1741_HER LIFE AS A MAN, Stati Uniti 1984. Regia di Robert Ellis Miller
Liberamente ispirato all’articolo My life as a man di Carol Lynn Mithers, apparso sulla rivista The Village Voice, Her life as a man è un TV movie più sorprendente di quanto si possa pensare a prima vista. Il tema è quello della discriminazione di genere sessuale presente in ambito professionale che, nel pieno degli anni 80, non era tutto sommato un argomento poi così scontato. Ma l’aspetto insolito è ben più radicale. Carly Perkins (Robyn Douglass) è una reporter che ha appena perso il lavoro e si reca quindi al colloquio per un impiego in un giornale sportivo, del resto è lei stessa una vera sportiva oltre che appassionata. L’editore, Mr Fleming (Robert Culp), non la prende nemmeno in considerazione: ha già una donna in redazione, Barbara (Laraine Newman), e pensa che ciò possa bastare, considerato il contesto che è, per convenzione, tipicamente maschile. Her life as a man è sostanzialmente una commedia e l’idea che, a questo punto, spunta nella testa di Carly, ne è il presupposto centrale. La ragazza si trucca accuratamente da uomo, ritorna da Fleming, viene assunta e la sua versione maschile è subito apprezzata e gratificata con incarichi importanti. Naturalmente ci sono anche degli inconvenienti, ad esempio quelli con il fidanzato, Mark (Marc Singer): c’è qualche passaggio ironico, basato sul tema del travestimento e non particolarmente originale, ma c’è anche la prevedibile critica al maschio che mal sopporta che la compagna abbia impegni professionali ingombranti. Per la verità Mark sembra un tipo aperto ma, nel corso del racconto, si fanno strada una serie di contrattempi che mettono alla frusta le convinzioni illuminate ed emancipate della coppia, non solo quelle dell’uomo ma, a sorpresa, anche quelle di Carly. Se è innegabile che la discriminazione di genere in ambito professionale fosse ancora presente negli anni 80, del resto lo è tuttora, è anche vero che la realtà è un po’ più complessa di quanto ci venga raccontato dal refrain progressista. Her life as a man riesce, tutto sommato, a fornirci uno sguardo meno banalmente aderente alla retorica femminista imperante e, per farlo, impiega tutta la sua ora e mezza, del resto lo scopo della produzione televisiva è di tenere davanti allo schermo il proprio pubblico per tutta la serata.
Da un punto di vista concettuale, al film basterebbero i poco più di dieci minuti in cui entra in scena Joan Collins, a circa metà del racconto. La Collins al tempo era in forma strepitosa, era già carismatica di suo e il successo di Dynasty l’aveva ulteriormente caricata a mille. In Her life as a man l’attrice inglese è Pam Dugan, la proprietaria di una squadra di football americano che Carly, nei panni del suo alter-ego maschile Carl, vuole intervistare. La giornalista cerca di dimostrare, anche attraverso l’intervista, non solo che una donna può svolgere lo stesso lavoro di un uomo, ma che parta in ogni caso sfavorita. Il che è certamente vero, sia chiaro, ma il mantenerlo sempre come alibi rischia di essere un freno per le stesse donne che vogliano fare carriera o comunque vedersi riconosciuti i proprio meriti. In effetti, questo cortocircuito mentale è uno dei problemi della protagonista che non riesce ad uscire da questa sorta di spirale, per cui ogni cosa finisce per essere rapportata al genere sessuale di chi la fa. È un tema clamorosamente attuale e che sia sviscerato in modo tanto chiaro in un film televisivo degli anni 80 è davvero sorprendente. Anche perché Joan Collins era ed è la risposta vivente a questo tipo di problema: una donna che, nel caso, era in grado di fare quello che fanno gli uomini senza snaturarsi. Come detto, Joan brilla di luce propria e comincia subito con una battuta illuminante, nella sua semplicità. Alla domanda di Carl, che le chiede se punti in alto, con la sua squadra di football, risponde serafica: “C’è altro posto dove stare?”. Ma il bello deve ancora arrivare. Il reporter cerca di farle dire che sia stata penalizzata dall’essere donna in un ambiente totalmente maschile, e chiede se tutti quegli uomini della squadra e dello staff l’avessero presa davvero sul serio, quando aveva acquistato il team. Qui Pam, il personaggio della Collins, taglia la testa al toro e chiarisce una volta per tutte come è riuscita ad essere accettata come proprietaria: “Mi sono guadagnata il loro rispetto proprio come chiunque altro avrebbe dovuto fare”. Carl prova ad arrampicarsi sui vetri, accampando le solite scuse, ops motivazioni, che siamo soliti sentir raccontare ancora oggi. Pam taglia corto: “Non è importante se i proprietari di squadra siano maschi o femmine ma solo se le squadre sono vincenti; il genere non è importante”. Tre a zero e palla al centro.
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