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mercoledì 8 gennaio 2025

STEPNE

1604_STEPNE . Ucraina, Germania, Polonia, Slovacchia 2023: Regia di Maryna Vroda 

 

Non ha fretta, il cinema di Maryna Vroda. Per la verità, se intendiamo la sua attività di regista, Maryna aveva cominciato presto e, dopo aver diretto il suo primo cortometraggio nel 2003 a soli ventun anni, nel 2011 grazie a Cross aveva vinto nientemeno che la Palma d’Ora a Cannes nella categoria «miglior cortometraggio». Al lungometraggio, la regista nata a Kyiv nel 1982, quando c’era ancora l’Unione Sovietica, arriva nel 2023, effettivamente prendendosi il suo tempo: ma lo fa a ragion veduta. Stepne, il suo esordio, è un capolavoro oltre che un film sorprendentemente universale. Per questo la trama è ridotta all’osso e anche i dialoghi sono al minimo sindacale per un film sonoro: perché la Vroda ha la stoffa della fuoriclasse e sa che, per far funzionare le cose al meglio, occorre trovare il giusto equilibrio. Il suo film è già così pregno, così denso di significato, che insistere troppo su questioni marginali, come il canovaccio o le chiacchere tra i personaggi, rovinerebbe la magia del suo lavoro. Innanzitutto, Stepne è forse l’esempio più evidente di come il cinema ucraino stia vivendo una sorta di Neorealismo, così come avvenne in Italia nel dopoguerra; scrive, Giorgia Del Don sul sito Cineuropa: “Personaggio a sé stante, il desolato, gelido ed evanescente villaggio natale dove Anatoly (Oleksandr Maksiakov) ritorna ad occuparsi della madre morente, non può non ricordarci l’arida precisione di molti film neorealisti italiani, La terra trema di Luchino Visconti in primis”. [dal sito Cineuropa.org, pagina web https://cineuropa.org/it/newsdetail/447429/, visitata l’ultima volta il 6 gennaio 2025]. 

È un’analogia che Stepne condivide con altri recenti capolavori ucraini, da Klondike a This rain will never stop a Songs from the slow burning Earth giusto per fare tre titoli. Anche Stepne ha un’ambientazione contemporanea, ovvero prima dell’inizio dell’invasione su larga scala, ma la guerra non è presente: tuttavia è uno dei film più illuminanti nel mostrarne alcuni dei presupposti. Al di là delle questioni geopolitiche, sembra chiaro che Putin abbia, in molte aree dell’ex Unione Sovietica, una base demografica se non favorevole quantomeno indifferente alle sue strategie espansionistiche. Indifferenti non per menefreghismo, sia chiaro, ma perché tagliate fuori da quella globalizzazione che proprio globale non è. Per fortuna, verrebbe quasi da commentare, ma non divaghiamo. Queste aree lasciate ai margini del sistema economico capitalista, in Ucraina sono perlopiù ad est ma non sono necessariamente russofone: a Sumy –nome reale del villaggio di Stepne, vero protagonista del film secondo la citata giornalista di Cineuropa– si parla ucraino e quando un’anziana si esprime in russo la cosa è subito rimarcata da un vecchio che le chiede come sia arrivata sin lì. La scena è una delle più belle, tra le tante, di Stepne, ed è quella della cena dopo il funerale, in cui la piccola comunità si ritrova nella casa della defunta a condividere il triste momento con un pasto semplice e frugale. La domanda dell’anziano, che sollecita più volte la donna seduta accanto a lui a spiegare come sia finita in quello sperduto angolo di mondo, suscita una serie di ricordi da parte dei presenti. A parte qualche individuo di mezza età e un paio di ragazzini, arrivati per la cerimonia, gli abitanti di Sumy sono tutti vecchi ed è a loro che Maryna Vroda pensava quando ha immaginato Stepne. Questo è uno dei momenti topici perché si avverte in modo chiaro che, pur essendo un film di finzione, l’impiego della gente del posto e il loro apporto quasi documentaristico, rende a  Stepne la valenza di resoconto storico. Scrive ancora la Del Don: “I «veri» abitanti di Sumy, sapientemente scelti dalla regista in quanto custodi di una storia che deve dev’essere assolutamente preservata, si posano sul racconto principale, arricchendolo con una strana e feroce poesia della verità”. [Ibidem]. 

Il cinema ucraino contemporaneo, anche quando non è ufficialmente un documentario, si fonda in modo clamoroso sul momento storico del Paese. Al punto che la componente strettamente narrativa, come accennato, in Stepne è assai stringata: Anatoly, il personaggio principale, per assistere alla madre (Nina Antonova, storica attrice ucraina vista anche in Donbass) ritorna al villaggio natale dove reincontra Anna (Radmila Shegoleva), probabilmente una sua vecchia fiamma. La madre muore e Anatoly sembra quasi indugiare a tornare alla sua realtà, chissà se c’era qualcosa di vero nelle parole dell’anziana donna? Suo fratello Olekszy (Oleg Prymohenow), arrivato giusto per il funerale, lo sprona piuttosto a risolvere velocemente le questioni di eredità, del terreno e della vecchia cascina. Anatoly e Olekszy sono due uomini di mezza età, non ancora anziani; vivono da qualche parte nell’ovest del paese, dove la svolta occidentale intrapresa dall’Ucraina dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha sortito i suoi effetti. Non come al villaggio, dove i vecchi sono rimasti ancora nelle stesse condizioni di una vita fa: le vie sono sconnesse e fangose, non c’è illuminazione stradale e, nelle case, ci si lava scaldando l’acqua. Non c’è la linea del cellulare, tanto che Anatoly deve prendere un bastone su cui poggiare lo smartphone in modo da poterlo alzare e cercare il segnale, quando deve avvertire il fratello della morte della madre. I pagamenti avvengono spesso in forma di baratto, ad esempio quando i due fratelli affittano i terreni ereditati dalla madre alla locale impresa agricola, oppure come capita ai dipendenti della stessa azienda, che si stanno appunto lamentando perché le bollette non le possono pagare con i beni con cui il loro titolare li ricompensa per il lavoro svolto. E questi sembrano, ai nostri occhi come a quelli dei due fratelli, limiti di un mondo arcaico ormai inconcepibile. Quando c’è il citato momento di ritrovo per la cena dopo il funerale, anche Anatoly, il più riflessivo dei fratelli, sembra prestare solo distratta attenzione alle parole dell’anziano che gli sta confidando una storia a cui pare, al contrario, dare molta importanza. Anatoly annuisce più volte, chiede giusto qualcosa, più per educazione che per reale interesse. Eppure, forse anche per la presenza di Anna, una donna ancora piacente, oppure per la sua vena artistica, disegna spesso e scolpisce personalmente la lapide per la tomba per la madre, ma qualcosa del suo vecchio villaggio sembra toccare il suo animo. 

E forse il discorso vale anche per gli spettatori. Perché, in effetti, guardando le tradizioni del paesino, guardandole con la necessaria pazienza, con riflessività, ci si accorge che qualcosa abbiamo perso. La scena in cui gli abitanti si recano alla casa della donna morta e prendono qualcosa che può tornare ancora utile, un paio di scarpe, un cappotto, una pentola, è una dimostrazione di riciclo con cui nessuna moderna campagna ecologica e di sostenibilità può competere. Se nelle splendide immagini (fotografia di Andrii Lysetski) Stepne ricorda i quadri del Realismo ottocentesco di Jean-François Millet o la sublime arte del nostro Giovanni Segantini, da un punto di vista cinematografico, oltre al Neorealismo, il tono narrativo sembra riportarci ne L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. È davvero un concentrato di bellezza e nostalgia, il film della Vroda, seppure nella forma diluita e dilatata di immagini poetiche, silenzi al posto dei dialoghi e assenza di sviluppi narrativi. Questa capacità di infondere nel proprio cinema elementi diversi e di farlo in modo armonico è l’universalità della sua arte. Qualcosa che ci tocca nel profondo, in un’intimità che è abitualmente stordita dal frastuono quotidiano della vita moderna. Qualcosa che tocca anche Anatoly: ma quando offre la sua torcia ad Anna, per camminare nelle oscure campagne del villaggio, lei la rifiuta, perché è l’uomo civilizzato ad averne più bisogno. Anatoly ci rimane perfino male, ma non è scortesia della donna: è semplicemente troppo tardi per tornare indietro. «Perché?» Probabilmente si chiede Anatoly, e noi con lui. C’è però un personaggio che, forse, più di ogni altro, incarna l’anima di quel villaggio dell’estrema periferia ucraina. Un villaggio sperduto in una steppa che ci è geograficamente del tutto estranea ma che abbiamo scoperto esserci tanto affine, al punto di rievocare opere fondamentali della nostra Storia come il citato capolavoro di Olmi, la corrente del Neorealismo e, andando ancora più a fondo, la pittura del maestro Segantini. Il personaggio in questione è Jula, il cane della madre di Anatoly. Quando il corteo funebre parte della cascina, la macchina da presa della Vroda rimane ferma sul cancello, vedendosi sfilare d’innanzi il sobrio feretro, poi via via i pochi abitanti del villaggio. Gli uomini non tradiscono emozioni, le donne intonano il triste canto funebre, ce ne una che si asciuga gli occhi col fazzoletto. L’unico a piangere, in modo comunque composto, è Jula, che guaisce sommessamente ai margini dell’inquadratura. Talmente ai margini che, quando tutti sono passati oltre, l’inquadratura rimane vuota: poi la macchina da presa si muove lentamente verso destra, e il cane compare, quasi nascosto dietro un muro, quasi a voler nascondere la volontà repressa di unirsi al corteo. È un animale docile e buono, Jula; in un’altra scena lo vediamo attendere pazientemente che Olekszy gli dia qualcosa di cui è evidentemente ghiotto, ma riesce ad essere educato proprio come un bravo cane. Ma, ora che la madre è morta, chi se n’è occuperà? Questo è un problema che va risolto, non si può rischiare che venga sbranato dai lupi, osserva Olekszy con la professata bontà d’intenti tipica dell’uomo emancipato. Anatoly è tentato dall’idea di rimanere, per Anna, forse anche per qualcos’altro, per quel famoso «qualcosa» di cui si accennava prima. Jula, in quest’ottica, potrebbe anche essere una specie di pretesto. Cos’era quel colpo? In ogni caso, si è detto, è troppo tardi; tra le cose che hanno trovato, cercando, chissà, forse davvero il fantomatico tesoro della madre, c’era una pistola. Intanto, Jula non risponde più ai suoi richiami, in compenso Olekszy ha bisogno di una mano per chiudere la buca nel terreno. Dentro c’è il cadavere del cane e, forse, della umanità dell’uomo moderno.      



  
  

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