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venerdì 24 gennaio 2025

UOMINI CONTRO

1612_UOMINI CONTRO . Italia, Jugoslavia 1970: Regia di Francesco Rosi

L’operazione intrapresa da Francesco Rosi con Uomini contro è quantomeno pericolosa se non proprio scorretta. Un film di guerra, in senso classico è, di fatto, un film storico: gli eventi bellici sono infatti quei frangenti della Storia in cui avvengono i cambiamenti epocali. La storia dell’umanità passa per questi snodi e gli storici se ne appassionano non per sadismo o per amore per le battaglie ma perché da quei passaggi si determinano in genere gli sviluppi futuri. Questo per dire che quando ci si approccia ad uno di quei frangenti, ad un momento storico, va fatta una particolare attenzione, siamo di fronte a situazioni, pagate a carissimo prezzo, cruciali anche per un prosieguo che spesso arriva fino ai giorni nostri. E questo è certo il caso di eventi legati alla Prima Guerra Mondiale. Per carità, ciò non significa che non si possa scherzare su questi argomenti, al cinema lo si può fare addirittura in toto con la satira o anche con i film comici. Ma occorre una particolare coerenza: quando si stravolgono i fatti, si deve lasciar chiaramente intendere l’uso di metafore o altri cambiamenti narrativi, perché anche solo il rischiare di essere fraintesi, cioè far passare per verità storica qualcosa che non lo è, significa tradire lo spirito del cinema, oltre che offrire un pessimo servizio culturale in senso civico. Il cinema è finzione, quasi per definizione; esistono i documentari, certo, ma passano comunque per l’obiettivo di una macchina da presa governata da un regista e quindi, quello a cui si assiste, è comunque soggettivo. Certo, usare lo strumento di finzione per eccellenza, il cinema, per raccontare una finzione, può (non necessariamente) produrre arte e quindi verità; l’arte infatti non è mai falsa. Ma se lo si usa per raccontare direttamente una presunta verità, i rischi aumentano esponenzialmente, proprio per la soggettività intrinseca allo strumento cinema. Sofismi? Può essere, ma ci sono esempi, come quello rappresentato da Uomini contro, in cui bisogna preparare bene il terreno prima dell’analisi, perché questi casi si procurano già, sin dalla loro genesi (“il film fu girato in Jugoslavia per l’ostilità riscontrata in Italia”) una sorta di vaccino alle eventuali critiche. 

Che invece, nel caso del film di Rosi, vanno purtroppo fatte. A cominciare dal rapporto con il libro che ha ispirato il soggetto, ovvero Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu. Mario Rigoni Stern, nome che qualcosa significa nell’argomento in questione (basta ricordare il suo romanzo del 1953 Un sergente nella neve?), nella prefazione all’edizione Einaudi ricorda le parole di Lussu ”Uomini contro non è Un anno sull’Altipiano. Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui e Rosi, mentre lo accompagnavo verso piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…”. Ma la distanza tra una forma di espressione artistica (il libro) e l’altra (il film) è pienamente legittima e quindi le parole di Lussu servono solo per comprendere come quello di Rosi sia un film sulla Grande Guerra che non parla della Grande Guerra. Che è già una prima contraddizione pericolosa: seppure sia legittimo, in campo artistico, perché prendere un testo preciso che tratta un evento storico se poi non si intende rispettarne lo spirito né dell’uno né, inevitabilmente, dell’altro? Mah. In ogni caso Rosi sa come si fa un film. L’inizio in media res di Uomini contro ne è la dimostrazione. E poi la ricostruzione storica affascinante, l’ambientazione, i dettagli attendibili come l’utilizzo delle corazze Farina, sorta di protezioni in metallo che lasciavano però scoperte gambe e braccia. Perfino l’ottusità del generale Leone (Alain Cuny), forse un po’ enfatizzata sin da subito, rientra comunque nella logica dei film bellici e probabilmente, cosa assai più grave, in quella degli eserciti della realtà storica. Ma, via via che la pellicola scorre, Rosi in quest’ottica carica sempre più, e carica a testa bassa, un po’ i nostri poveri soldati del fronte, mandati spesso al macello, come si vede effettivamente nel film. 

Alla fin fin Leone potrebbe finire per diventare una macchietta degna di una satira o di una striscia a fumetti umoristica (tipo le Sturmtruppen di Bonvi). La caduta dal mulo, il brindisi alla sua morte e, soprattutto, la scena dello spioncino della trincea, che è addirittura degna di un cartone animato della Warner Bros (quelli del coyote, per intenderci). Ma se questa fosse l’interpretazione del film, (smentita, per altro, dal clima del racconto), allora ne verrebbe travolto anche il messaggio politico che, in modo rozzo e schematico (tipico del tempo, per altro), Rosi proclama per mezzo principalmente del tenente Ottolenghi (un Gian Maria Volonté fuori giri, come qualche volta gli è occorso). Qui casca l’asino, anzi il mulo, visto il contesto: o è una farsa, ma diventano farsesche anche le tesi socialiste di Ottolenghi e Santini (Pier Polo Capponi), o è un tentativo più serio, ma la cui già scarsissima credibilità mostrata è ulteriormente smentita dal testimone più importante, Lussu. Purtroppo, la stessa insistenza di Rosi, già nello sviluppo del suo film e senza coinvolgere nell’analisi sue successive dichiarazioni, ci conferma che la figura del regista, la sua enfasi nel promuovere una causa innestata con assenza di inerenza e coerenza ai fatti storici, lo colloca nella stessa situazione del generale Leone del suo film. Tanto l’ufficiale cerca di convincere i suoi sottoposti agli ideali patriottici senza alcuna connessione alla realtà, quanto Rosi fa con le sue estemporanee idee rivoluzionarie nei confronti degli spettatori. Per carità, quelle idee sono in senso generale condivisibili o meno, a seconda del credo politico, ma il punto è che sono del tutto avulse dal contesto dell’opera. A conti fatti gli conveniva la farsa.       


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