del film è perfino esagerato, in fatto di elementi struggenti, ma l’equilibrio è comunque trovato dalle forze che bilanciano sapientemente questi eccessi. A partire dalla citata ambientazione alto-borghese d’epoca, ben incarnata dal registro interpretativo di Billy Burke, e amalgamata dall’ironia di quello di John Barrymore. Cukor, in cabina di regia, volteggia leggiadro sul palcoscenico virtuale che finisce impresso sullo schermo, con la consueta calcolata misura. Infine Kate Hepburn sfodera fin da subito la proverbiale classe, un misto di carattere indomito e ribelle e fragilità ribollente che viene sì contenuta e alla fine soppressa, ma a fatica. E non senza aver prima illuminato lo schermo. 



Katharine Hepburn 




Billie Burke 


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