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domenica 21 luglio 2024

FERRARI

 1516_FERRARI . Stati Uniti 2023; Regia di Michael Mann.

Ci sono diversi modi per approcciare un film a suo modo capitale come Ferrari di Michael Mann: il più immediato è intenderlo come un biopic e, di conseguenza, osservare come il regista americano tratteggi la figura del celebre costruttore di automobili sportive. Però, se è innegabile che Enzo Ferrari (Adam Driver, più che convincente) sia il protagonista del film, è curioso che la storia raccontata si limiti ad un periodo assai breve della vita e anche della carriera professionale dell’Ingegnere, come era soprannominato l’imprenditore italiano. Le vicende narrate si limitano, infatti, al 1957, quando l’azienda Ferrari rischiava la bancarotta perché i soldi spesi dal reparto corse superavano, e di gran lunga, le entrate dalla vendite delle vetture di serie. Contestualmente, Ferrari era un uomo in profonda crisi: non era riuscito a superare la morte, in seguito ad una malattia incurabile, del figlio Dino, il matrimonio con Laura (Penelope Cruz, strepitosa) era sostanzialmente finito, mentre con l’amante Lina Lardi (Shailene Woodley), le cose sembravano andare un po’ meglio. Sembravano: perché anche lì c’era una grana mica da ridere, con il figlio avuto dalla ragazza, Piero (Giuseppe Festinese), che Ferrari avrebbe voluto riconoscere, forse anche solo per avere un erede, ma non poteva, perché Laura era stata tenuta all’oscuro di tutto. E Laura era socia al cinquanta percento nella società Ferrari, particolare non trascurabile. Il suo assenso era quindi indispensabile, all’Ingegnere, per cavarsi dagli impicci finanziari in cui si era ficcato. Ecco, già da questi brevi cenni –e ancora non ci si è addentrati nelle questioni sportive, con i piloti che morivano come mosche per portare i suoi bolidi oltre il limite– si può intuire che razza di uomo fosse il Drake, come era conosciuto oltremanica Enzo Ferrari. Secondo Michael Mann, naturalmente, bisognerebbe aggiungere; se non fosse che Ferrari era davvero un uomo così: risoluto e determinato a conseguire i propri scopi. E gli scrupoli, morali, etici, umani? Quelli ti facevano arrivare secondo e l’Ingegnere voleva vincere, anzi, stravincere. Una filosofia, nel complesso, deprecabile, è chiaro, eppure l’ossessiva capacità dell’imprenditore emiliano di stare concentrato sul suo punto focale aveva anche dei lati positivi. 

Ad esempio, quando, nel film, dichiara “la Jaguar corre per vendere automobili. Io vendo per correre” rivela come sottoponga gli interessi alla pura passione, e questo è sicuramente un merito oltre che uno dei motivi che ne hanno fatto un mito del XX secolo. Un altro dettaglio, in questo senso, non troppo approfondito nel film di Mann ma comunque molto presente, è l’attenzione alla “purezza” delle sue vetture: le Ferrari erano auto da corsa e non cartelloni pubblicitari a quattro ruote, come già cominciavano ad essere, ad esempio, le Maserati, su cui, nel film, si vede campeggiare la pubblicità della Buitoni. Sembra più interessato, Mann –per sottolineare questa necessità di Ferrari di restare concentrato sul primo obiettivo, imporsi in tutti i modi possibili– quando fa notare come l’Ingegnere fosse infastidito dalla presenza delle belle ragazze intorno ai suoi bolidi, a cominciare dall’attrice Linda Christian (Sarah Gadon), fidanzata del pilota Alfonso De Portago (Gabriel Leone). I fotografi e i giornalisti, categorie con le quali Ferrari aveva in quel periodo ulteriori noie, venivano, infatti, distratti dalle «carrozzerie» sbagliate, trascurando quelle delle sempre fiammanti vetture. Questa filosofia che permea la Ferrari come idea, come concetto, e che deriva dal suo creatore, non è secondaria: perché Ferrari è sinonimo di automobile sportiva, e quindi di lusso per definizione; il che significa che è l’essenza stessa del capitalismo, come una nota pubblicità efficacemente sintetizzava nella definizione «motus symbol». Che il prodotto per eccellenza del sistema capitalistico rifiutasse, in un certo senso, di mercificarsi ulteriormente divenendo mezzo pubblicitario, è un aspetto della questione interessante.

Ma questi elementi, per quanto siano ovviamente presenti, sono meno oppressivi del tema della morte, che, con la sua onnipresenza, permea tutta quanta la storia raccontata dal film. Il film si apre con il notevole incipit, nel quale Ferrari si sveglia e lascia nel letto la donna, saluta il ragazzino ancora addormentato e lascia il casolare: sembra una normale scena famigliare; in realtà si trattava dell’amante e del figlio illegittimo. Poi l’uomo si reca al cimitero a trovare il figlio Dino, morto l’anno prima, ma, nella scena, sullo sfondo, si vede anche la tomba del fratello di Enzo, che si chiamava Dino a sua volta, anch’egli defunto. Poi ci sono le morti dei piloti: Eugenio Castellotti (Marino Franchitti) e il già citato de Portago, infine le vittime dell’incidente di Guidizzolo, nove spettatori tra cui cinque bambini, avvenuto durante la Mille Miglia. La morte incombe sul film di Mann e sulla figura di Ferrari che, nell’incapacità di gestire quella del figlio Dino, mostra una debolezza umana che, se non altro, ispira un minimo di commiserazione ed empatia. Per il resto, per la noncuranza con cui arruola de Portago, fino ad allora completamente ignorato, mentre Castellotti giace ancora sulla pista –come detto, morto in incidente al volante di una delle sue auto da corsa– Ferrari è una persona per la quale è impossibile provare una qualche forma di apprezzamento. E viene da chiedersi, quindi, perché Mann abbia voluto fare un film biografico su una persona tanto meschina, una persona vile che tradisce la moglie ma che, quando viene scoperto, confessa subito, con la scaltrezza di chi si rende conto con tempismo perfetto di quando è ora di abbandonare la nave. Non ha niente di eroico, Enzo Ferrari: le sue auto primeggiano le gare perché egli sacrifica tutto quanto sull’altare della vittoria, prime fra tutte le vite dei suoi piloti. Ma sono le auto a vincere, non lui; Ferrari non è un pilota. È un imprenditore, e, anche sotto questo profilo, Mann non ci racconta niente di straordinario del suo lavoro, se non che sa mentire ai giornalisti, all’avvocato Agnelli o in qualsiasi altro contesto che gli sia utile; mentire è, del resto, un’attività a cui, nella vita privata, si è specializzato, conducendo una doppia vita alle spalle della moglie. 

La Cruz, nella sua interpretazione, è quasi l’incarnazione della morte che accompagna quest’uomo ordinario che l’ottusa cocciutaggine ha trasformato in un’icona immortale del  nostro tempo. E qui si comincia a delineare meglio l’intento del regista americano; anche perché Ferrari non può certo dirsi un film di genere sportivo. Per la verità, probabilmente a Mann, da americano, sarebbe anche piaciuto, fare un film sulle corse: le sequenze sulla pista e sulla strada sono, infatti, eccezionali, del resto il cineasta statunitense è un maestro nello sfruttamento della maestosità del grande schermo. Le scene degli incidenti, poi, sono stupefacenti, in particolar modo quella con lo schianto di Guidizzolo con tutte quelle vite umane falciate da una morte che, mai come in quell’occasione, vola dipinta di rosso su quattro ruote. Quello del pericolo, dell’ebbrezza del brivido è un tema importante, perché è uno degli ingredienti di quel mondo in cui si muoveva Enzo Ferrari, e che gli permise di ritagliarsi una figura statuaria sull’ordinarietà delle persone comuni. Tuttavia, come detto, Ferrari non era un pilota, ci aveva provato, in gioventù, ma non ne aveva la stoffa, la tempra; in concreto, come mostrato implacabilmente dal film di Mann, il Drake era un uomo ordinario. Un imprenditore scaltro ed opportunista, unicamente proteso ad ottenere il massimo, senza lasciarsi toccare da ciò che gli accade intorno: il perfetto capitalista. E se gli occhiali neri, perennemente indossati, potevano servire a nasconderne l’anima nera, ma sono anche un dettaglio biografico, l’opera di Mann, che differenzia le tecniche di ripresa del protagonista e della moglie al cospetto della tomba del figlio, esprime il concetto in campo prettamente cinematografico. 

In risposta ad una sequenza frammentaria, significativa di una personalità scomposta, opportunistica a seconda delle esigenze, tipica di Ferrari, il regista regala un monumentale primo piano di rara intensità alla Cruz che lo ripaga con tutta la sua potenza espressiva. Il personaggio interpretato da Penelope Cruz nel film Ferrari è una grande donna; Enzo, un uomo incapace di comprendere la morte del figlio e, in questa sua debolezza, c’erano, come già accennato, le uniche note, se non positive, quantomeno umane della sua persona. Ma se il protagonista è discutibile e il tema, quello sportivo, non è centrato –in fondo Ferrari, in prima persona, non rischia la vita ma soltanto soldi– qual è la ragion d’essere del film di Mann? Forse, noi italiani potremmo essere favoriti, nel comprenderlo, nel momento in cui riusciremo a levarci il fastidio di vederci dipinti come una cartolina stereotipata. Ferrari di Mann è solo l’ultimo di una serie di film hollywoodiani ambientati nel Belpaese –qualche passaggio in Rush [2013, di Ron Howard] e Lamborghini – The man behind the legend [2022, di Bobby Moresco], per rimanere in ambito sportivo, ma anche e soprattutto Tutti i soldi del mondo [All the money in the world, 2017, di Ridley Scott] e House of Gucci [2021, sempre di Scott], dove troviamo lo stesso Adam Driver di Ferrari come protagonista– che mostrano l’Italia con l’utilizzo di una serie di cliché ambientali un filo troppo pacchiani. Una sensazione fastidiosa, per la verità, osservando questi elementi dei film dal punto di vista di chi quel paese, rappresentato in modo tanto superficiale, lo conosce nel profondo. Poi va detto che perfino la Walt Disney, in collaborazione con la Pixar, ha recentemente scelto l’Italia del boom economico come luogo esotico per ambientarci Luca [2021, di Enrico Casarosa] e, forse, l’operazione di stilizzazione necessaria a realizzare un film d’animazione può aiutare a capire. 

Forse Michael Mann, Ridley Scott e Ron Howard nella loro rappresentazione dello Stivale zeppa di luoghi comuni non fanno nient’altro che quello che ha sempre fatto il cinema: semplificare la realtà, per raccontare qualcosa in più, o di diverso, della semplice descrizione della stessa. Per capirci: il western è un genere che utilizza una serie sconfinata di stereotipi –il cowboy, lo sceriffo, il bandito, gli indiani, i soldati, ecc. ecc.– e non è per nulla attendibile dal punto di vista storico. Il western classico ebbe il compito di fungere da epica degli Stati Uniti e, in questo senso, è davvero poco rispettoso della realtà, basti pensare all’utilizzo strumentale che fece della Monument Valley, paesaggio scenografico di grandissimo impatto ma usato sostanzialmente senza alcun rigore storico. Quello che salta fuori, da questa intuizione, è che, probabilmente, in Italia si è sottovalutato l’importanza del periodo che dagli anni Sessanta arriva forse fino ai Novanta: in mezzo ci furono i Settanta, i terribili anni di piombo, è vero, ma è in questi tempi che, nel mondo, si affermò il marchio Made in Italy e, forse ancor più, prese piede l’idea dell’Italian Style. Valentino, Gucci, Armani, Versace per la moda, Ferrari, Lamborghini, Maserati, per le auto, e, nell’ambito del bello e del buon gusto si potrebbe andare avanti ancora a lungo, sono nomi che rappresentano la massima espressione della cultura capitalista, e questo laboratorio di idee artistiche alla ricerca della bellezza, non furono gli Stati Uniti, la potenza dominante economicamente, e neppure il Regno Unito, che ancora si ergeva come baluardo dell’Ancien Regime, e neanche la Germania, che, nel frattempo, tornava prepotentemente alla ribalta sul piano industriale. Il luogo dove il mondo occidentale trovava ancora una volta la sua massima espressione artistica, era, come nel Rinascimento, l’Italia.
Ed Enzo Ferrari, con i suoi limiti di uomo, ne fu uno dei massimi artefici: il film di Mann, splendido, anche in questa chiave di lettura, è il degno tributo di Hollywood alla sua grandezza.  


Penelope Cruz 



Shailene  Woodley 


Sarah Gadon 





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