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martedì 4 dicembre 2018

CIELO SULLA PALUDE

252_CIELO SULLA PALUDE  Italia, 1949;  Regia di Augusto Genina.

A vederlo oggi, Cielo sulla palude di Augusto Genina, sorprende di come sia un film abitualmente poco considerato. D’accordo, forse Genina si accoda agli stilemi cinematografici del neorealismo con mestiere, allo stesso modo in cui dirigeva in precedenza film di propaganda fascista. E chissà, forse anche l’argomento trattato, vita e, ahimè, morte assai prematura e traumatica di Maria Goretti, non avrà attirato, nel corso del tempo, le simpatie della critica cinematografica nostrana, da sempre non troppo benevola verso i prodotti di cui si presume una forte ispirazione cattolica. Ma in fondo qui la religione c’entra relativamente: certo, la Goretti l’hanno fatta santa e sicuramente la sua devozione era profonda e sincera. Però il film non si concentra solo sull’aspetto religioso della vita di Maria, almeno non più di tutto il resto. E proprio quel resto, ovvero l’ambiente delle paludi pontine, che Genina illustra in modo esemplare, aiutato dalla straordinaria fotografia in bianco e nero di Aldo Aldò Graziati, sembra oggi di grandissimo valore cinematografico. La vita della povera gente, le asprezze di alcuni di loro, come ad esempio Giovanni Serenelli (Francesco Tomalillo) padre di quell’Alessandro (Mauro Matteucci), che fu l’assassino della povera Maria (Ines Orsini). Ma anche la solidarietà di altri, come i vicini di casa dei Goretti, o il buon cuore, certamente di maniera, quello sì, della contessa, da contrapporre all’indifferenza istintiva e preventiva verso gli altri del marito conte. 
Insomma, se i personaggi sono illustrati con poche ma incisive pennellate che ne scolpiscono con efficacia le caratteristiche, sull’ambientazione paludosa della zona intorno a Nettuno, una palude ancora intrisa di malaria che i contadini cercano disperatamente di coltivare, Genina si supera, e riesce a fornire un quadro certamente convincente. In questo ambito si svolge la vicenda dei Goretti, famiglia di Maria, una ragazzina undicenne che, giustamente, Genina evita di santificare in maniera eccessiva e preventiva: la giovinetta è poco più di una bambina e la sua ingenuità, certamente dovuta all’indole spontanea e sincera unita forse anche alla mancanza di ogni possibile tentazione, è probabilmente quella di molte altre fanciulle nelle medesime condizioni. 

La purezza di Maria è quindi quasi naturale, non assolutamente forzata; l’assenza di malizia alla base e la contemporanea mancanza di elementi corruttivi avevano preservato la ragazza nella completa e sincera innocenza. C’è forse una forma di moralismo (ma con innegabile fondo di verità) da parte del regista, nel mostrare come sia dall’ozio in cui giace perlopiù Alessandro, che nascono i pensieri maliziosi prima e via via più ossessionati, che porteranno all’aberrante crimine ai danni della ragazzina. Un ambiente malsano non può che produrre atti malsani, si potrebbe dire. E qui, probabilmente, più che sulle parole in punto di morte della povera Maria che nel film perdona Alessandro prima di spirare, che si innesta la volontà popolare di rifiutare una simile conclusione. 
La folla che accorre al capezzale della ragazza non ha una motivazione narrativa ma risponde alla necessità di elevare il sacrificio di Maria in risposta al male scaturito nell’orribile delitto. La collettività si aggrappa alla giovane ragazza per ribellarsi dalla propria condizione di miseria morale oltre che economica: in questo senso è quasi normale notare come, oltre alla chiesa cattolica che l’ha santificata, la figura di Maria Goretti sia stata presa a modello prima dai fascisti e in seguito anche dai comunisti.
Ma questo non deve suonare come accusatorio per la strumentalizzazione che si potrebbe pensare sia stata fatta di volta in volta: non è questo il caso. La purezza di Maria Goretti, qualunque sia la causa che l’ha preservata, è un valore universale, e quindi è logico che tutti vi riconoscano l’importanza assoluta.
E il film di Genina assolve benissimo questo compito in ambito cinematografico.  


Ines Orsini

     



lunedì 3 dicembre 2018

THE HURT LOCKER

251_THE HURT LOCKER  Stati Uniti, 2008;  Regia di Kathryn Bigelow.

Kathryn Bigelow, oltre che una formidabile regista, è anche una gentildonna, e così la traccia principale del suo film ce la fornisce direttamente lei: ‘la furia della battaglia provoca dipendenza totale perché la guerra è una droga’. La frase riportata sullo schermo, all’inizio di The Hurt Locker, è dello scrittore Chris Edgar e si riferisce alla forza che spinge tanti uomini, del mondo occidentale e benestante, a recarsi nei luoghi di battaglia a sopportare condizioni estreme mettendo in serio pericolo la propria vita. Da questa interessante riflessione la Bigelow ne ricava un’ulteriore sintesi nella successiva didascalia: ‘la guerra è una droga’; oltre, naturalmente, ad un magnifico film. The Hurt Locker è infatti un grande film, un film bellico senza tanti fronzoli, all’apparenza; in realtà un film che va alla radice stessa della violenza, a quella forza primordiale che quando prende la mano può trasformare una scazzottata goliardica tra commilitoni in un assassinio. Il passo è breve, e quando l’adrenalina sale è quasi impossibile controllarla; questo può dirlo qualunque individuo abbia perso il controllo durante un acceso litigio. Questo stato di alterazione della percezione, dovuto al fatto che l’individuo/soldato è costretto ad essere più attento, più veloce nel reagire e nel prendere decisioni, più determinato, è sempre stato presente in qualunque guerra. Ma nell’occupazione dell’Iraq, e in generale dei territori del medio oriente di questi tempi, questa situazione si è amplificata: gli iracheni ribelli non possono affrontare apertamente gli americani, per via del superiore armamento e preparazione di questi ultimi, e allora ricorrono ai più subdoli trucchi. 
A costringere i militari americani in una morsa c’è anche la spada di Damocle dell’opinione pubblica, nel film rappresentata dal tizio sul balcone con la videocamera: c’è sempre qualcuno pronto ad immortalare un sopruso degli occupanti per alimentare i moti di ribellione, sollevando l’opinione pubblica mondiale semplicemente postando un filmato su un social network. A vederla così, quella dei militari americani è una situazione apparentemente insostenibile: dai locali aperta e prevedibile ostilità e continue provocazioni, e quei pochi atteggiamenti amichevoli nascondono, la maggior parte delle volte, insidie di attentati; 
a fronte di questo scenario, gli occupanti devono stare anche attenti a come si comportano, evitando soprusi o atti di violenza inutile. Non a caso uno degli ufficiali americani, nel film, quando un iracheno rimane gravemente ferito e necessita soccorso in tempi brevi, nega ripetutamente al suo soldato di farlo soccorrere. Se non possiamo ammazzarli liberamente, lasciamoli crepare quando non verremo accusati di questo, sembra pensare l’ufficiale, concretizzando in una semplice decisione la durezza della situazione. Ma questo insostenibile scenario probabilmente rappresenta, al contrario di quello che si può pensare, il combustibile per l’adrenalina che è la droga da cui i soldati finiscono per dipendere. 
Il parallelo con la dipendenza dai videogames è richiamato da una scena nel film: non è tanto che l’opera si relazioni ai videogiochi, anche se la comune fonte d’ispirazione bellica rende possibile il paragone, ma gli effetti di esagerata eccitazione, stato psicofisico oltre il quale si raggiunge il frastornamento per overdose, sono simili. E sono quelli che finiscono per creare una vera e propria dipendenza.
In The Hurt Locker la guerra è quindi mostrata, in estrema sintesi, per quello che è: una droga, certo, e quindi si potrebbe anche definire un vizio, un gioco. Lo scandire dei giorni che mancano alla fine del turno scorre proprio come nei videogames e quando arriva a zero ricomincia da capo. In tutto questo sembra mancare certamente un quadro morale: nel film non vengono analizzate le ragioni politico/sociali del conflitto o dell’occupazione, ma forse perché non sono queste le vere radici della guerra in Iraq, come non lo erano e non lo sono (e aimè non lo saranno) nelle altre. Ma un aspetto morale nel film c’è, ed è quello che dà il titolo al film stesso. The Hurt Locker [l’armadietto del dolore] è un’espressione militare dai molteplici significati: da un’area in cui può succedere qualcosa di pericoloso e imprevedibile (come quelle che si vedono nel film intorno agli ordigni da disinnescare), alla cassetta con gli effetti personali dei caduti (si vede anche questa, in seguito alla morte del sergente Thompson, interpretato da Guy Pierce). 
Ma, e questo è il vero cuore del film, la definizione è anche una metafora di un luogo dove chiudere i propri sensi di colpa per le atrocità a cui costringe la guerra. Il sergente James (Jeremy Renner) ne ha uno, simbolico ma anche solido e concreto, giusto sotto la branda. Il quale sergente James è uno sminatore ed è talmente temerario da sembrare pazzo persino ai suoi colleghi, al più equilibrato sergente Sanborn (Anthony Mackie) e anche all’emotivo specialista Eldrige (Brian Geraghty). Ma a vederlo sullo schermo si comporta come un vero eroe americano: e dopo l’ennesima audace azione condotta con successo, un superiore si complimenta con lui, definendolo al contempo, completamente folle e vero uomo
E qui un parallelo tra la follia degli attacchi suicidi degli iracheni e l’atteggiamento del nostro eroe, viene spontaneo; anche perché lo stesso James gioca con le parole, facendo riferimento per la sua dissennata condotta alla definizione attentato suicida, quando questa ovviamente indica la sorte destinata all’attentatore. C’è quindi una sovrapposizione nella follia di questi gesti tra l’attentatore suicida e chi rischia la propria vita per disinnescare l’ordigno. Ma, guardando il film, per noi occidentali risulta impossibile comprendere gli iracheni (e altri come loro) che vogliono morire per la loro causa, mentre siamo propensi a definire eroico il comportamento di un militare americano temerario ben oltre il limite. 
E per evidenziare questa contraddizione nel nostro metro di giudizio, il nostro James viene mostrato anche durante il congedo: tra le file di un supermarket, in mezzo a scaffali ordinati e colmi di ogni ben di Dio, con la bella moglie e il tenero figlioletto ad attenderlo a casa. Quale motivo potrebbe spingere un individuo sano di mente a lasciare questa vita per andare a fare l’artificiere in zona di guerra? Certo, la guerra è una droga, e questa spiegazione potrebbe anche bastare, d’altronde James è dipendente anche dal fumo. Se ricordiamo la didascalia ad inizio film, il conto dovrebbe chiudersi qui. Eppure c’è anche qualcos’altro; qualcosa che non torna del tutto, nel comportamento di James. E il suo tentativo di fare l’eroe americano? Il suo solidarizzare con il giovane Beckham? Il suo cercare un pretesto eroico (il cadavere del ragazzino non fatto saltare per aria)? Il suo mettersi a fare l’investigatore privato (in una scena in verità troppo cinematografica per essere credibile nel resto del contesto più che realistico del film) per vendicare il giovane amico? E, in fondo, anche, il suo cercare ostentatamente la morte, può essere davvero motivato dal solo brivido adrenalinico? Forse; ma forse i suoi non sono che velleitari tentativi di scampare la propria sorte. La guerra non è solo una droga è anche un mostro, il più terribile dei mostri. Ed è un po’ come se James avesse guardato l’abisso di Nietzsche e l’abisso avesse guardato dentro di lui, perdendolo definitivamente.
E anche noi, che accettiamo passivamente lo stato delle cose, con lui.


domenica 2 dicembre 2018

MARNIE

250_MARNIE  Stati Uniti, 1964;  Regia di Alfred Hitchcock

Marnie è davvero un film strano: è abbastanza lungo, oltre le due ore, e, pur non essendo certamente pesante, dopo un po’ un certo spaesamento si avverte, durante lo scorrere della pellicola. Dove ci starà mai portando, questa volta, il grande Hitch? D’accordo, Tippi Hedren, che interpreta Marnie, la protagonista del film, è incantevole, ma lei stessa appare ingabbiata, presa in trappola, un po’ come i suoi capelli impacchettati in tante diverse e studiatissime pettinature. Il discorso sull’amore folle, un po’ come ne La donna che visse due volte è interessante, e l’istinto predatorio del maschio di turno, un aitante Sean Connery (che interpreta Mark Rutland), alla lunga rischia di divenire un po’ stucchevole. Non aiutano le interpretazioni psicanalitiche un tanto al chilo, anche perché sono disinnescate dalla stessa Marnie che lo dice apertamente in un dialogo; trovata davvero troppo ingenua per essere d’aiuto. Altre pecche si possono cogliere in qualche passaggio tecnico, come la caduta da cavallo: d’accordo che non si tratta di un film d’azione, ma il geniale regista inglese ci aveva abituato a ben altre ricostruzioni. Ma questi alla fin fine sono dettagli e sono altri gli aspetti meritevoli della pellicola, che rimane pur sempre notevole. Innanzitutto già dai titoli di testa, geniali: si sfogliano all’indietro, come a dire che lo sviluppo del film deve essere a ritroso, ovvero un tornare al passato. E il primo nome che compare è quello della Hedren, e non di Connery: oltre a dover essere ritenuta la star principale della pellicola, il fatto sembra indicare che è quindi su di lei che bisogna indagare; ed essendo un film di Hitchcock poteva essere anche scontato, d’accordo. 
La lunghissima fase iniziale del film ha spunti notevoli, ad esempio quando Marnie compie il furto dalla cassaforte, con l’inquadratura divisa a metà, da una parte la ladra e dall’altra l’anziana donna delle pulizie. Due donne che stanno ripulendo l’ufficio si dividono la scena: quando la giovane si accorge di non essere sola, si leva le scarpe col tacco, per evitare di fare rumore, e visto che ha le mani indaffarate se le infila nelle tasche del cappotto. Una scarpa però cade, facendo rumore: la donna delle pulizie non fa una piega: evidentemente è dura di orecchio; Marnie si defila quindi alla chetichella, un istante prima che giunga il guardiano notturno che, rivolgendosi ad alta voce alla donna anziana, conferma che quest’ultima ha problemi di udito.  


Una sequenza magistrale, perché la suspense è continuamente rafforzata: già implicita nel momento in cui vediamo la donna nell’atto di rubare, ha un picco quando Marnie si accorge di non essere sola, poi un altro col rumore della scarpa che cade e un ultimo quando compare sulla scena la guardia. Inoltre la sequenza mette sul tavolo tutte le carte principali del film: la protagonista è una ladra ed è al contempo un feticcio, elemento evidenziato dall’importanza sulla scena delle scarpe col tacco e dai piedi nudi velati dalle calze di nylon della Hedren, aspetti che sono elementi tipici del feticismo sessuale. 

E il tema portante della storia è proprio l’amore feticista del ricco Rutland per una ladra, probabilmente proprio per questa inclinazione cleptomane, e forse anche per la posizione di vantaggio in cui si viene a trovare ad un certo punto lui, quando la può, in un certo senso, ricattare. Il fatto che la donna sia frigida, come emerge nel proseguo, è forse da intendere come un’altra complicazione connessa al desiderio: si desidera infatti quel che non si può avere. In questa fase centrale del racconto, Hitchcock mette molta carne al fuoco, dal rapporto animalesco tra i sessi, in perenne caccia, agli aspetti psicoanalitici, ma senza un particolare ordine, e l’aspetto generale si salva solo per via dell’atmosfera onirica che pervade la storia. Rimane portante il tema tipico hitchockiano della donna bionda e glaciale, perfetto ideale di desiderio e quindi inarrivabile; ma è un aspetto che, per poterlo cogliere appieno, va visto nell’ottica generale della filmografia del regista inglese, in quanto in Marnie manca forse una struttura armonica e coerente.
Questo amalgama narrativo svela però il suo vero motivo di essere nel finale: tutto l’epilogo, che ha il suo culmine nel colpo di scena con il flashback rivissuto da Marnie, è da antologia, e legittima, in un certo senso, la fase preparatoria precedente. La forza evocativa di questo passaggio, ci fa chiudere non uno ma tutti e due gli occhi sui fondali del porto poco credibili o altre apparenti debolezze del genere. Marnie è quindi un film probabilmente incoerente nel suo insieme, ma alcuni spunti sublimi lo rendono godibilissimo e nient’affatto banale. 
Degnamente un Hitchcock.



Diane Baker


 Louise Latham


 Tippi Hedren
















sabato 1 dicembre 2018

TERMINAL

249_TERMINAL  Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Hong Kong, Ungheria 2018;  Regia di Vaughn Stein

In The Wolf of Wall Street poteva essere stata unicamente l’ennesima attrice bellissima di cui si sarebbero presto perse le tracce; invece con Tonya, Margot Robbie suggellava alla grande il crescendo della sua carriera, dopo altri ruoli interessanti. Quindi, quando la si vede splendente nel manifesto di Terminal, film di cui si va presto a prevedere il carattere eccentrico, viene spontaneo pensare alla definitiva consacrazione dell’attrice. Tant’è che la Robbie figura pure tra i produttori del film, quindi una certa idea se la deve essere fatta pure lei. Ed è forse per questo che si rimane un po’ sgomenti, a fronte di una prestazione interpretativa della bella Margot che troppo spesso sfiora (volendo essere gentili) il grottesco, presumibilmente involontario. Certo, il pastrocchio pur ben confezionato, ben illuminato e ben inscenato, imbastito dal regista Vaughn Stein non aiuta, ma l’attrice è il baricentro portante del film e la sua performance contribuisce a mandarlo a fondo. Non che il film sia completamente da buttare: c’è una bella atmosfera e le scenografie sono accattivanti, ma più adeguate al set di un programma televisivo che di un film vero e proprio. Inoltre, tutto il registro interpretativo degli attori è forzato e poco naturale, il che dopo un po’ viene a noia; con il risultato che complessivamente l’opera suona troppo posticcia. I riferimenti ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll sono fin troppo evidenti e anche dichiarati, ma giustificano solo alcune delle stranezze del film, che sono anche quelle più tollerabili; ma le conversazioni monotone, i battibecchi tra i due killer e soprattutto i dialoghi che vedono protagonista proprio la Robbie, non convincono e sono del tutto gratuiti. 
Per Terminal non è che sia un grande rammarico: di film alla moda del momento, zeppi di ingredienti dai sapori all’apparenza forti ma in realtà insipidi, ce ne sono a dozzine; uno di più non è una tragedia. Peccato invece per la Robbie, perché questa sua interpretazione esaspera alcuni atteggiamenti già visibili in Tonya; ma, in quel caso, l’impressione era stata molto positiva e legittimata dal contesto. Ora questa brutta prova rischia di mettere in cattiva luce anche quella prestazione, lasciando intendere che l’attrice sia buona solo per fare la caricatura di sé stessa.
Occhio, quindi, cara Margot; e torna in fretta al di qua dello specchio.   

      
Margot Robbie