1746_SUL FIUME D'ARGENTO (Silver River), Stati Uniti 1948. Regia di Raoul Walsh
Ci sono degli aspetti contradditori alla base di Sul fiume d’argento che ne spiegano il risultato tutto sommato, se non deludente, quantomeno inferiore alle aspettative. Non è un brutto film, intendiamoci, perché Raoul Walsh dirigeva con mano solida e svelta a cui riusciva magistralmente ad abbinare la superba capacità registica. In Sul fiume d’argento –rivelando anche in questo la curiosa natura di quest’opera, dal momento che il film fu dato per spacciato più volte durante la Produzione– il regista americano sciorina una serie di passaggi d’alta scuola, ad esempio il drammatico confronto tra il protagonista, Mike McComb (Erroll Flynn) e l’avvocato John Plato Beck (Thomas Mitchell), che funge da sorta di sua coscienza. L’utilizzo degli specchi, poi, una delle caratteristiche di Walsh, è spesso magistrale, soprattutto quando è in scena la protagonista, Georgia More (Ann Sheridan). Ma, nonostante questi buoni spunti e il sontuoso impegno produttivo, il film è troppo dispersivo e solo la superba capacità narrativa di Walsh riesce a tenere incollato lo spettatore ad una storia che si perde in una serie quasi infinita di svolte narrative. Per capirci: il protagonista, il capitano nordista McComb, si lancia in un’audace azione militare, viene ingiustamente radiato dall’esercito, compra il materiale per mettere su una casa da gioco, si sposta nell’ovest, a Silver River, città mineraria, dove la sua bisca riscuote grande successo; coi guadagni fonda una banca, diventa proprietario di una miniera, costruisce un castello gotico in mezzo al nulla e, per concludere, manda tutto in malora prima di redimersi. Il tutto in meno di due ore di pellicola. Nelle quali, lavora costantemente ai fianchi la signora Moore, peraltro già sposata con Stanley (Bruce Bennett), proprietario di una miniera; la donna, in tutta risposta, si impegna per tutto il film per essere il meno sensuale possibile, riuscendoci. Chissà, forse Ann Sheridan, che odiava il suo soprannome Oomph girl, qualcosa traducibile con «ragazza grintosamente attraente», fu soddisfatta della sua performance che non è, tuttavia, particolarmente memorabile.
Sul fiume d’argento è un western difficilmente ascrivibile a qualche corrente del genere, sebbene rientri nei criteri del filone romantico senza soddisfarli mentre non abbia coerenza e statura per ambire ad essere accomunato alla Golden Age del decennio che incombeva. In effetti, Silver River, questo il titolo originale, sembra un Western Romantico: il protagonista è una sorta di fuorilegge e la donna è l’elemento determinante per il suo sviluppo all’interno della storia raccontata. Tuttavia i temi che Walsh e Stephen Longstreet, autore di soggetto e sceneggiatura, mettono sul tavolo sono tanti, forse troppi. C’è la questione morale del protagonista, che diventa cattivo –leggi cinico, scaltro e senza scrupoli– per via dell’ingiusta radiazione dall’esercito, almeno secondo la banale impostazione della vicenda. Già questo passaggio meriterebbe un’obiezione, perché neanche al cinema d’intrattenimento si possono concedere alibi morali con questa faciloneria. Poi c’è il riferimento alla Bibbia, la vicenda di David e Betsabea, con McComb che non avvisa per tempo Stanley Moore della pericolosità della missione in territorio indiano; gli Shoshoni sono sul piede di guerra e il marito della bella Giorgia ci lascerà le penne. McComb ha un ripensamento, tempestivamente tardivo, e interviene quando può solo riportare alla povera vedova il cadavere del consorte: e lì per lì, il nostro protagonista sembra persino pentito di non aver messo in guardia Stanley quando avrebbe potuto. Ma ci si sbaglia se si pensa che questo gli crei qualche incertezza nell’azione di corteggiamento a Giorgia che, anzi, avendo ora campo libero, può accelerare e andare finalmente a bersaglio. Ma gli spunti sono molteplici, di varia natura e tutti di un certo peso: dalla caduta dell’Impero Romano alla fine di Giulio Cesare o più prosaicamente al castello che ricorda Quarto Potere, il film di Orson Welles del 1941, senza scordare la questione sociale con la condizione disperata dei lavoratori tenuta in ostaggio dal capitalismo finanziario. Si narra che Erroll Flynn e Ann Sheridan ebbero problemi di alcolismo che rallentarono le riprese e forse anche questo contribuì ad un film per cui lo stesso Longstreet, autore dal soggetto, sentenziò: “È l’unico film che conosco per il quale non c’è finale, il film finisce a mezz’aria ma nessuno, per quanto ne so, si è mai chiesto la briga di chiedermi perché”. [dalla pagina web in lingua inglese di Wikipedia del film]. Fosse solo quello.
Ann Sheridan
Galleria
Nessun commento:
Posta un commento