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lunedì 14 settembre 2020

TOMAHAWK - SCURE DI GUERRA

634_TOMAHAWK - SCURE DI GUERRA (Tomahawk). Stati Uniti, 1951. Regia di George Sherman.

Ennesimo esempio che dimostra come il western classico fosse già filo indiano fin dagli anni cinquanta, Tomahawk, scure di guerra, è un valido romanzo storico cinematografico. Il film pone subito in chiaro le ambizioni di non essere unicamente opera di svago ma di avere anche un ruolo almeno parzialmente didattico. E forse questa impostazione un po’ schematica può essere intesa come una debolezza del film di Sherman sebbene sia un limite sopportabile. Al cinema western, negli anni del dopoguerra, fu infatti deputato lo scopo di raccontare epicamente la nascita della nazione, compiuta in modo concreto e al tempo stesso identificata simbolicamente, con la conquista del west. Ma questa celebrazione della grandezza americana rischiava di dimenticare chi ne aveva pagato il conto più salato, ovvero gli indiani d’America. Questo deve aver pensato George Sherman che, con il suo film, racconta, in modo romanzato, del tentativo degli americani di aprire una pista, il Bozeman Trail, attraverso i territori Sioux del capo Nuvola Rossa. L’idea era quella di costruire una serie di forti militari in territorio indiano per garantire il flusso dei coloni verso i terreni auriferi del Montana, scoperti in quel periodo. Protagonista del racconto è Jim Bridger (Van Heflin, bene in parte), personaggio storico realmente esistito; a suo fianco, Sol Beckworth (l’ottimo Jack Oakie) e, a cercare di mettere un po’ pepe rosa, pur senza grande costrutto, Julie (Yvonne De Carlo, peraltro gradevole). Interessanti i cenni storici, tutto sommato abbastanza fedeli agli eventi, come i trattati di Laramie non firmati da Nuvola Rossa o il forte dato alle fiamme a vicenda conclusa.

Interessante anche l’attenzione posta sui fucili a retrocarica introdotti dall’esercito statunitense, un’innovazione meccanica decisiva nelle guerre indiane. Ma ad avere la ribalta migliore sono gli indiani: i Sioux, e in particolare Nuvola Rossa, sono raffigurati con pregevole attenzione. Il capo è mostrato in modo adeguato, col cimiero di penne d’aquila, all’incontro per i trattati o durante le azioni di battaglia, mentre nel campo lo vediamo con un’unica penna, esattamente come nelle fotografie più note che lo ritraggono. L’interprete John War Eagle ci offre un’ottima interpretazione, decisamente carismatica pur non avendo poi tutto questo spazio a disposizione sullo schermo. In ogni caso, la cultura indiana è mostrata con rispetto, magari in sequenze che riprendono azioni poco affini alla nostra comune morale, come l’abitudine dei ragazzi pellirossa di rubare cavalli nell’intento di compiere atti di coraggio per dimostrare il proprio valore. 

Oppure direttamente dalle parole di Bridger: lo scout descrive in modo oggettivo, seppur brevemente, la cultura degli indiani delle praterie basata sulla caccia al bisonte, mentre è molto più accorato quando racconta della sua tragedia famigliare. La povera Julie, inizialmente un po’ superficialmente razzista, si invaghisce dell’uomo, che però le racconta di come fosse sposato ad una donna indiana, trucidata poi con il figlioletto, da una squadra della milizia di volontari americana. La faccenda la turba un poco e, quando vorrebbe scusarsi, per aver tenuto un comportamento discriminatorio nei confronti della giovane nipote di Jim, la cheyenne Monahseetah (Susan Cabot, molto carina), l’orgoglio la frena. Suo zio Dan (Tom Tully) le dà però un parere illuminante: se fosse veramente pentita, scusarsi non le costerebbe fatica; osservazione nient’affatto banale. 

Ma va anche detto che, in un film prevalentemente di azione, c’è poco tempo per le parole e quindi anche la storia d’amore tra Jim e Julie non trova il modo di svilupparsi e andare in porto, almeno per quello che si vede. Preme maggiormente, a Sherman, mostrare la conclusione della vicenda storica, con il successo (almeno temporaneo) dei Sioux. E anche in tema di parole, c’è un ulteriore dettaglio che nel film premia con maggior attenzione gli indiani. Seppur i dialoghi tra i nativi sono probabilmente non attendibili, c’è almeno una parola, wasichu, che Nuvola Rossa pronuncia distintamente e che era il termine usato dalle tribù di lingua dakota per definire gli uomini bianchi. Il termine pare significasse ‘he takes fat’, ad indicare l’attitudine dei discendenti degli europei a accaparrarsi il grasso, la parte migliore delle cose. L’utilizzo di un termine autentico è forse un dettaglio marginale, ma a suo modo significativo, del rispetto dell’opera nei confronti dei nativi americani. E poi, almeno per questa volta, i bianchi il grasso l’han dovuto lasciare. 







Yvonne De Carlo






Susan Cabot







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