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mercoledì 31 luglio 2024

SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE

1521_SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE (Santa Fe Passage). Stati Uniti 1955; Regia di William Witney.

Il titolo originale, Santa Fe Passage –mantenuto dal racconto breve di Clay Fisher preso a soggetto– è più discreto, ma i distributori italiani cercarono probabilmente di essere più chiari. Satank (George Keymas), è il nome del villain della storia e richiama in modo evidente il termine «Satana»; si tratta quindi del cattivo della storia ed è il capo dei Kiowas, una tribù di nativi americani. E per rimarcare l’idea, il sottotitolo scelto, «la freccia che uccide» evidenzia il carattere bellicoso e letale della tipica arma degli indiani. Siamo in un western del 1955, prodotto dalla Repubblic Pictures, che periodo, musica (di R. Dale Butts), e caldi colori (Trucolor), confermano essere un classico del genere. Ecco, a voler essere precisi, manca una star di grandissimo richiamo –il protagonista è John Payne nel ruolo di Kirby Randolph, guida di carovane– e anche il regista, William Witney, nonostante l’apprezzamento di Quentin Tarantino, non è considerato un nome di particolare prestigio. Tra le altre cose, il geniale regista italoamericano apprezzava la capacità di Witney di gestire con eleganza la macchina da presa, soprattutto nelle scene d’azione e con gli animali. Quasi a conferma di ciò, Satank, la freccia che uccide, dopo i classicheggianti titoli di testa, si apre con un forsennato inseguimento a cavallo: Sam (Slim Pickens), un bianco, è alle calcagna di un indiano che, infine, ruzzola a terra. Senza scendere da cavallo, Sam lo colpisce col calcio del fucile, stordendolo: poi lo guarda e sputa. Questo breve incipit è il primo campanello d’allarme: se gli indiani sono presentati come cattivi, i bianchi non sembrano propriamente nobili d’animo. Sputare è, di per sé, un gesto spregevole; farlo all’indirizzo di un avversario inerme è davvero inaccettabile. Tuttavia Sam, nel racconto, avrà più che altro il ruolo di «spalla» dell’eroe –che è ovviamente il citato Kirby– ed è il classico compagno un po’ più anziano che serve a stemperare con l’ironia la tensione della storia. Kirby e Sam sono le guide di una carovana diretta a Santa Fe e la presenza degli indiani Kiowas non lascia presagire nulla di buono; del resto il convoglio è ormai in pieno territorio indiano. Kirby decide quindi di prendere il toro per le corna e, con una dozzina di fucili, opportunamente sabotati, e un barilotto di Whiskey, va incontro a Satank cercando di barattare questi doni con l’incolumità della carovana. 

Pur con i loro bravi problemi –il capo kiowa è tanto intelligente quanto scaltro e diffidente– le due guide riescono a intrattenere, ubriacandoli, gli indiani. Quando Kirby e Sam, dopo aver tirato un colpo mancino a Satank per squagliarsela, giungeranno in paese, scopriranno però l’amara verità: i Kiowas si erano in precedenza separati e il grosso dei guerrieri aveva potuto attaccare la carovana, facendo una vera e propria strage. Ora il nome di Kirby Randolph è marchiato dall’infamia: mentre se la spassava ubriacandosi coi suoi amici «musi rossi», il convoglio che aveva affidato a lui le speranze di arrivare a destinazione, era stato sterminato da quegli stessi Kiowa. Il che era una doppia beffa per Kirby, che odiava con il massimo delle forze gli indiani, meticci e mezzosangue compresi. L’unico impiego che Kirby e Sam riescono a trovare è come guide per la carovana di Jess Griswold (Rod Cameron), destinata a Santa Fe per consegnare una partita di fucili ai messicani. La natura del carico, armi da fuoco che farebbero appunto gola agli indiani sul sentiero di guerra, fa vincere i pregiudizi circa la «fama» di Kirby, perlomeno a Jess. La sua socia, Aurelia (Faith Domergue), è invece fermamente contraria all’ingaggio della guida, così come il sovrastante, Tuss (Leo Gordon), che teme di essere scavalcato nelle gerarchie del convoglio. In effetti, Kirby e Tuss non si prendono certo in simpatia, e il fatto che quest’ultimo sia un mezzosangue è una giustificazione sufficiente, almeno per la guida. 

L’ostilità di Aurelia sembra invece avere altre motivazioni: la ragazza è oggetto di una corte sfrenata da parte di Jess, convinto a sposarla una volta a destinazione. Ma Aurelia non scioglie la riserva; e la presenza di un giovanotto aitante come Kirby, scatena quindi il classico gioco delle parti nel classico triangolo melodrammatico. In questo senso si può leggere quindi il suo essere scostante in modo innaturale e immotivato. Se ne accorge subito anche Ptewaquin (Irene Tedrow), donna indiana che l’accompagna e la assiste come sorta di domestica: la squaw, nonostante sia oggetto del disprezzo razzista di Kirby, fa notare alla giovane che l’uomo sia tutt’altro che da scartare. In effetti la cosa suona un po’ strana, ma Ptewaquin –che si rivelerà essere la vera eroina della storia– dimostrerà di avere capacità di andare oltre le apparenze. Anche Jess subodora che qualcosa possa bollire in pentola, tra Kirby e Aurelia, e minaccia l’uomo se ostacolerà i suoi piani di matrimonio con la ragazza; la guida replica seccato tanto per le minacce, quanto per l’insinuazione di un suo possibile coinvolgimento sentimentale. Tuttavia, durante un saggio di bravura del regista Witney, nel quale un’incursione di un enorme branco di cavalli selvaggi travolge il convoglio –spettacolari le scene che confermano la citata qualità specifica del regista– Kirby salva la vita ad Aurelia e la traccia romantica subisce una svolta decisiva. L’arrivo dei Kiowas fa precipitare gli eventi: Kirby e Tuss vengono pescati da Jess assenti dal posto di guardia. Se la guida se la sta spassando con Aurelia, ben più grave è la colpa del sovrastante, che si rivela essere in combutta con gli indiani. Jess non fa sconti, almeno a Tuss che viene freddato senza troppi indugi; la questione sentimentale è però più complessa e va gestita con tatto, senza inimicarsi Aurelia, invaghita ormai di Kirby. 

Durante l’assalto dei Kiowas, la guida si ritrova faccia faccia con il suo vecchio «amico» Satank: prima gli strappa mezza capigliatura, poi rimane ferito da una freccia in pieno petto. Sarà proprio un’indiana, Ptewaquin, ad estrargliela, salvandogli la vita; Kirby, imbevuto di whiskey per sopportare l’operazione, è troppo occupato a fare avances esplicite ad Aurelia, per riflettere sulla cosa. La ragazza cerca di dissimulare, ma ormai la tresca è evidente: messo alle strette, Jess, cala l’asso e informa il rivale che Aurelia è una meticcia. Qui, Witney, opera un opportuno salto temporale: dopo questo cruciale passaggio troviamo la guida di nuovo a cavallo, e sembra una forzatura nella trama, visto che era quasi moribondo. In realtà sono passati otto giorni, nei quali oltre a rimettersi, l’uomo ha accuratamente evitato Aurelia. Quando la ragazza, spronata da Ptwaquin, chiede spiegazioni, Kirby non vuole sentire ragioni: è un razzista convinto. Persino il suo amico Sam, quello che in principio aveva sputato dispregiativamente all’indirizzo dell’indiano tramortito, cerca di farlo ravvedere: gli indiani sono individui come altri, tra loro ci sono i pessimi soggetti, come Satank, ma anche persone rispettabilissime. Come Ptwaquin che, nel successivo scontro tra i Kiowa e la carovana, uccide Satank, salva la vita a Kirby e, come premio, si prende una mortale freccia nella schiena. Il gesto riesce, finalmente, a scuotere Kirby che, quando vede Aurelia inconsolabile, avrà un ulteriore scossone emotivo –e con lui anche gli spettatori: Prwaquin era la madre della ragazza. Nel finale, dopo che Jess si è riscattato nella sua tragica uscita di scena, Kirby sposa Aurelia ma lascia il prete e Sam in chiesa ad aspettare: lui è andato a legare il suo cavallo fuori dalla porta della sua sposa. Un matrimonio alla maniera dei Kiowa, per celebrare, degnamente, l’eroina della storia: Prwaquin. Una donna, indiana, protagonista morale di un western classico uscito nel 1955.
A referto per quanti sostengono ancora che fu il contro-western, negli anni 70, a rivalutare la questione indiana almeno al cinema.



Faith Domergue 



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