1636_LE SCHIAVE ESISTONO ANCORA . Francia, Italia, 1964. Regia di Maleno e Roberto Malenotti e Folco Quilici
Nel 1964 Folco Quilici era già un autore televisivo affermato e, al cinema, aveva convinto tutti con Sesto continente (1954), mentre i successivi L’ultimo paradiso (1955) e Dagli Appennini alle Ande (1959) avevano ottenuto riconoscimenti nei festival sparsi per il globo. Con quest’ultimo film tratto dal libro di Edmondo De Amicis, Quilici aveva pienamente dimostrato la capacità di reggere una narrazione che si discostasse dal testo documentaristico e anche il successivo Ti-Koyo e il suo pescecane (1962) proseguiva su questa linea. Se, per adattare De Amicis, Quilici aveva trovato subito la sintonia giusta, qualcosa del racconto di Clement Richer, alla base del successivo lungometraggio, non lo convinceva affatto. Nel libro, il protagonista, Ti-Koyo, un ragazzino che viveva in un’isola, addomesticava un piccolo squalo e lo utilizzava per compiere atti di pirateria. Questo aspetto non rientrava nella poetica di Quilici che cambiò completamente la filosofia della storia, in senso più edificante: il finale scelto, più triste che lieto, non trovò però l’approvazione della Produzione. Questo tipo di problemi caratterizzarono anche il successivo approccio cinematografico del naturalista nato a Ferrara. Ingaggiato per realizzare Le schiave esistono ancora, cominciò il suo reportage sul grave problema che affliggeva l’umanità con il giusto piglio documentaristico. La Produzione intendeva però cercare di sfruttare il traino del famigerato Mondo cane, inserendosi in qualche modo in quel tipo di documentario sensazionalista. Quilici, severo censore del cinema di Jacopetti e compagni, abbandonò quindi il suo posto, sostituito da Maleno e Roberto Malenotti. Il risultato finale, Le schiave esistono ancora, è un documentario che, seppure lasci intendere a più riprese i propri intenti seri e attendibili, li annacqua poi volontariamente con la scelta di inserirsi esplicitamente nella scia dei Mondo movie. A vederlo oggi, il film, in certi passaggi, è sorprendente per la sua franchezza: l’accusa per lo schiavismo che affligge l’Africa è rivolta esplicitamente agli arabi, senza troppi giri di parole. Del resto, nel film, i reporter seguono la rotta degli schiavi che, dal “continente nero”, si dirige inequivocabilmente alla penisola araba. In generale, l’Islam è palesemente messo sotto accusa per questa grave situazione, definita “terrorismo religioso”.
Le popolazioni primitive dell’Africa, secondo il documentario, sono perennemente tenute in condizione di sottomissione dagli stregoni locali e accettano, di conseguenza, trovandolo quasi “naturale”, di sottostare ai nuovi padroni che li comprano al mercato degli schiavi. Anzi, in un passaggio è mostrato come siano direttamente gli africani ad offrirsi gratuitamente come schiavi, convinti di migliorare il loro originario tenore di vita divenendo mera proprietà di un ricco arabo. Questa facoltà economica dei paesi arabi è, lo si evince dall’incipit del film, legata al petrolio e, in questo senso, parte della responsabilità ricade sul cosiddetto mondo occidentale. Per chiudere con la questione religiosa, certamente complessa, c’è anche un tentativo di definire meglio l’atto di accusa, facendo riferimento a quelle parole del Corano in cui Maometto si dice contrario alla schiavitù. Non sarebbe, quindi, un problema della religione in sé ma di una sua distorta applicazione. Il giro del mondo della schiavitù tocca alcuni villaggi dell’Africa, gli harem della penisola araba e la squallida Falkland Road di Bombay, in India, costellato da alcune riprese di trattative e commercio di “carne umana”. Dal commento apprendiamo siano immagini autentiche, prese di nascosto con un teleobiettivo: sarà vero? Certo, l’ossequiosa idea di rispettare alcuni cliché dei Mondo movie, ad esempio quello dei travestiti, nel finale, non alimenta la credibilità del film. Anche il titolo, in effetti, con il riferimento alle schiave e le immagini in qualche modo lascive dei manifesti sono altri elementi in questo senso. Forse un generico “schiavitù” nel titolo avrebbe aiutato a chiarire meglio gli intenti originari, sebbene vada riconosciuto che questa piaga, nel complesso, riguardi più le donne che gli uomini. In effetti, la condizione della donna è già subalterna, anche nelle società più civilizzate, e, quindi, in condizioni critiche, è quella che paga maggiormente. In sostanza, anche il titolo non fa che confermare il rammarico: visto le potenzialità di Le schiave esistono ancora sarebbe stato meglio mantenere un profilo più serio, e lasciare il qualunquismo sensazionalista a chi era in grado di saperlo fare ad arte.
Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE
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