Translate

lunedì 29 luglio 2024

LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA

1520_LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA (Ford v Ferrari). Stati Uniti 2019; Regia di James Mangold.

Sembra paradossale, ma, in Le Mans ’66 – La grande sfida, un film che dura oltre due ore e mezza e per il quale è stato profuso l’impressionante budget di un centinaio di milioni di dollari, i punti decisivi per il risultato positivo sono alcuni passaggi fugaci. Come il cenno di Enzo Ferrari (Remo Girone) a Ken Miles (un formidabile Christian Bale), tributo al vincitore morale nella 24 di Le Mans appena terminata. Oppure quello tra Carroll Shelby (Matt Damon) e Mollie (Caitriona Balfe), fresca vedova proprio di Miles, il pilota protagonista del film dell’apprezzato regista James Mangold. C’è anche il dettaglio del cappello di paglia, rimasto appeso e inquadrato prontamente da Mangold quando la Ford GT40 si schianta esplodendo: la ripresa non si avvicina, lasciano le fiamme che stanno divorando la vita di Miles sullo sfondo, con un riguardoso rispetto per la morte che solo un ambiente dove la si sfiora e corteggia costantemente – quello delle corse ma anche quello del cinema– può conoscere. Quest’ultimo passaggio porta con sé per sua natura un altro tasso di drammaticità, dal momento che il film è ispirato ai fatti reali e Ken Miles morì davvero nell’agosto del 1966, sul circuito di Riverside, mentre collaudava la nuova Ford da competizione. Gli altri due passaggi citati hanno invece un’importanza prettamente cinematografica e, trattandosi di una produzione americana, la loro valenza metaforica sociale è palese: Hollywood è l’America assai di più di qualsiasi centro produttivo cinematografico può esserlo del proprio paese d’origine. Il saluto che si scambiano Shelby e Mollie, nel finale, è un saluto che sembra un addio e chiude ad ogni possibile lieto fine sentimentale. D’accordo, il film è basato sulle cronache e, evidentemente, tra la vedova di Miles e il costruttore di auto sportive non ci fu mai nemmeno un flirt. Ma, in questo senso, qual è l’utilità di questa «chiusa»? Le Mans ’66 – La grande sfida non è un film così rigoroso in senso storico, gli errori e gli aggiustamenti che gli sceneggiatori hanno fatto, per rendere più avvincente racconto e ambientazioni, non si contano. 

Ergo, Shelby sarebbe potuto passare almeno a salutare la vedova dell’amico, invece se ne va; il film di Mangold, se riconosce alla famiglia un valore nell’intesa, pur tribolata, tra Miles e Mollie, non lascia concessioni per il futuro. E, in un film che non è tanto una metafora del Sogno Americano ma la sua diretta ed esplicita concretizzazione su grande schermo, non è un segnale molto incoraggiante. Il titolo originale del film è Ford v Ferrari, così, senza troppi mezzi termini: americani contro europei, con il continuo tirare in ballo la Seconda Guerra Mondiale a ricordare che gli abitanti del Vecchio Continente sono i «cattivi» della situazione. Questo ricorso ai toni bellici è alimentato a dovere da Mangold: Ford è un simbolo potente dell’America e per tutta la fase di preparazione del film, il regista spinge forte sul nazionalismo ai limiti dello sciovinismo. Ad esempio, il fatto che, al tempo, fosse diffusa l’opinione, soprattutto in Europa, che la casa americana non producesse auto sportive competitive non è considerato una semplice costatazione della realtà dei fatti, ma una sorta di offesa alla dignità yankee. In quest’ottica, tanto per non sbagliare, viene imbastito anche un triste teatrino, dove Enzo Ferrari in persona insulta pesantemente Henry Ford II e utilizza l’inganno strumentale a danno degli americani per spuntare un prezzo migliore nella trattativa con l’Avvocato Agnelli. Che ci fosse rivalità anche personale tra i due boss di Ford e Ferrari è noto, così come è noto che l’Enzo nazionale non fu certamente uno stinco di santo; il passaggio di Mangold è, tuttavia, stilizzato rozzamente ai limiti della caricatura. Insomma, gli americani sono i buoni e, partendo da zero –beh, considerando i capitali a disposizione, non proprio zero, ma vabbè– riusciranno a sconfiggere –ancora una volta, ricordatevi la Guerra Mondiale– i cattivi, gli europei. In tutto questo, gli eroi sono Shelby, ex campione a Le Mans, ritiratosi per un un problema cardiaco e ora costruttore di auto sportive, e l’individualista, ribelle e squattrinato Ken Miles: la loro rivincita è il Sogno Americano al quadrato.   

Ma si diceva di quel cenno, tra Miles e Ferrari, che il Drake rivolge al pilota dopo la fine della gara che ha sancito il trionfo degli americani. Basta quel rapido movimento, per restituire interamente la dignità al «grande ingegnere» di Maranello e cambiare interamente la prospettiva del racconto che si era srotolato fin lì. Questo, per altro, era semplicemente l’ultimo tassello, quello che faceva quadrare definitivamente il mosaico, e rendeva chiaro tutto quanto il disegno complessivo. I cattivi non erano gli europei, ma i «colletti bianchi» della Ford, con il tycoon, nel suo caso dipinto in modo più che caricaturale, in testa ma tutti gli altri giovani rampolli del gruppo manageriale a fargli da degno corollario. Il peggiore, per distacco, è Leo Beebe (Josh Lucas), storico direttore di corsa della Ford che, con l’idea pubblicitaria e per nulla sportiva dell’arrivo in parata delle auto del team, vanificò la legittima vittoria di Miles. Il pilota di origine britannica era primo con considerevole vantaggio e venne invitato dal box a rallentare per aspettare le due GT40 che lo seguivano: Miles non voleva sentir ragioni ma, alla fine, fu convinto ad accettare di frenarsi. L’arrivo delle auto affiancate provocò, tuttavia, un ribaltone in classifica, perché l’equipaggio Bruce McLaren/Chris Amon, essendo partito da una posizione più arretrata, aveva quindi percorso più metri rispetto a quello di Ken Miles/Denny Hulme. La 24 ore di Le Mans è infatti una corsa in cui il parametro fisso è il tempo –le 24 ore, appunto– pertanto la discriminante per stabilire il vincitore è la distanza percorsa. Le cronache riportano che Beebe fosse ben informato che l’arrivo in parata non poteva in nessun caso corrispondere ad un ex-aequo, essendo diversa la distanza coperta dalle vetture, tuttavia antepose la possibilità di una immagine trionfale al rispetto per lo spirito sportivo e per il rischioso e duro lavoro dei suoi piloti. Il problema, per il Sogno Americano, era stato nel corso del tempo minato al suo interno: il ricorso ai manager, da parte degli imprenditori, creava un ostacolo insormontabile alla realizzazione personale di chi partisse dal basso e cercasse di emergere. I vertici professionali non erano infatti più un premio ai lavoratori meritevoli, ma spettavano per diritto d’ufficio ad una casta che veniva preparata e formata «ad hoc» e di cui il Beebe del film di Mangold è un perfetto esempio.

A questo punto, tra l’altro, sorge un sospetto sinistro: in principio, nel racconto, viene ricordato più volte il conflitto mondiale, e, non a caso, le scuderie «nemiche» sono Porsche, tedesca – con cui Miles manda a monte l’accordo che Shelby aveva già quasi concluso– e Ferrari, italiana. Proprio i nemici degli americani nella guerra, appunto. Soltanto che, in seguito, scopriamo che i veri cattivi della storia, erano i «colletti bianchi» americani. Come noto, il paragone come figura retorica ha, tra le sue proprietà, quello della reversibilità, il che ci porterebbe a rivedere valutazioni ormai consolidate sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma non è questa la sede e, in ogni caso, ci basta e avanza il dubbio che Mangold riesce ad instillarci.  
Tornando strettamente a Le Mans ’66 – La grande sfida –se ci si tura il naso per la prima parte intrisa di uno sciovinismo degno di Michel Vaillant– si tratta di un buon film, divertente, con ottime scene di pista e auto spettacolari come la Ford GT 40 MkII del protagonista e la rivale Ferrari 330 P3. Quei tre tocchi citati, riescono, in ogni caso, a giustificare la prospettiva del racconto filmico, rimettendo in carreggiata un po’ tutto quanto. Va detto che, il titolo originale, Ford v Ferrari riveli come, almeno dal punto di vista italiano, venga a mancare un po’ di fascino complessivo. Comprensibile, quindi, la scelta dei distributori del Belpaese di non utilizzare il titolo americano: in Italia, infatti, nessuno si sognerebbe di mettere in antagonismo un marchio di auto generiche come Ford con l’assoluta regina planetaria della velocità in pista, la Ferrari. La scuderia del Cavallino Rampante, nella sua lunghissima storia, ha perso numerose battaglie –come a Le Mans nel 1966, appunto– ma ha raccolto soprattutto tantissime vittorie, probabilmente come nessun’altro marchio. Ottenute cercando di mantenere, nonostante le mille insidie politiche e di giochi di squadra, la barra dritta sullo spirito sportivo della contesa in pista.
La Ford, quando vinse la sua prima corsa a Le Mans, una delle gare più prestigiose del mondo, trovò il modo di trasformarla in una sfilata degna di un concessionario di automobili usate.  
E questa è la differenza. 





Galleria 







Nessun commento:

Posta un commento