1600_LA GRANDE GUERRA . Italia, 1959: Regia di Mario Monicelli
Cominciamo col dire che La Grande Guerra di Mario
Monicelli più che un capolavoro (e lo è, sia chiaro) è il film italiano definitivo sulla Prima Guerra Mondiale. Tra i tanti meriti positivi, quello di
Monicelli, ne ha infatti uno anche relativamente negativo: ovvero sdoganare una
facile critica qualunquista sull’operato dell’Esercito Italiano durante il
primo conflitto mondiale. Che ebbe le sue magagne, per carità, ma sulle quali
negli anni successivi in Italia si è insistito con eccessivo accanimento farsesco,
perdendo, purtroppo in modo forse definitivo, il senso della misura. La
situazione era ben diversa fino a La Grande
Guerra: prima la retorica del Ventennio, poi un tentativo di consolarsi dopo la scoppola nella Seconda Guerra Mondiale, avevano finito
per mettere in luce eccessivamente trionfalistica il conflitto del 15-18. In pratica Caporetto era
stata, fino ad allora, una parola tabù per il cinema italiano. E’ in quel clima
che arriva Monicelli col suo film: e ha il suo bel daffare a convincere il produttore
Dino De Laurentis, perfino una volta già cominciate le riprese, dove le truppe
italiane erano mostrate con un esagerato, secondo lo studio, realismo. Fango dovunque, divise logore, uomini sporchi e
malnutriti; la splendida fotografia ricca di tonalità di grigio uniformava il
tutto pur dando risalto agli innumerevoli dettagli di una caotica e disordinata
messa in scena. Furono scavate autentiche trincee in Friuli, in luoghi che si
prestarono a credibilissimi ricostruzioni delle ambientazioni del conflitto. Il
soggetto fu un confluire di vari spunti: Luciano Vincenzoni (sceneggiatore
insieme a Age & Scarpelli e allo stesso Monicelli) portò l’ispirazione da Due amici di Guy De Maupassant su cui
vennero innestati elementi e protagonisti da Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu e Con me e con gli alpini di Piero Jahier. Come si vede, così come la
fotografia armonizzava i tanti dettagli, anche il plot narrativo fu il frutto
di una sintesi, notevole, da ispirazioni diverse. D’altra parte la natura
intrinseca del paese era proprio la frammentazione e, seppure in modo brutale e
traumatizzante, la Grande Guerra era stata forse la prima occasione in
cui si era provato a dare una forma coesa all’idea di popolo che, in qualche
modo, il Regio Esercito rappresentava. La coerenza di Monicelli, davvero
scrupoloso nel suo approccio all’opera, era comunque proseguita: l’idea di
creare una serie di sketch, inframmezzati anche dai motivi musicali di natura
bellica, è un altro colpo di genio considerato come la struttura a mosaico
permetta di avere un’idea generale pur mantenendo la peculiarità delle singole
tessere narrative.
Con una simile
impostazione, al tempo, era anche semplice trovare poi gli attori giusti:
Vittorio Gassman (è Giovanni Busacca) e Alberto Sordi (Oreste Jacovacci)
recitano le loro prevedibili parti (il milanese e il romano) in scioltezza,
dall’alto della loro classe, esperienza e capacità, trovandosi in una
situazione ideale per sfornare due prestazioni memorabili. Chi sorprende, pur
essendo già una diva affermata, è Silvana Mangano: la sua Costantina, una
prostituta in servizio presso le
truppe, non era proprio un ruolo facilissimo. Almeno non era semplice cavarci
un personaggio ricco di dignità, simpatia, umanità e soprattutto fascino;
questo senza ovviamente poter sfruttare armi le classiche armi di seduzione
sofisticate ma dovendo, giocoforza, rimanere coi piedi non tanto per terra ma
proprio nel fango. Che in guerra era ovunque e non solo in trincea e non solo intendendo
quello materiale. La Mangano ci riesce anche grazie, più che ad una bellezza,
che poi la sua è abbastanza singolare, ad un’eleganza mai volgare. Tantissime
le scene gustose, agevolate dalla frammentazione del racconto, e tanti i
protagonisti che si ricordano: Folco Lulli è il Bordin, costretto ad essere
audace dalle esigenze economiche della famiglia numerosa; Romolo Valli è il
tenente Gallina, un ufficiale ricco di buonsenso; Tiberio Murgia è Nicotra, il
soldato siciliano innamorato dell’attrice Francesca Bertini e via via tutti gli
altri. Il film non scade nello sterile macchiettismo perché poi la guerra, quella rappresentata
con buona fedeltà storica, presenta il conto e di fronte alla morte i
personaggi sono trattati con assoluta dignità da Monicelli.
Un esempio è forse
proprio il Nicotra che getta via la fotografia della diva, in un momento di
disperazione, ma anche la generosità di Busacca e Jacovacci quando si trovano
alle prese con la moglie del Bordin, ancora inconsapevole di essere vedova,
lascia il segno. Ma naturalmente è il
finale, con la celeberrima esecuzione dei due protagonisti, a condensare in
modo splendido lo spirito del film, forse dell’intera partecipazione italiana
alla guerra se non addirittura dell’indole del carattere nazionale. Busacca e
Jacovacci erano stati scelti, in qualità di soggetti meno efficienti della
truppa, per portare degli ordini ad una postazione sul fronte. Consegnati i
quali, i nostri vedono i bagliori di un attacco d’artiglieria sul loro reparto
e decidono di imboscarsi fino alla mattina successiva. Non si tratta di
diserzione vera e propria, ma di ritardare opportunisticamente il rientro nei
ranghi: un modo molto italiano di
intendere il proprio dovere. Ma, al risveglio, i due scombinati militari
troveranno ad attenderli i nemici. Con i quali si accorderebbero anche, pur di
salvare la pelle, rivelando al nemico le previste manovre dell’esercito
italiano. Mica sono degli eroi. Però, quello che non ha fatto mai Monicelli col suo
film, pur nell’ironia diffusa, sembrano farlo i due ufficiali austriaci: nel
loro dialogo si avverte il disprezzo, l’assoluta mancanza di rispetto non solo
per i due poveracci che hanno appena catturato, ma per tutto il popolo
italiano. E allora il Busacca non ci sta; e nemmeno Jacovoni. Insomma, citando
Oreste De Fornari (I sentieri della
gloria, 2004) non eroi a caso, e nemmeno eroi per caso; ma eroi se è
proprio il caso. Silvana Mangano Galleria
Nessun commento:
Posta un commento